Dove va l’Italia?

Le politiche dettate dai mercati

si possono fermare!

Tutte le ipotesi in campo di uscita alla "crisi italiana" sono ipotesi politiche dettate in ultima analisi dai mercati. In esse gli interessi dell’azienda singola o dell’Azienda-Italia o dell’Azienda-Europa sono il punto di riferimento principe, mentre gli interessi, i bisogni, le aspettative dei lavoratori non sono che una variabile totalmente subordinata.

I lavoratori, da parte loro, giungono a questa strettoia in una situazione di difficoltà sul piano dell’organizzazione sindacale e sguarniti di una propria coerente difesa politica. Grazie anche alla politica delle direzioni del movimento sindacale e della sinistra, siamo giunti al punto in cui i lavoratori rimangono paralizzati alle volte persino dinanzi alla chiusura delle fabbriche. Se disgraziatamente continueremo così, a subire in questo modo, il precipizio nell’abisso è sicuro. È sicuro perché a questo porta la falsa promessa implicita in tutte le politiche dello schieramento padronale e politico ufficiale: la promessa che i lavoratori potranno scampare dalla tempesta scaricando sui lavoratori di altri paesi i costi della concorrenza e che sarà tenuta in considerazione la loro fedeltà alla "loro" azienda.

 

Gli altri, prima o poi,siamo noi.

L’esperienza, però, ci insegna innanzitutto che gli altri prima o poi siamo noi, che il rilancio di competitività delle nostre aziende impone una reazione uguale e contraria nelle imprese degli altri paesi in una spirale al ribasso senza fine.

L’esperienza ci insegna, in secondo luogo, che le direzioni aziendali se ne fregano di noi, ci considerano semplici numeri. Quanti lavoratori messi in mobilità negli ultimi mesi hanno denunciato questo fatto, a Terni a Mirafiori a Treviso, che i mercati e i poteri che li reggono non ci pensano due volte a calpestare la dignità dei lavoratori, a spezzare la vita delle loro famiglie, se lo richiedono i profitti e la competitività aziendali!

È tempo di prendere atto che il mercato capitalistico dell’auto, del tessile, dell’alimentare non è più in grado di offrire i posti di lavoro che, in quantità e qualità, ha garantito finora. La difesa di questi ultimi, dei diritti e della dignità dei lavoratori non può più andare di pari passo, come in una certa misura è successo fino a qualche anno fa, con la difesa e l’espansione dei profitti capitalistici. Essa può risultare solo dall’organizzazione di una battaglia generale contro il padronato, il governo e l’apparato internazionale del potere capitalistico che miri a bloccare le politiche dettate dalle leggi del mercato capitalistico e non ad invocarne l’applicazione a quegli "imprenditori sani" guidati da Montezemolo che fanno parte appieno dei poteri che conducono l’attacco contro i lavoratori. Se non vogliamo mettere la nostra testa dentro il cappio da soli, dobbiamo rilanciare con forza la nostra autonomia dalle aziende, dal mercato, dalle politiche che sottostanno a tutto questo.

 

Possiamo farlo!

L’abbiamo questa forza?

Sì. Almeno in potenza. Perché siamo coloro che con le loro mani mandano avanti la società, fabbricano le automobili, la pasta, le case, i maglioni, guidano le ferrovie, fanno funzionare le centrali elettriche, ecc. Perché la precarizzazione e la polverizzazione delle fabbriche di cui si parla per scoraggiarci è in realtà un enorme processo di proletarizzazione che avvicina agli operai e alle loro esigenze, più di quanto non si creda, l’insieme del mondo del lavoro. E perché intorno alle nostre lotte, quando sono determinate e sanno lanciare un messaggio chiaro agli altri proletari, si crea un campo di simpatia come si è visto con la lotta di Melfi, con le lotte più significative avvenute in Occidente nell’ultimo decennio (lo sciopero ad oltranza in Francia del 1995 e la lotta dei lavoratori dell’impresa statunitense Ups) e come si è visto da ultimo anche con lo sciopero dei ferrovieri dopo l’"incidente" di Crevalcore.

Certo, questa forza dobbiamo mobilitarla. E dunque le iniziative in programma, dallo sciopero del gruppo Fiat dell’11 marzo agli scioperi locali e aziendali contro i licenziamenti, vanno portate avanti come momenti di preparazione di una lotta generale, un qualcosa di ben diverso dagli scioperi generali isolati che, come è accaduto anche il 30 novembre scorso, hanno l’effetto di smobilitare piuttosto che quello d’incoraggiare la scesa in campo dei lavoratori, particolarmente quelli precari, immigrati o dispersi nelle piccole fabbriche. E, soprattutto, a questa forza dobbiamo dare un indirizzo ed un’organizzazione che tornino ad affermare senza titubanza le nostre esigenze indipendentemente dalle compatibilità aziendali e si preoccupino di ridurre la polvere sottile che permette ai capitalisti di far valere come inesorabili le leggi dettate dalla concorrenza tra le imprese: la concorrenza tra lavoratori.

 

Cominciamo da qui!

È evidente che questo impone di non limitare più il nostro raggio d’azione entro i confini nazionali. È ora di finirla con il lamento sulla concorrenza "sleale" dei lavoratori dell’Est europeo o dell’Estremo Oriente. O invocare contro gli effetti di essa un intervento delle istituzioni statali, quelle stesse istituzioni che hanno fatto e fanno di tutto per precipitare le condizioni dei lavoratori della Serbia, della Romania, ecc. anche con la guerra, come è successo con l’aggressione alla "ex"-Jugoslavia nel 1999. Forse adesso è diventato più chiaro uno degli obiettivi dell’intervento "umanitario" capitanato da Clinton-D’Alema: la conquista di manodopera a basso prezzo in Serbia e nei paesi confinanti dove ora delocalizzano le imprese italiane e tedesche. L’unico argine possibile contro la globalizzazione del capitale è l’internazionalizzazione dell’organizzazione proletaria per la parificazione verso l’alto delle condizioni di lavoro vigenti nei vari continenti e per l’opposizione intransigente alle politiche (compresa quella delle "guerre umanitarie") finalizzate a diversificare e a spingere verso il basso le "tutele del lavoro".

