Maremoto nell’Oceano Indiano:

un disastro naturale?

Sono bastate poche settimane e la catastrofe del 26 dicembre è quasi scomparsa dall’informazione rivolta al "grande pubblico". Nonostante ciò pensiamo sia importante riflettere su quanto accaduto, sulle reali responsabilità che stanno dietro al disastro, sulla natura e sulle effettive finalità degli interventi "umanitari" e su come, a nostro avviso, i lavoratori possono e devono iniziare ad interpretare e ad intervenire in simili situazioni.

Nelle settimane immediatamente successive al maremoto che ha devastato parte del Sud-Est asiatico si è assistito in tutto l’Occidente all’apparente trionfo di uno spirito "umanitario" ed "unitario" senza precedenti. Governi ed opposizioni, organismi istituzionali e "non governativi", tutti comunemente impegnati in una grande "gara di solidarietà", tutti uniti ed affratellati dalla comune tensione ad andare in soccorso a quelle "sfortunate" popolazioni. Ad ascoltare questo coro, infatti, la colpa di quanto accaduto sarebbe stata di un destino crudele e di una natura matrigna che improvvisamente ha deciso di sfogare la sua furia cieca e distruttrice nelle regioni bagnate dall’oceano Indiano. Le cose stanno in maniera diversa. Il primo e vero responsabile del disastro abbattutosi sulle coste asiatiche non è da ricercarsi nello scatenamento "incontrollabile" della forza degli elementi, ma nell’azione di plurisecolare rapina e devastazione operata dal capitalismo occidentale ai danni di quei paesi. Esagerazioni? Vediamo un po’.

 

Si era saputo per tempo.

Sulla Repubblica del 27 dicembre, in un’intervista relegata all’interno, il sismologo Boschi tra l’altro dice: "Poiché gli tsusami sono particolarmente frequenti nel Pacifico, tra la California ed il Giappone c’è un filo diretto: un flusso continuo di informazioni fa sì che le due sponde dell’oceano siano sempre reciprocamente avvertite in tempo reale di ogni rischio. In Giappone inoltre esiste un sistema di emergenza particolarmente efficiente e sofisticato: arrivano ad alzare in pochissimo tempo uno sbarramento in grado di bloccare l’onda anomala fuori dai porti."

Sempre La Repubblica, tra le righe, ci informa che il "Centro di allerta maremoti per il Pacifico" aveva registrato ampiamente per tempo la scossa tellurica del 26 dicembre, ma non è stato in grado di avvertire dell’incombente pericolo nessuna struttura dei paesi interessati per il semplice fatto che tali strutture in questi paesi non vi sono. Il motivo? Costano troppo e quindi possono permettersele solo nazioni ricche. E così, come conferma C. McCreery (direttore della statunitense "Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica" di Honolulu), l’Australia e la marina militare Usa sono state anticipatamente informate di quanto si stava preparando, mentre paesi come Indonesia, Sry Lanka, Thailandia, Bangladesh e Somalia (dove l’onda è giunta addirittura dopo alcune ore e, nonostante ciò, ha provocato decine di morti) sono restati all’oscuro fino all’ultimo. Inoltre J. Rifkin nota (L’Espresso, n. 1, 2005) come una buona fetta delle popolazioni colpite dal maremoto non avesse alcun accesso all’energia elettrica e come ciò avrebbe reso ancor più difficoltoso allertare per tempo quelle zone.

In sintesi: gli strumenti ed i mezzi che avrebbero permesso di salvare decine e decine di migliaia di vite umane c’erano, ci sono e sono ampiamente sperimentati, ma chi è povero non può permetterseli. Quello che però la stampa (compresa quella, a volte, meno indecente) non dice è che questa povertà di massa ed assassina è il diretto prodotto di cinquecento anni di colonialismo prima e, adesso, della ancor più usuraia e "raffinata" azione dei centri della finanza internazionale che, guarda caso, sono impiantati proprio qui,

 

Una scienza cieca

Il dramma del maremoto però non dice "soltanto" come la scienza e la tecnica siano unicamente ed esclusivamente a disposizione di quel pugno di nazioni ricche che sfruttano e dominano il globo terrestre. Il maremoto (al pari di tutte le catastrofi che ogni volta vengono spacciate per "inevitabili e naturali") dice anche come e quanto le leggi di funzionamento del capitalismo rendano sempre più distorto lo sviluppo tecnico e scientifico.

