Ancora sul movimento in America Latina

Abbiamo a più riprese parlato del profondo movimento che attraversa l’America Latina (da ultimo nel n. 62 di che fare), dove classi lavoratrici e intere masse popolari dissanguate dal continuo pompaggio dei sovraprofitti da parte dei centri imperialisti, sono sospinte all’azione di piazza, alla lotta e da qui alla ricerca di una via d’uscita, di una alternativa ad uno stato delle cose non più tollerabile. Dopo le cacciate di piazza di una serie di governi e presidenti "liberamente eletti", dall’Argentina alla Bolivia, lo scontro sociale, le lotte di resistenza, i moti popolari non cessano di manifestarsi in tutto il continente. Da ultimo, all’inizio di ottobre, perfino nel "tranquillo" Cile è stata convocata una giornata di mobilitazione nazionale, la prima dalla caduta di Pinochet nel 1988: lo stesso presidente del sindacato cileno ammonisce a non lasciarsi ingannare dalla relativa calma sociale nel paese, in quanto "è una pace sociale frutto della paura: paura di perdere il lavoro, paura di non potere pagare i debiti, di non potere educare i figli."

Dal naufragio sociale in cui si trovano incagliati gli involucri politici democratici emersi negli anni ottanta in America Latina al tempo della "svolta democratica" (involucri dentro i quali stavano e stanno i contenuti reali delle politiche liberiste, della perpetuazione cioè dello sfruttamento selvaggio e dell’asservimento all’imperialismo), riprende vigore fra i popoli sottomessi del continente la spinta, la ricerca, in prima istanza, di una strada per "una vera democrazia", per governi che facciano davvero "gli interessi del popolo", che difendano per davvero "gli interessi nazionali" contro i predoni delle multinazionali, del Fmi, dei governi occidentali. Ed ancora, più in profondità, ritorna alla luce con forza fra i popoli dell’intero continente l’eterno sogno-aspirazione-necessità di un affrancamento, di una liberazione a scala continentale, della "Patria Grande" come si dice, in primo luogo dalla dipendenza dalla satrapia nordamericana.

Il pericolo paventato dagli Usa

I "governi progressisti" che sono emersi sull’onda di questo movimento continentale dall’Argentina al Brasile all’Uruguay (a cui aggiungere prossimamente con molta probabilità la Bolivia) raccolgono le spinte popolari, cercando di tradurle in un percorso arduo e accidentato di contrattazione di margini di manovra e di "difesa nazionale" rispetto in particolare ai satrapi di cui sopra. Lo fanno ciascuno a proprio modo e con diverse graduazioni, dato il peso specifico e la struttura diversa dei rispettivi paesi: il peso del capitalismo brasiliano è ben diverso da quello, poniamo, di paesi altrettanto capitalisti come la Bolivia o lo stesso Venezuela, il che implica che quel "governo progressista" debba ben guardarsi dallo spingersi troppo in avanti anche al solo livello di proclamazione retorica "antimperialista".

Essi arrivano anche a intraprendere qualche cauto passo per gettare una trama di intese fra stati (dal livello di intese economiche a quello di una risposta al dominio dei media filoimperialisti con l’avvio della rete televisiva Telesur), nel tentativo di dispiegare una rete di protezione comune. Per i gangsters del dollaro, in particolare, che considerano il continente a sud del Rio Grande loro giardino di casa e terra di libero saccheggio, anche solo questa minima trama di intese fra stati a vario grado dipendenti rappresenta qualcosa di più di un intralcio: dato il vulcano sociale sul quale pretendono (ed hanno necessità) di mantenere il controllo, questa trama è una potenziale pericolosa infezione da bloccare e debellare quanto prima. Prima che un qualche caudillo, un qualche nuovo libertador, non arrivi ad infiammare i popoli rivendicando per essi la libertà di disporre delle proprie risorse, di riconsiderare il meccanismo dei debiti imposto dalla finanza usuraia imperialista, di rivendicare una posizione più equa e meno diseguale dei paesi latinoamericani dentro il sistema mondiale dei traffici delle merci, dei denari e dei crediti. In breve, prima che un programma di "indipendenza nazionale" (situato per intero dentro al quadro del capitalismo internazionale fuori dal quale alcun progressista vero o presunto intende o ha la possibilità di collocarsi) possa radicarsi in una serie di paesi, per giunta appoggiandosi e tirando dentro al "giardino di casa" interessi e presenze di stati borghesi concorrenti agli Usa, quali quelli dello stato cinese oppure quelli di un imperialismo europeo che abbia a divincolarsi dalla cupola stelle e strisce.

