Il referendum sulle riforme costituzionali:

si o no, si vota contro di noi.

A giugno saremo chiamati di nuovo alle urne per il referendum sulla riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi. Tra i lavoratori se ne parla pochissimo. Laddove c’è discussione, essa si catalizza sugli effetti del federalismo sui servizi sanitari, la scuola, ecc. Alcuni lavoratori, snervati dalla qualità sempre più scadente dei servizi offerti dallo "stato centrale", la considerano una buona opportunità. Altri lavoratori, invece, guardano con preoccupazione alla destrutturazione territoriale della condizione proletaria che la riorganizzazione federalista dello stato induce. Si tratta, in entrambi i casi, di problemi veri, che hanno a che fare con alcune questioni di fondo rimaste però, finora, ai margini dell’interesse della stessa parte più avanzata dei lavoratori. Sono le questioni concernenti l’organizzazione dello stato, la relazione tra la centralizzazione del potere politico borghese e l’organizzazione sociale capitalistica, e il programma dettato sul "tema" al proletariato dalla sua lotta di difesa e di liberazione. Ne parliamo nell’articolo che segue.

Si sono appena spenti gli echi di una "battaglia elettorale" che ha attribuito una transitoria vittoria all’Unione ed ecco che ci richiamano a "decidere" per il referendum contro la riforma federal-presidenzialistica berlusconiana. Si tratterebbe di cancellarla col voto per assicurare il ripristino della nostra sacra Costituzione violata, di pronunciarci nientepopodimeno che contro "la riscrittura del patto fondamentale, lo sradicamento delle radici della Repubblica, la rottura della sua unità territoriale, l’archiviazione liberista dei suoi principi egualitari, l’introduzione di una forma di governo presidenziale che renda pleonastico il ruolo del parlamento" (così Ida Dominijanni su il manifesto del 22 aprile).  Andiamo per ordine e vediamo di cosa realmente si tratta.

Superpoteri presidenziali e  "democrazia parlamentare"

Vediamo di non prenderci in giro. Il modello parlamentare borghese originario prevedeva il pieno diritto-dovere del singolo eletto di rappresentare e dar conto ai propri elettori (ben selezionati – va ricordato, infatti, che tutte le carte costituzionali della borghesia ascendente e rivoluzionaria prevedevano il suffragio elettorale limitato per censo e per sesso). Una testa un voto… testuale. Di qui un rapporto stretto col proprio collegio quanto a promozione di interessi immediati. Quelli superiori, "collettivi" (in senso borghese), venivano, in qualche modo, dopo, anche se sempre più destinati, col successivo sviluppo del capitalismo, ad emergere al di sopra dei piccoli affari bottegai propri della primitiva "rappresentanza diretta". Ed è stata proprio la concentrazione capitalistica sul piano strutturale che ha imposto il superamento della prima fase della vita parlamentare nel senso di una generale coscienza e solidarietà di classe (borghese), che tanto più si è imposta dal momento in cui è entrata in gioco una qualche forma di rappresentanza parlamentare operaia, per sua natura disciplinata attorno ad un programma antagonista.

In Italia fu proprio il fascismo a togliere definitivamente di mezzo le vecchie camarille campanilistiche per affermare un fascio di interessi (borghesi) collettivi con tanto di duce. Senza l’incomodo della democrazia e, tanto più, di una presenza, in essa, della controvoce proletaria. Il post-fascismo ha rimediato a quest’ultimo ferita, ma ereditando in pieno dal regime mussoliniano la legge (impersonale, comune ad ogni sistema parlamentare borghese) della "disciplina collettiva". Formalmente, la "nostra" Costituzione attribuisce ancora una piena sovranità rappresentativa ai singoli eletti, ma, nella pratica, nessuno di essi può fare di testa sua. Sennò diventa subito non un "libero esercente dei propri diritti", ma un "franco tiratore" da mettere fuori combattimento. Il singolo parlamentare è soggetto alle regole del proprio "gruppo", così come questo, ed ogni altro, gruppo sono disciplinati alle leggi del sistema in quanto è il sistema stesso l’"azionista di maggioranza" di tutti i singoli gruppi. Otterremmo davvero un bel risparmio se mandassimo a casa la pletora dei piccoli singoli azionisti e lasciassimo la rappresentanza parlamentare ai vari detentori politici dei rispettivi pacchetti azionari. Ognuno di questi ultimi, nella "libera discussione parlamentare", potrebbe intervenire mettendo sul piatto il proprio pacchetto di voti. Quante chiacchiere, uffici, uscieri, guardie del corpo in meno…