Su vari giornali è venuta fuori una minuscola notizia: le popolazioni delle isole indonesiane Nias e Simeuleue hanno avuto un numero limitatissimo di vittime nonostante le loro terre siano state tra le prime e le più violentemente colpite dall’onda. Il motivo? Semplice. Queste popola

zioni sono tra le meno toccate dalla nostra civiltà e vivono in uno stato semi-naturale. Ebbene questi cosiddetti "selvaggi" hanno conservato la capacità di saper interpretare i segnali che la natura manda. Hanno letto per tempo i movimenti degli animali e del mare e si sono rifugiati sulle alture mentre la vegetazione, praticamente intatta, ha frenato l’irruenza dell’acqua. Inoltre da generazioni sapevano di non dover costruire villaggi in zone esposte agli tsunami. Risultato: quasi tutti salvi.

Quale era invece la situazione nelle zone più sviluppate e civilizzate? La tecnica produttiva è stata utilizzata nella distruzione di secolari foreste di mangrovie per far posto alle spiagge "formato valtur"; la tecnica urbanistica si è sbizzarrita nel costruire in riva al mare villaggi turisti

ci, aeroporti, alberghi super moderni e ad ammassare intorno a tutto ciò la massa della popolazione povera atta ad esser sfruttata dalla macchina turistica occidentale. Risultato: una strage mostruosa.

Qui non si tratta assolutamente di idealizzare "il bel tempo antico". Tutt’altro: si tratta di riflettere su come la scienza e la tecnica asservite alle leggi del profitto non solo siano spesso assolutamente incapaci di difendere le popolazioni dalle "arrabbiature" della natura, ma molte volte addirittura contribuiscano ad aggravarne enormemente i danni. È il capitalismo che trasforma lo sviluppo tecnico e scientifico da fattore che dovrebbe (e potrebbe) tutelare e migliorare le generali condizioni della specie umana in un pericoloso e cieco mostro.

 

Buoni affari per le "nostre" ditte

Mentre qui da noi l’attenzione dei mezzi di comunicazione era per lo più concentrata sul "problema" dei turisti italiani ed occidentali che (poverini) erano stati sconvolti nel bel mezzo di una vacanza esotica (comprensiva talvolta di bambina thailandese da violentare); mentre stampa e televisioni propinavano interviste in cui "vip" come la Muti, Abatantuono o Zambrotta raccontavano delle loro "tremende vicissitudini" da turisti dorati; mentre si assisteva a un simile schifo, i consigli d’amministrazione delle multinazionali completavano i propri calcoli.

Innanzitutto le grandi compagnie assicurative internazionali tirano un sospiro di relativo sollievo: a ben vedere vanno rimborsati solo i danni provocati alle strutture turistiche. Le famiglie ed i piccoli esercenti locali erano troppo poveri per assicurarsi. In tutto 5 miliardi di dollari: un settimo rispetto a quanto hanno dovuto sborsare per i danni provocati nel 2004 dagli uragani negli Usa. Ma non si tratta solo di questo, di un risparmio superiore alle primissime stime. Lo tsunami ha provocato più di trecentomila morti e milioni di sfollati, ma a conti fatti può rappresentare una favorevole occasione per fare profitti. Gli ambienti finanziari (è l’emittente radiofonica della confindustria a sottolinearlo) cominciano sin da subito a guardare con notevole interesse alla possibilità di grandi affari per le multinazionali operanti nel settore dell’edilizia e delle infrastrutture che potrebbero accaparrarsi le commesse per le ricostruzioni delle martoriate coste indonesiane, srylankesi, thailandesi, ecc. Siamo tranquillamente pronti a scommettere che buona parte degli "aiuti" internazionali andranno (di dritta o di storta) a finire proprio nelle casse di queste mega-imprese per lo più a capitale europeo, statunitense e giapponese. E consigliamo anche di scommettere sul fatto che ad essere ricostruite saranno innanzitutto (e probabilmente soltanto) le strutture e le infrastrutture turistiche che già sono, e che ancor più finiranno per essere, nelle mani dei potentati borsistici di Washington, Londra, Parigi e Roma.

 

Una mela avvelenata

I cosiddetti "aiuti umanitari" (come hanno imparato sulla loro pelle le popolazioni della ex-Jugoslavia) non servono "solo" a sottomettere ulteriormente le economie dei paesi del Sud e dell’Est del mondo contribuendo a scardinarne la già debole struttura produttiva a tutto vantaggio delle nostrane imprese. Le "generose" concessioni di aiuti hanno anche altri fini.

Il viaggio del segretario di stato Usa Powell in Indonesia (la nazione islamica più popolosa al mondo), le sue promesse di grandi aiuti e le sue dichiarazione sulla necessità di coordinare gli interventi internazionali tramite l’Onu mirano a presentare presso le popolazioni dell’area il "volto umano" degli Stati Uniti. Le dichiarazioni e gli interventi dei vari governi europei puntano allo stesso fine. In un momento in cui, soprattutto a causa dell’aggressione all’Iraq, forte è la crescita tra le masse lavoratrici musulmane di ogni dove dell’odio e della diffidenza verso l’intero mondo occidentale, una simile operazione di chirurgia estetica è più che mai necessaria.

