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Alcune questioni da discutere con i militanti islamisti

Negli ultimi anni, in Palestina, in Iraq, a Londra e anche in Italia, le lotte contro la "guerra infinita" dell’imperialismo al mondo arabo-musulmano hanno visto spesso fianco a fianco militanti islamisti e militanti di gruppi di sinistra legati all’ideale del socialismo. E’ accaduto, di nuovo, l’estate scorsa in Libano, nell’energica resistenza popolare contro l’attacco di Israele. Essa ha avuto il merito, tra l’altro, di far emergere le ragioni e l’importanza di questa "convergenza", come anche l’esigenza del suo superamento in una forma più avanzata di lotta contro l’imperialismo.

La condivisione della prigionia nelle carceri israeliane, le esigenze della lotta contro l’occupazione israeliana, il trovarsi gomito a gomito negli stessi cantieri o nelle stesse aziende agricole o negli stessi quartieri periferici ha insegnato negli anni ai militanti antimperialisti libanesi che la difesa della popolazione lavoratrice richiede di organizzare e portare avanti la lotta tutti insieme al di là delle divisioni confessionali e nazionali. (1)

Alla resistenza libanese, il cui valore è vibrato nel corso dello scontro in estate con la macchina da guerra d’Israele e che ha suscitato la nostra ammirazione, va il nostro appoggio incondizionato. Nello stesso tempo, proprio perché consideriamo tale resistenza parte di una lotta comune mondiale contro il sistema mondiale di oppressione che è il capitalismo, noi richiamiamo l’attenzione dei militanti islamisti su due tra i principali nodi che tale scontro pone all’ordine del giorno in Medioriente: 1) l’esistenza nel mondo musulmano e nella stessa "umma musulmana" di interessi sociali inconciliabili a cui corrispondono indirizzi e comportamenti inconciliabili nella resistenza all’oppressione imperialista; 2) il legame strutturale tra l’imperialismo e il capitalismo.

L’ideologia dei gruppi dell’islam radicale tende a mettere il silenziatore su questi nodi o a scioglierli con soluzioni illusorie. In sostanziale sintonia con l’orientamento della gran parte delle formazioni di sinistra che accettano di collaborare nella lotta con i gruppi islamisti.

Noi la vediamo diversamente. Torniamo a discuterne nell’articolo che segue, in una prova di dialogo con questi militanti che di ideale ha soltanto la forma, giacché è il frutto di tante discussioni con immigrati e militanti antimperialisti che fanno riferimento all’islam radicale. La svolgiamo da comunisti, convinti che la rivoluzione proletaria internazionale sia la sola soluzione possibile agli antagonismi che ci tormentano.

È chiaro che ci sono forme assai differenziate e contraddittorie di militanza islamista. Noi ci riferiamo qui a quei militanti islamisti per i quali il richiamo ai bisogni dei mostazafin non è pura demagogia ma qualcosa di profondamente sentito. Non ci rivolgiamo solo a loro, è evidente.

Discutendo con loro, diciamo qualcosa anche ai lavoratori e ai compagni italiani che sentono l’esigenza di mettersi di traverso alla "guerra infinita" ai popoli del mondo islamico e del Sud del mondo. Li invitiamo a prendere sul serio i movimenti antimperialisti islamisti, a conoscere quello che essi realmente fanno, le istanze sociali che rappresentano, le politiche che li guidano e le evoluzioni che possono seguire. E con ciò, li sollecitiamo a discutere sul rapporto da stabilire con le lotte antimperialiste dei movimenti islamisti.

L’indirizzo politico di Hezbollah è al momento quello prevalente nel movimento antimperialista in Libano. Lo è per i meriti che questa organizzazione ha acquisito sul campo. Essa ha contribuito a portare a casa indiscutibili risultati: le forze multinazionali sono state costrette a lasciare il Libano negli anni ottanta; Israele è stato costretto ad evacuare la gran parte del territorio libanese nel 2000 (rimane il controllo di Tel Aviv sulle fattorie di Sheeba e altre regioni nevralgiche dal punto di vista strategico e delle risorse idriche); l’aggressione israeliana dell’estate scorsa ha trovato un argine che nessuno stato arabo progressista era stato capace di opporre in passato; la politica interna liberista dei governi Hariri e Siniora ha visto in campo una opposizione popolare via via più organizzata. Oltre a difendere le condizioni di esistenza delle masse oppresse del Libano, questi successi hanno avuto un grande valore sul piano politico, in quanto hanno operato in contro-tendenza rispetto alla frantumazione per vie "settarie" che Israele e l’imperialismo hanno cercato di indurre in Libano negli anni ottanta.