Pensateci un po’. L’Unione ha "scelto" Prodi per suo leader assoluto non dopo averlo selezionato alla base, ma attraverso una sottile alchimia dettata dai padroni veri, dai mandatari della baracca (banchieri, finanzieri, confindustriali, varie associazioni di brigantini, etc. etc.) e solo dopo ha chiesto, ossia: imposto, alla base la ratifica di tale scelta operata a monte. E, in quanto leader, Prodi si è attribuito pieni poteri, previa sottoscrizione in bianco da parte dei vari contraenti di una assoluta disciplina al big. Non può più essere concessa, infatti, una riedizione della precedente esperienza in cui un Bertinotti invocò al proprio partito il diritto alla "libera espressione (parlamentare) di dissenso". Premierato assolutista, quindi, che dovrebbe sollevare grida di dolore da parte di tutti coloro che, nel caso referendario presente, invocano le "sovrane prerogative parlamentari" proprio contro l’assolutismo presidenzialista. Non è questa l’introduzione di una forma di potere presidenzialista che rende pleonastico il ruolo delle teste parlamentari, singole ed a gruppi?

Nella fase del capitalismo imperialista ultraconcentrato non esistono, di fatto, margini apprezzabili per indiscipline individuali e di gruppi (di interessi, e di voti parlamentari) che sfuggano alla logica dittatoriale del sistema. In tutti i paesi imperialisti che contano siamo già arrivati alla prassi dell’"alternanza" possibile tra due blocchi concorrenti con l’esclusione, per varie vie (ad esempio sbarramenti elettorali severi), di ogni e qualsiasi autentica rappresentanza antagonista. Ed, in questo gioco, entrambi i blocchi possono sì sfruttare proprie lobbies di potere e particolari accorgimenti per farsi attribuire il mandato anche da "masse popolari" prive di voce propria e trascinate al carro, ma devono essere e sono del tutto solidali tra loro quanto a rappresentanza di un unico superpotere capitalista da cui dipendono. L’"assolutista" Bush, ad esempio, non è una testa singola che si erga "sovrana" sopra tutte le altre, ma un esecutore di una rete di interessi di cui è il semplice portavoce.

Anche noi, naturalmente, siamo contro tutto ciò. Ma lo siamo non perché il presidenzialismo o qualsivoglia altro marchingegno più soft di dominio rappresenti una ferita mortale ad una pretesa "democrazia" borghese morta e sepolta che, in caso contrario, ci permetterebbe, nell’ambito parlamentare, maggiori "libertà", lo siamo in quanto questo presidenzialismo e qualsiasi altra "alternativa" ad esso della medesima natura è espressione della dittatura reale del capitale, le cui radici stanno altrove, ed altrove vanno tagliate.

Federalismo estato nazionale

Secondo aspetto: il federalismo. Il capitalismo si presenta, sin dai suoi inizi, come un reticolo di "autonome" aziende concorrenti sul mercato. Ma il mercato, nel tempo, ha trapassato i limiti locali e, poi, nazionali per definirsi come sistema, combinato e diseguale, a scala internazionale. I singoli pezzi delle varie "ragioni sociali" si incastrano, perciò, in un puzzle unitario da cui dipendono. Il pezzo che non s’incastra a dovere va eliminato dall’insieme, o si autoelimina. L’economia nazionale, lo stato nazionale si situano su un campo di battaglia mondiale entro cui si giocano le proprie chances per ridefinire il quadro dei rapporti mondiali di forza, ma secondo ben precise regole unitarie (leggi bene: non armonicamente une, come nei quadretti illusionistici alla Toni Negri).