L’"antimperialismo" della borghesia patriottica latinoamericana

L’imperialismo americano non ha mai tollerato l’esperienza di indipendenza e dignità nazionali di una piccola isola come Cuba, ha fatto ricorso al più sfacciato terrorismo di stato persino contro l’insorgenza di indipendenza nazionale di un minuscolo paese come il Nicaragua: è pensabile che esso possa tollerare oltre una certa soglia la predicazione e la concreta azione rivoluzionaria-borghese di un Chavez (non interpreti il lettore la qualifica come un insulto o un marchio di infamia quanto invece si tratta di chiamare le cose e gli uomini con il loro reale nome e cognome, per quello che effettivamente sono), il quale fuori di dubbio interpreta oggi allo stato attuale delle cose i sentimenti e le aspirazioni popolari per un reale affrancamento nazionale e addirittura che queste valichino i confini venezuelani contagiando altri paesi del continente? No! Nella maniera più risoluta, no!

Bush o non Bush, falchi o colombe, l’imperativo per i signori di Wall Street e del Pentagono è quello di "riportare alla ragione" il caudillo di Caracas. Con le buone possibilmente. Con le cattive se egli, e il movimento popolare che lo sorregge, darà un carattere necessariamente radicale al suo governo sia sul piano interno che esterno per essere realmente conseguente alle proclamazioni antimperialiste. Per intanto, cercando di contenere ed isolare questa pericolosa infezione antimperialista patriottica, contando in questa opera di difesa dell’ordine imperialista costituito e di controrivoluzione preventiva (oltre che sulle manovre diplomatiche sui ricatti economici sulla pressione militare) su un fattore essenziale che i patrioti di lì, in Latinoamerica, quanto gli "antimperialisti" di qui, nelle metropoli, generalmente scansano o nascondono sotto il tappeto e che noi intendiamo invece, sgradevolmente e ruvidamente, porre massimamente in evidenza: il peso e gli interessi di determinate classi sociali, delle classi borghesi lì dentro ciascun paese sottomesso. Il peso e gli interessi dei latifondisti, di un certo ceto medio che ancor oggi vive (o aspira a vivere) all’occidentale asserragliato nei suoi quartieri in mezzo alla marea plebea e proletaria a Buenos Aires, a Montevideo, a Rio come a Caracas, dei capitalisti veri e propri. Il peso e gli interessi della borghesia latinoamericana insomma, con tutti i suoi apparati di controllo e repressione, dai media alle gerarchie della Chiesa e dei corpi militari.

Anche la borghesia latinoamericana avrebbe i suoi buoni motivi per svincolarsi dal giogo degli Usa, ripetendo -nei sogni dei Libertadores di ieri e di oggi- ai loro danni quanto fatto nel 1776 dagli yankee verso gli inglesi, e cioè buttarli a mare. Anch’essa è a suo modo patriottica e cioè, nei momenti decisivi, primariamente e ferocemente antipopolare ed antiproletaria, alla maniera dei Pinochet o dei generali massacratori argentini i quali, è bene non dimenticarlo, arrivarono a sollevare, sul finire della loro sanguinosa opera, attorno alla rivendicazione delle Malvinas la bandiera dell’antimperialismo, del loro bastardo "antimperialismo" borghese da carnefici ovviamente. Ebbene, questa classe sociale rappresenta la base essenziale su cui l’imperialismo può contare per la perpetuazione del suo dominio, giocando e lusingando i rispettivi interessi nazionali e particolari allo scopo di fomentare divisioni e conflitti. Come ad esempio pare di intravedere in certe manovre volte a separare alcune province della Bolivia, manovre certamente pilotate da Washington, a cui non sembrano estranei taluni apparati dello stato brasiliano. Saremo ben contenti se il nostro allarme su queste torbide macchinazioni al confine tra Bolivia e Brasile siano e restino soltanto illazioni. Quello che invece è assolutamente certo, è il ruolo e la funzione determinata dalla difesa dei loro interessi che le classi possidenti e borghesi latinoamericane svolgono e svolgeranno non soltanto contro ogni insorgenza proletaria di classe ma anche contro ogni reale e decisa spinta popolare antimperialista. Un blocco sociale, una rete di interessi capitalistici che sono qualcosa di più che isolate "quinte colonne" filoimperialiste operanti dentro ogni stato del continente.