Ma c’è dell’altro: "interventi umanitari" e ingerenza militare vanno a braccetto (pure qui la Jugoslavia insegna) anche quando le apparenze sembrano dire il contrario.

Ad esempio: un importante punto nell’agenda degli "aiuti" pare dovrebbe essere costituito dalla costruzione nella regione di una rete altamente tecnologica per il monitoraggio e il pronto rilevamento di eventuali futuri terremoti e maremoti. A prima vista sembrerebbe un’iniziativa "nobile e utile". Ma, casomai la si mettesse davvero in piedi, la gestione di una simile rete non verrebbe certo "regalata" alle popolazioni interessate. Essa, per via diretta o meno, resterebbe nelle mani delle strutture "civili" e soprattutto militari dei "donatori". E non ci vuole molta fantasia per comprendere che il suo utilizzo diverrebbe principalmente quello di supporto ad un più capillare controllo militare dell’intera area (sempre più strategicamente importante anche in funzione anti-cinese) da parte dei "benefattori" occidentali. Una rete di rilevamento sismico sarebbe davvero utilissima, ma senza una lotta di quelle popolazioni per appropriarsene realmente essa, da potenziale strumento di prevenzione, diventerebbe un ulteriore arnese per l’oppressione e il dominio della regione.

Del resto, che dietro gli "aiuti" si nasconda anche il tentativo di rafforzare la presenza militare Usa e (fatte le dovute proporzioni) europea se ne è reso conto anche un governo come quello indonesiano. Non è infatti un caso se questo governo, che non è certo tra i massimi campioni della resistenza all’Occidente, ha intimato agli Usa e soci di ritirare al più presto tutti i militari impegnati in "missione umanitaria" dal proprio territorio e se allo stesso tempo ha limitato di molto la libertà d’azione di quello sciame di organizzazioni "non governative" più o meno istituzionali che sempre ruotano intorno a simili "faccende".

 

La solidarietà dei lavoratori

All’indomani della tragedia non si è assistito solo al volgare sfoggio della carità pelosa dei vari governi, delle serate di gala o dei consigli d’amministrazione. Anche molti lavoratori (e la cosa ha un significato totalmente diverso) si sono giustamente chiesti cosa fare per dare una mano alle popolazioni tanto duramente colpite. A tal proposito ci siano consentite due piccole e schematiche riflessioni finali.

Primo: voler andare incontro alle popolazioni su cui si è abbattuto lo tsunami è giustissimo. Ma è bene ragionare collettivamente su come e quanto sia altrettanto giusto e necessario iniziare a porsi concretamente il problema di come aiutare anche altre popolazioni, che come quella irachena e palestinese, da anni subiscono l’ancor più devastante tsunami delle bombe e dell’occupazione occidentale.

Secondo: in vari luoghi di lavoro si sono fatte delle collette. Ciò può costituire un primo passo, ma con alcune accortezze. All’epoca dell’aggressione contro la Jugoslavia, tramite la cosiddetta "missione arcobaleno", si tentò (e in buona parte si riuscì) a canalizzare lo spontaneo istinto di solidarietà di tanti lavoratori verso le popolazioni bombardate in una sorta di sostegno alla guerra e all’occupazione Nato dei Balcani. In simili casi per evitare che la spinta alla solidarietà finisca per essere strumentalizzata a ben altri fini rispetto a quelli dichiarati sono necessarie almeno due cose. Che le raccolte di fondi siano accompagnate da una chiara denuncia delle vere cause e dei veri responsabili di quanto accaduto e che si operi un diretto controllo da parte dei lavoratori su dove e a chi finisce quanto raccolto.

A tal proposito, ad esempio, il nostro suggerimento e la nostra azione sui posti di lavoro è stato quello di concordare la raccolta e la gestione dei fondi (laddove possibile) con le organizzazioni di lotta dei lavoratori immigrati asiatici. Ciò non solo per una maggiore "trasparenza", ma –soprattutto– per costruire un momento di contatto diretto tra proletari italiani e proletari immigrati. Un contatto questo, che se si vuol dare davvero battaglia affinché disastri come quello del 26 dicembre non si possano mai più ripetere, dovrà estendersi e saldarsi sempre più attorno ad una comune battaglia per un mondo in cui la tecnica e le scienze divengano patrimonio dell’intera umanità e siano finalizzate al suo armonioso sviluppo.