Le cosiddette "singole autonomie" (da quelle aziendali a quelle locali, sino a regioni e macroregioni) possono sì affermarsi "in proprio", ma come sviluppo funzionale di una macchina unitaria, ultra-accentrata ed ultra-concentrata a scala superiore. L’attuale "federalismo" non può avere altro significato. Si tratta, allora, di vedere se il federalismo proposto dalla Casa delle Libertà e messo sotto esame al prossimo referendum abbia o meno queste prerogative. Ed è precisamente su questa funzionalità che entrambi i contendenti dibattono e si scontrano. Non è in causa comunque, annotiamolo subito, una diversità antagonista di modelli.

Si sente dire da più parti che la riforma federalista della CdL rischierebbe di "dividere l’Italia" in quanto promuoverebbe una sfrenata deregulation localista, con l’aziendalizzazione di servizi essenziali (scuola, sanità…) che dovrebbero rimanere invece uniformi a scala nazionale e sotto l’egida dello stato, beni e non merci, e comporterebbe l’esclusione del principio perequativo di "solidarietà" nazionale, per cui alle regioni "sfavorite" dovrebbe venire incontro con opportuni incentivi (od elargizioni compensative) il solito stato. Non siamo affatto lontani dal vero, ma con qualche precisazione da fare subito.

Un federalismo anche spinto può, nel quadro di un’economia e di uno stato forti, rendere più oliata la macchina complessiva. Se invece economia e stato sono deboli, derive "settoriali", "egoistiche" e poi magari secessionistiche si impongono (vedi Jugoslavia), anche per l’intervento disgregatore dall’esterno di forze concorrenti internazionali. Nel capitalismo gli interessi particolari, egoistici per loro natura, sono un fatto naturale che o possono essere centralizzati verticalmente nell’interesse (borghese) collettivo e quindi singolo, o mettono in crisi tutta la baracca. Dubitiamo, da un punto di vista capitalistico, che l’antidoto a quest’ultimo pericolo possa essere rappresentato da forme di "sussidiarietà" assistenzialistiche che andrebbero a pesare sui poli avanzati senza ricadute positive su quelli arretrati. Ed è questo il nodo da sciogliere da parte di entrambi i poli in competizione tra loro.

Quanto poi alla difesa dei beni "non mercantili", tipo istruzione e sanità "eguali per tutti", siamo perfettamente d’accordo, purché si comprenda che, nell’ambito di una società sempre più forzatamente mercantilizzata, tale rivendicazione non può attuarsi che attraverso una mobilitazione di lotta in senso anti-mercantilista, cioè anti-capitalista, più generale, senza di che scenderemmo sempre più in basso nell’erogazione di tali "servizi" e, nonostante tutte le chiacchiere, in maniera sempre più "sperequata" localmente.

Federalismi (e statalismi) convergenti

Ma facciamo finta che questo problema di fondo (la necessità di una lotta coerente contro l’intero sistema capitalistico produttore di mercificazione e disuguaglianze a go-go) non esista, e supponiamo per un istante che a scongiurare "la rottura dell’unità nazionale" in fatto di scuola, sanità, pensioni, etc., basti un pacchetto di regole nazional-statali unitaristiche di ferro.

Resterebbe, in questo caso, da spiegare come mai la rivendicazione, teorica e di fatto, del più ampio autonomismo locale sia già oggi un dato trasversale. L’autonomia siciliana (attualmente del Polo, ma preesistente ad esso) gode di poteri semi-statali. Quella del Trentino-Alto Adige (unionista) pure, e, laddove si sente compressa, arriva ad invocare direttamente tutela da parte dell’… Austria. Il governatore (unionista) Illy ha già provveduto a dare al Friuli-Venezia Giulia lo statuto di una "macroregione" collegata a Carinzia (ve li ricordate i patti col "famigerato" Haider?) e Slovenia con poteri in proprio quanto a politica estera. A Bruxelles le istituzioni dell’Unione europea sono invase da rappresentanze regionali che mandano avanti i propri affari e le proprie politiche autonomamente dal centro romano. Di qui i motivati lamenti della Dominijanni: "Non è credibile che i vertici dell’Unione non abbiano contezza di questo scenario. A che si deve allora il silenzio che avvolge il referendum, se non alle divisioni che da sempre solcano il centrosinistra sui destini della Costituzione… Il velo del silenzio serve a coprire la frattura fra chi vuole dire di no alla riforma del centrodestra per salvare la Costituzione del ’48 e chi vuole dire no per modificarla subito dopo in termini più moderati ma non opposti a quella della CdL, anzi nella stessa direzione della CdL, anzi con la CdL".