Se addirittura all’interno del Venezuela, il paese cioè dove la rivoluzione bolivariana spronata dal caudillo Chavez pretende di sfidare l’imperialismo americano, il blocco sociale della conservazione borghese filoimperialista è tutt’altro che scomparso e sbaragliato, anche se al momento costretto all’impotenza, ed arriva a far pesare i suoi interessi fino all’interno del movimento bolivariano dove più di qualche dirigente mal sopporta "l’estremismo" del presidente, chiediamoci quale sarà (quale è già oggi) la risposta e la reazione del blocco sociale borghese in paesi dal capitalismo più strutturato ed evoluto quali il Cile, l’Argentina e soprattutto il paese determinante per gli equilibri del continente e cioè il Brasile rispetto alla pressione popolare e alla necessità che essa pone di una coerente lotta antimperialista.

 

Spingere oltre i "governi amici"?

Poniamo con insistenza la questione di fronte agli autentici patrioti dei paesi latinoamericani come al movimento antimperialista delle metropoli affinché non debba essere che la condotta del "governo progressista" di un Lula (1), per restare nel paese determinante del continente, porti infine al totale scompaginamento delle forze dei movimenti di lotta. Affinché la sua débâcle (come un limone spremuto dopo aver prestato i suoi egregi servizi alla borghesia brasiliana e alla finanza imperialista) non porti le masse popolari e proletarie ad un rovinoso arretramento passando dalla disillusione alla impotenza.

Prendiamo ad esempio un breve passaggio estratto da una delle molteplici voci e organizzazioni di opposizione nazional-borghese all’imperialismo statunitense del continente (l’articolo "America latina fra il vecchio e il nuovo" dal sito brasiliano "Carta o Berro"- America Latina en movimento). Esso ci pare riassuma il sentimento più profondo e prevalente nei movimenti e la loro prospettiva di azione: "Isolati, gli Usa tentano di impedire che nel 2006 si formi un fronte di una serie di governi che si oppongono alla loro politica, fronte che potrà andare dal Messico all’Uruguay passando per il Brasile il Venezuela l’Argentina Cuba e la Bolivia.Un unico blocco di forze che resista in forma organizzata al governo Bush. (...) Fa parte del nuovo (oltre alla vittoriosa ristrutturazione del debito condotta dal governo Kirchner e la vittoria del Fronte Amplio in Uruguay...) il varo di una rete pubblica televisiva nel continente, l’integrazione delle imprese petrolifere dell’America Latina e la costituzione del Banco delle sementi per proteggere il nostro patrimonio naturale. Il nuovo è rappresentato dagli accordi strategici intercorsi fra i governi del Brasile, Venezuela, Cuba, Argentina con la Cina, con l’Iran, con la Russia e la Spagna progettando così un nuovo posizionamento internazionale del continente. (...) Ma questa forza accumulata dal nuovo incontra molte difficoltà per costituirsi come alternativa alla crisi egemonica che vive l’America latina. La prima difficoltà è la sopravvivenza delle politiche neoliberiste in governi decisivi della regione come quelli del Brasile e dell’Argentina."

Qui, la pur auspicata e sollecitata pressione e mobilitazione popolare è tutta concepita e incanalata come una spinta dal basso per costringere "governi amici" (tanto rappresentanti "del nuovo" quanto recalcitranti a spingersi oltre) ad "attuare veramente le riforme" sul piano interno, legando nei fatti per intero i movimenti di lotta agli incerti destini dei "governi progressisti", consegnandosi ad essi in buona sostanza. Spingersi oltre a cosa? Ad intaccare gli interessi dei latifondisti e delle multinazionali dell’agroalimentare per esempio. O ancora, a toccare gli interessi degli imprenditori e dei finanzieri argentini o brasiliani, o a rigettare il pagamento delle rate del debito al Fmi e a sottostare ai suoi vincoli di bilancio quando larga parte del proprio popolo vive nell’estrema indigenza. E perché "governi progressisti" di paesi decisivi quali l’Argentina e il Brasile non si azzardano, non possono azzardarsi, ad andare oltre, se non per la loro natura di classe, borghese? Essi non possono che garantire, nelle difficili condizioni date, il fondamentale impegno di mantenere l’ordine interno contro ogni radicalizzazione dello scontro sociale, in modo che la fiamma della lotta di classe non si alimenti al punto di mettere in discussione gli assetti di potere interni e, peggio ancora, non travalichi e si unifichi al di sopra delle frontiere nazionali. Per questo sono tollerati e usati dall’imperialismo, prima di essere presi a calci dalla reazione borghese.