Il problema che intendiamo discutere è se la politica di Hezbollah, che pure ha condotto a questi significativi risultati, sia in grado di guidare la lotta nei passaggi ulteriori dello scontro con Israele e l’imperialismo oppure se tale continuazione richieda, come noi crediamo, un riorientamento radicale di indirizzi e di prospettiva del movimento di massa. Intendiamo basare questa discussione non su proponimenti ideali ma sulle condizioni concrete in cui si svolge lo scontro. E partire dai problemi che questa lotta è chiamare ad affrontare. Tra questi ultimi, uno dei più urgenti è quello della ricostruzione del Libano in un modo che non sia la ripetizione di quella liberista e anti-popolare avvenuta sotto l’ombrello di Hariri negli anni novanta.

Raccogliendo le aspettative di gran parte dei lavoratori del Libano, Hezbollah chiede che vengano attivati interventi statali per promuovere i servizi sociali, l’agricoltura e l’industria del paese al fine di garantire lo "sviluppo umano integrale di tutti i cittadini" senza distinzione di religione e di sesso, e che si instauri una vita pubblica "fondata sul rispetto delle libertà sindacali e politiche" e sul superamento del sistema del confessionalismo.

Hezbollah ritiene che si possa realizzare questi obiettivi con la collaborazione tra tutte le classi sociali del Libano. Al di là della formula governativa e istituzionale in cui questo indirizzo potrà incarnarsi, esso si fonda sulla fiducia di poter coniugare lo sviluppo delle imprese capitalistiche con un intervento "redistributivo" dello stato di tipo keynesiano. Tale fiducia è fondata? A nostro avviso, assolutamente no, e cerchiamo di spiegarne il perché. A sbarrare la strada alle rivendicazioni di Hezbollah riportate sopra non sono solo Israele e gli Stati Uniti, che il "partito di Dio" mette in prima fila tra i nemici dei lavoratori e dei popoli del mondo musulmano. La storia (recente e meno recente) del Libano mostra che anche gli imprenditori, i banchieri, i grandi proprietari terrieri del Libano, i vertici delle forze armate e della burocrazia del Libano sono contrari ad una simile ricostruzione "equa e solidale". Qualunque sia la loro religione di appartenenza, cristiana, drusa, sunnita, sciita, ecc.

Prendiamo, ad esempio, il problema degli oltre 40 miliardi di dollari del debito estero. Già negli anni scorsi era iniziato il macabro valzer delle banche occidentali per imporne il rimborso con l’aumento dei prezzi della benzina, con la privatizzazione dei servizi in mano pubblica, con l’introduzione di un mercato del lavoro completamente deregolamentato. Oggi il problema si ripresenta ingigantito. Una ricostruzione del paese che non voglia avere i tratti di quella diretta da Hariri, è incompatibile con il pagamento del debito. Basterebbe al riguardo consultare l’esperienza di tanti altri paesi del mondo musulmano e del Sud del Mondo o quella della "ex"-Jugoslavia. La classe dei capitalisti e dei grandi proprietari terrieri del Libano è, invece, interessata ad effettuare il rimborso, perché, in ultima istanza, ne trae anch’essa beneficio, pur se in misura molto inferiore rispetto ai re della finanza occidentali o dei paesi arabi della penisola arabica.