La riprova di questa convergenza sostanziale tra destra e sinistra s’incarica di darla nello stesso numero de il manifesto l’unionista Bettin in termini che non potrebbero essere più chiari a proposito della "nuova questione settentrionale" (!) che "la devolution di Calderoli non può minimamente soddisfare" (!!). Come soddisfarla, allora, "da sinistra"? "Riccardo Illy ha sintetizzato il programma un po’ brutalmente: ‘Meno tasse e più strade’… La questione del federalismo fiscale è davvero dirimente su questo punto. Conferire alle comunità locali una capacità impositiva, il cui raccolto resta alle comunità stesse, è la chiave per realizzare questa riabilitazione del fisco (e del centrosinistra che, nella vulgata prevalente, ne è il paladino). L’alleggerimento del peso fiscale non può che andare di pari passo con il rilancio di una vera politica federalista, dopo lo sgorbio della devolution berlusconiana (da cancellare nelle urne referendarie)". Chi andrà alle urne se ne ricordi, e sappia per cosa si va a votare.

La "costituzione" proletaria

I comunisti non sono coinvolti della "scelta" tra un sì ed un no al referendum che li porti a sottoscrivere programmi politici, per quanto diversi tra loro, che stanno comunque nel solco di un unico orizzonte borghese, anti-proletario. Schifano la riforma berlusconiana ma schifano anche quella unionista, che non gli è opposta, ma anzi va nella stessa direzione.

I comunisti sono per l’unità nazionale ed internazionale del proletariato, che non può realizzarsi se non attaccando da cima a fondo le leggi del sistema capitalista (di cui il carattere combinato e diseguale, anche nel piccolo ridotto nazionale, non è che la regola fondante). Noi, perciò, in quanto tali, non siamo in nulla e per nulla interessati a metterci dietro il carro dei "soggetti guida del ciclo" o a piatire qualche elemosina al carro di quelli "deboli e precari". Lavoriamo, invece, ad unire in un unico blocco antagonista gli sfruttati dell’uno e dell’altro capo contro il comune, diseguale e combinato, sfruttamento capitalista. Unendo queste forze, centralizzandole attorno al nostro programma, alla "nostra" organizzazione (cioè, in prospettiva, ad una autentica organizzazione di partito –che non siamo, ma per la quale operiamo-), possiamo assicurare che la nostra classe non sia preda di devolution e secessioni al proprio interno.

Quanto al ruolo del "parlamento" cui guardiamo, ci penseremo nei termini di un’amministrazione collettiva delle risorse sociali finalmente nelle nostre mani, una volta sbarazzatici delle "rappresentanze" borghesi. I consigli, i soviet. Ne abbiamo le scatole piene della "repubblica fondata sul lavoro", cioè del dominio borghese sul lavoro, della sacra Costituzione del ’48, e miriamo, invece, alla riappropriazione della "repubblica" da parte del lavoro. E intanto? Intanto si tratta di lavorare in questa direzione, unendo le nostre forze sul terreno delle lotte autonome ed antagoniste da far crescere, unificare, a cui trasmettere la deprecata scienza del conflitto, a cui dare una propria, altrettanto deprecata, organizzazione politica.

Vogliamo esser chiari: non è che "in attesa", restiamo indifferenti alla sostanza della riforma Calderoli, e chiamiamo chi ci segue a strafottersene. No. Chiamiamo, invece, tutti coloro che riusciamo a raggiungere a denunziarne la sostanza (così come va denunciata specularmene la sostanza dell’eventuale contro-riforma unionista), a mettersi organizzativamente assieme con chiunque stia su questa lunghezza d’onda, ma sul proprio terreno di lotta, che non passa affatto attraverso la mobilitazione elettorale alla coda dell’Unione.