In questo non ha senso aspettare che siano i lavoratori degli altri paesi, quelli ancor più ricattati di noi, a fare il primo passo. Cominciamo a fare la nostra parte qui in Italia, dove viviamo e lavoriamo, e sulla base di ciò tendiamo la mano ai nostri fratelli di classe dell’Est e del Sud. Cominciamo a batterci per arrestare qui in Italia il nastro trasportatore del rilancio continuo della concorrenza tra lavoratori, dall’Est al cuore dell’Europa, da qui agli Stati Uniti, dagli Usa di nuovo all’Est, ecc. Battiamoci per arrestarlo con il rigetto, innanzitutto da parte nostra, delle richieste padronali di un maggiore sfruttamento per incrementare la competitività delle aziende. Con l’organizzazione della denuncia e della lotta più decise contro le politiche che aiutano il mercato a far prosperare le divisioni tra i lavoratori, dal razzismo e dalla legge Bossi-Fini, alla precarietà dei rapporti di lavoro riservati alla gran parte dei giovani dalle leggi Treu e Maroni, alle politiche federalistiche e leghiste (anche quelle che impazzano nei sindacati).

 

Ci vuole un vero partito dei lavoratori

Certo, l’organizzazione di un simile argine difensivo delle condizioni proletarie non si realizza in un giorno. Né per essa è sufficiente un’azione limitata entro i confini delle singole aziende e al piano sindacale o al solo momento in cui è in atto una lotta. C’è bisogno di un’azione politica sistematica, ininterrotta che s’incarichi di collegare e indirizzare le iniziative di lotta in corso, di allargarle alla restante massa dei lavoratori e di farle incontrare con quelle degli altri lavoratori occidentali, dell’Est e del Sud del mondo. Un’azione politica che richiede, a sua volta, un partito politico che assuma su di sé questo compito e la cui costituzione non può più essere rimandata dai lavoratori più combattivi. Un partito che metta da parte la politica fallimentare con cui finora i lavoratori hanno tentato di difendersi dall’attacco capitalistico, quella che ha trovato la sua rappresentanza politica prima nel Pci e poi nell’arlecchino del centro-sinistra, che ha tentato di realizzare l’impossibile, di salvare la competitività delle imprese e gli interessi proletari, che ha subordinato a questa impossibile equazione e, proprio per questo, disperso e portato alla disfatta le lotte difensive a più riprese messe in campo, dallo scontro alla Fiat nel 1980 agli scioperi contro il taglio della scala mobile nel 1984 a quelli contro il governo Amato del 1992 fino al movimento di lotta contro il primo e il secondo Berlusconi.

No all’investimento sui governi "amici"!

 

Questa ampia e decisa scesa in campo è anche l’unica base per strappare ai capitalisti e ai parassiti che prosperano sul lavoro altrui un recupero reale del nostro potere di acquisto. Cosa questa ben diversa dalla "detassazione alla Berlusconi" o dal "trasferimento del tfr" proposto dalla Confindustria, finalizzati ad "accecare" i lavoratori in modo che continui la situazione di stallo che sta paralizzando le loro forze e che rischia di portare interi strati proletari a diventare massa di manovra "popolare" nelle mani del grande capitale e della sua azione contro i "corporativismi annidati nello stato" da rivolgere poi, una volta effettuata la razionalizzazione della macchina statale capitalistica, contro i proletari stessi. Solo l’estensione e la radicalizzazione dello scontro possono, invece, darci la forza per raccogliere a nostro vantaggio il malessere che si va accumulando in vasti strati della popolazione lavoratrice.

Non temiamo lo scontro sociale, esso ci è imposto dal governo e dai capitalisti. E solo in esso e attraverso di esso possiamo far valere le esigenze dei lavoratori e della gente comune nella politica generale del paese. Questo risultato non lo possiamo ottenere con la "tecnica" dei governi amici da sostenere con il voto e al prezzo della moderazione delle richieste e della mobilitazione proletarie nella società. Guardiamoci in faccia: non siamo alla vigilia di alcun governo amico. Non è stato un governo amico il governo Berlusconi-Bossi-Fini, e c’era pur tuttavia tra i lavoratori chi se lo aspettava, i tanti che nel 2001 votarono Forza Italia o la Lega o Alleanza Nazionale. Non sarà un governo amico un futuro governo Prodi o un governo di "emergenza nazionale" diretto gomito a gomito da Montezemolo e Pezzotta-Epifani.

Questo non significa che sul piano del governo non si possa far nulla. Quello che possiamo ottenere, come lavoratori, è un esecutivo con un minore potere di ricatto e una minore forza contro gli sfruttati. E lo possiamo ottenere con l’unificazione delle vertenze in corso, con l’estensione e la generalizzazione della lotta, con la formazione di un’organizzazione politica dei lavoratori e per i lavoratori che s’incarichi di dirigere le lotte verso questa direzione, verso il crescente protagonismo diretto dei lavoratori e punti a legare le mani preventivamente al futuro governo legandole a quello presente con l’opposizione alle sue politiche anti-proletarie attraverso la lotta di classe.