Lo stesso antitetico interesse si presenta di fronte alle altre emergenze impellenti. Come assicurare una casa che sia una casa alla popolazione lavoratrice? Come tornare ad utilizzare i campi irrorati di cluster bomb e, probabilmente, di uranio impoverito? Come riprendere l’attività della pesca nelle acque sconvolte dalla diffusione dei combustibili delle raffinerie bombardate ad agosto? Qual è la quota dei prodotti alimentari da destinare all’esportazione per l’acquisto di macchine che l’economia del Libano non è in grado di sfornare e qual è quella da riservare all’alimentazione della popolazione? Ed infine: come continuare la lotta contro l’aggressione di Israele e il suo piano di semina delle contrapposizioni "confessionali" in Libano?

Le mani libanesi che reggono le ricchezze finanziarie, industriali e agricole del paese non sono disposte ad accettare un controllo popolare delle loro proprietà per indirizzarle verso una ricostruzione del paese che vada a vantaggio anche dei diseredati e dei lavoratori. Non stiamo parlando solo di Fuad Siniora e degli altri dirigenti ammanicati con le centrali imperialiste. Ma dell’insieme dei capitalisti, dei finanzieri, dei latifondisti del Libano, anche di quelli di fede sciita. Se guardiamo bene, vediamo che questi strati sociali, pur appartenendo a comunità religiose-civili distinte, hanno posizioni simili sulle questioni sociali di fondo. Costituiscono una vera comunità cementata da un comune interesse: il mantenimento dei loro privilegi sociali. Possono essere disposti, se animati da spirito solidaristico islamico o cristiano, a qualche donazione. Ma qui non si tratta di cerotti.

Per far accettare alle classi sfruttatrici del Libano le misure richieste da una ricostruzione orientata secondo l’interesse della popolazione lavoratrice, ci vuole la deterrenza e l’intervento di una forza sociale organizzata. Questa forza non può derivare dall’opera di un governo di unità nazionale. L’esperienza dell’ultimo anno parla chiaro in proposito: il governo di unità nazionale appena entrato in crisi non ha certo riorientato in senso sociale la politica di stampo liberista seguita dai governi precedenti. Con i dicasteri fondamentali (gli interni, le finanze, il commercio, la difesa, gli esteri) nelle mani dei liberali, non poteva essere altrimenti. Né basta, per cambiare le cose, semplicemente aumentare il numero di ministri di Hezbollah.

Un governo che abbia la forza di attuare anche solo la politica di ricostruzione di stampo keynesiano proposta da Hezbollah richiede che venga espulsa da esso la rappresentanza degli interessi dei latifondisti, dei finanzieri, dei grandi commercianti e dei padroni industriali. Sono i lavoratori a dover controllare i ministeri-chiave. E questo richiede non l’unità nazionale inter-classista bensì la piena assunzione del potere da parte delle masse lavoratrici. Si tratta di un sogno irrealizzabile? Non ci sembra. Le masse lavoratrici del Libano hanno avuto la forza di resistere ad Israele, sono riuscite laddove hanno fallito i Nasser e gli Assad. E questo mentre i comandanti militari delle forze armate ufficiali, gli amici dei Fuad Sinora, sorseggiavano amichevolmente il tè con i comandanti israeliani. Perché una forza di massa di questa portata non dovrebbe essere in grado di imporre nel paese misure di emergenza nell’interesse dei lavoratori? Tanto più che essa è anche armata! Perché Hezbollah esita o, meglio, non vuole incamminarsi su questa strada? Perché si continua a sostenere, come ha fatto qualche giorno fa l’alto consiglio sciita, che il dialogo tra interessi sociali opposti è il mezzo migliore per risolvere i problemi del paese (Daily Star, 4 gennaio 2007)? e che senso ha avviare trattative con il re dell’Arabia Saudita per ristabilire la "concordia sociale" nel paese?