Se passiamo al piano esterno, è vero che il fronte fra stati, dall’Argentina al Brasile al Venezuela, ha saputo provvisoriamente intralciare e contrastare i piani di egemonia diretta statunitense sul continente facendo ingoiare rospi a Bush e al suo racket, ma è altrettanto inequivocabile la natura e la funzione di questa opposizione concertata di stati all’imperialismo: essa è fasulla e nulla ha a che vedere con una reale azione antimperialista. Basta considerare, ad esempio, l’azione dei Lula e dei Kirchner per calmierare ed evitare ogni debordamento dei moti di rivolta in Bolivia, quando si consideri che questi "governi progressisti" inviano ed hanno presenti le loro truppe, unitamente a quelle di altri paesi latinoamericani, a garantire l’ordine in Haiti facendo il lavoro sporco che i marines e i gendarmi francesi oggi non possono svolgere in quell’isola. È un generale brasiliano a comandare questa infame spedizione di "polizia internazionale", sono le sue truppe che a Port-au-Prince non esitano ad aprire il fuoco sugli sfruttati haitiani, uccidendo decine e decine di quei patrioti. Accreditare un supposto fronte antiamericano fatto da questo genere di stati a "guida progressista", accodarsi ad essi non denunciando davanti alle masse lavoratrici le loro politiche sia interne che esterne per quello che sono e traendone tutte le conseguenze, è una trappola mortale dalla quale i militanti ed i movimenti antimperialisti latinoamericani devono quanto prima sfuggire.

Un programma e un’organizzazione di classe

Quale scenario si para davanti al movimento continentale che spinge per un autentico cambio sociale, per un reale affrancamento? Se è vero che l’imperialismo nordamericano fortifica le sua presenza militare, da ultimo lo schieramento di centinaia di marines nelle basi del Paraguay, è sommamente difficile pensare che esso arrivi ad intervenire direttamente in forze ad estirpare l’infezione bolivariana in Venezuela o laddove, dalla Bolivia all’Ecuador, il suo ordine venga messo in discussione. Non soltanto per una questione di uomini in armi da inviare su nuovo fronte (sebbene un Rumsfield abbia asserito che l’esercito Usa può combattere su più fronti contemporaneamente) ma anche perché un intervento diretto da "polizia internazionale" avrebbe conseguenze serie, di rottura dell’ordine sociale interno, avendo gli Usa nella propria pancia milioni e milioni di proletari immigrati latinoamericani.

La risposta a quel vulcano sociale, la controrivoluzione preventiva, si darà piuttosto, si è già cominciata a dare, a mezzo interposta persona. Manovrando a fomentare conflitti fra gli stati del continente cioè mettendo in contrasto gli interessi e gli appettiti delle varie borghesie nazionali, utilizzando le quinte colonne locali, le quali poggiano le loro basi sugli interessi e sugli apparati di dominio delle classi borghesi latinoamericane. Questo sta a significare che il tempo delle presunte nuove "terze vie", il tempo delle indefinite e fumose "alternative al liberismo", il tempo insomma del progressismo alla Lula, alla Kirchner volge al termine, incalzato da una bisogna imperialista che ora necessita di altri arnesi politici.

Scrive un compagno brasiliano: "In Brasile e in tutta l’America latina dobbiamo analizzare bene quello che succede e trarre le nostre lezioni. La lezione che io traggo è che la totale incapacità del governo Lula di realizzare i cambiamenti è una dimostrazione di come il capitalismo in America latina non sia umanizzabile, non vi sia spazio per una riforma sociale reale (s.n.). All’orizzonte vi è una sola alternativa che è il socialismo. (...) Se questo è corretto la lotta di classe deve polarizzarsi fra chi si batte per un cambio sociale reale, per il socialismo e quelli che questo cambio reale non lo vogliono. E questa contraddizione fra rivoluzione e controrivoluzione, fra bianco e nero, è la fine delle vie intermedie" (2)

Non sono in pochi fra i militanti dei movimenti di lotta latinoamericani a trarre questa esatta lezione, occorre essere in grado però di dare ad essa una fondamentale conseguenza: la necessità di una organizzazione di lotta, di un programma e di una organizzazione di classe indipendenti. Questa acquisizione è ancora tutta da conquistare.