E’ vero che la conquista del potere in Libano da parte delle masse lavoratrici o anche soltanto il "controllo popolare" sull’economia del paese non possono di per sé garantire una soluzione compiuta ai drammatici problemi sul tappeto perché tali problemi hanno radici che vanno al di là del Libano e sono connessi all’assetto dell’intero Medioriente. In conseguenza di ciò, i lavoratori del Libano devono fare i conti non semplicemente con i padroni, i latifondisti e i finanzieri del Libano ma con le forze capitalistiche che reggono l’ordine mediorientale: lo stato d’Israele, gli apparati statali arabi, i capitalisti mediorientali (islamici, cristiani, atei, ecc.) e, soprattutto, i capitalisti occidentali e gli apparati militari dell’Occidente. Questa verità è emersa in tutti i momenti in cui la popolazione lavoratrice libanese ha cercato anche solo di spostare a proprio favore l’assetto politico del paese. Ed è illustrata emblematicamente dalla genesi di quella "specificità" libanese che le masse lavoratrici del Libano, nei loro momenti migliori, hanno cercato di spazzare via e di cui il programma elettorale di Hezbollah rivendica il superamento: il confessionalismo. Esso non è il frutto della cosiddetta arretratezza libanese. È il risultato dell’azione delle potenze capitalistiche dell’Occidente, europee in testa, per impedire la formazione di uno stato arabo unitario dalla Mesopotamia all’Egitto, per costringere le classi sfruttatrici locali a mettersi alle loro dipendenze, per dividere le masse lavoratrici con steccati religiosi e consegnarle all’impotenza politica, per trasformare il Libano in una base di manovra per il dominio occidentale dell’intera regione.

Dunque: anche la semplice liberazione dello sviluppo dell’economia capitalistica del Libano dai retaggi coloniali e dai residui pre-capitalistici -il confessionalismo è tra questi- è intrecciata alla trasformazione radicale dell’intero Medioriente e allo scontro con le forze capitalistiche dell’Occidente. È vero, quindi, che non si può vincere in Libano senza vincere nel resto del Medioriente. Ma da questo collegamento cosa deriva? Che la lotta delle masse lavoratrici del Libano va condotta alla stessa scala, deve incarnarsi in una forza che agisce alla stessa scala. Questa forza potenzialmente già esiste ed è rappresentata dalla massa degli sfruttati del Medioriente, che va riunificato al di sopra delle divisioni scavate attualmente dalle differenze religiose e nazionali. Questa forza non può essere sostituita da nessun surrogato. In particolare non può essere sostituita dall’alleanza con i settori della borghesia nazionale "progressista" del mondo arabo e islamico, quello siriano e quello iraniano compresi.

E la Siria? e l’Iran?

Prendiamo il caso del governo baathista della Siria. Esso è oggi nel mirino dell’imperialismo perché lo stato siriano (insieme con quello iraniano) costituisce una barriera per il libero dispiegamento dei bulldozer occidentali nell’area, al fine di realizzare la completa atomizzazione dei popoli mediorientali rincorsa da decenni e teorizzata da alcuni dirigenti israeliani. Lo stato siriano e la politica del governo baathista di Damasco sono tuttavia incapaci di far fronte a questo attacco e indisponibili, e non da oggi, ad offrire sostegno alle lotte dei lavoratori del Libano e del Medioriente. Sono i fatti a dirlo.

Ogni volta che vi è stato un movimento popolare e perfino solo nazional-statale che ha gettato il guanto di sfida contro lo spezzettamento della regione, la Siria si è schierata contro di esso e in alcune occasioni ha operato apertamente a fianco delle potenze occidentali. Successe ai tempi della RAU negli anni cinquanta-sessanta. Successe nel 1976 quando i carri armati siriani cooperarono con le bande di Gemayel contro il movimento popolare auto-organizzato catalizzato dalla resistenza palestinese oltre le barriere religiose e nazionali. Successe di nuovo nel 1990, quando la Siria partecipò alla coalizione occidentale messa in piedi per ripristinare la divisione imperialistica dell’area fatta parzialmente saltare dalla ri-annessione del Kuwait compiuta dall’Iraq di Saddam Hussein.

Quanto all’oggi, la politica economica che il governo di Damasco, sotto la pressione del capitale finanzario internazionale, sta portando avanti fa toccare con mano quanto esso sia sensibile alle necessità degli sfruttati. Il cocktail non è nuovo: agevolazioni fiscali e nel campo della legislazione del lavoro per attrarre gli investitori internazionali; promozione delle colture di esportazione a scapito dell’alimentazione della popolazione; svalutazione della moneta e blocco dei salari (inchiodati sui 150 dollari al mese); progressivo smantellamento del sistema di protezione sociale messo in piedi durante la fase di modernizzazione, pur moderata, dei rapporti sociali in senso capitalistici promossa dal Baath dall’alto dell’intervento statal-militare; delega delle decisioni economiche del governo alla banca centrale e, attraverso questa, ai "suggerimenti" delle istituzioni finanziarie occidentali e del Golfo; assegnazione del ministero delle finanze ad un ex-economista della Banca Mondiale; erosione del calmiere statale sui prezzi dei beni di prima necessità; apertura delle porte agli investimenti di tipo speculativo dei capitali "nazionali".

Le conseguenze sulla popolazione lavoratrice cominciano ad essere quelle già viste in altri paesi del Sud del mondo: aumento di disoccupazione e sotto-occupazione; crescita del numero di persone con reddito al di sotto della soglia di povertà (oltre 2 dei 18 milioni di siriani); espropriazione dei piccoli contadini e accentramento nelle terre nelle mani di una ristretta oligarchia strettamente intrecciata con le banche, emigrazione... Che sostegno possono mai avere da Damasco una ricostruzione e un Libano che non siano succubi degli interessi del capitale finanziario statunitense ed europeo?

E si giungerebbe alla stessa conclusione se considerassimo l’altro governo che in questo momento si dichiara solidale con il popolo del Libano e denuncia l’ordine imperialistico in Medioriente: quello dell’Iran. In questo caso il primo testimone contro il proprio regime per quello che concerne la sua politica sociale sarebbe Ahmadinejad: è stato lui in persona a dire che, a oltre 25 anni dalla nascita della repubblica islamica, la polarizzazione sociale in Iran ha fatto passi da gigante, e che il suo stesso governo non riesce a marciare contro la tendenza per cui i ricchi (in testa Rafsanjani) diventano sempre più ricchi e le masse oppresse sempre più povere.

Il proletariato del Golfo

Anche a scala regionale, dunque, le masse lavoratrici del Libano non hanno amici nella cerchia delle forze borghesi arabe o musulmane. Possono contare solo sulle centinaia di milioni di oppressi, che vivono nella regione. È una forza che, rispetto ai decenni passati, si è estesa e ha visto rafforzarsi al suo interno il suo nucleo proletario per effetto del crescente inserimento dell’area entro il circuito del mercato capitalistico mondiale con lo sviluppo di zone speciali di esportazione e la recente formazione di un mercato comune che va dall’Arabia Saudita al Libano. Questo è accaduto soprattutto nei centri petrolchimici e industriali sorti nei paesi del Golfo, ben irrorati dagli investitori internazionali per il costo del lavoro (una decina di euro al giorno) assicurato dalle condizioni poliziesche e di ricatto imposte dalle monarchie tanto care all’Occidente.

Quest’ultimo settore proletario è arrivato a contare tra i dieci e i venti di milioni di operai e a prorompere in alcuni clamorosi scioperi, come quello organizzato a Dubai nel marzo scorso dai 2500 operai edili addetti alla costruzione di una gigantesca torre per conto dell’impresa coreana Samsung. Non è, poi, una semplice concessione regale la legge varata nell’Arabia Saudita sulla costituzione dei sindacati nelle aziende con un numero di dipendenti superiore a cento. Questa branca del proletariato mondiale e il suo risveglio sono la proiezione di un mondo più vasto della penisola arabica, perché essa comprende anche una sezione immigrata dai paesi del sub-continente indiano e dall’Estremo Oriente, in prima fila, pur se ultra-ricattata, nelle lotte a Dubai.

Questa forza va "solo" organizzata con pazienza sotto la guida di una politica liberata dall’illusione di trovare una via di accomodamento entro i recinti confessionali e statali delineati dall’imperialismo stesso. Va "solo" unificata oltre le barriere statali e religiose in cui è imprigionata. È questa unificazione la vera "bomba nucleare" (sociale) temuta dall’imperialismo!

Hezbollah, pur così nel mirino dell’imperialismo e di Israele, non solo non prende in considerazione questo compito verso gli sfruttati dell’area, ma sembra progressivamente ritrarsi dal suo primitivo orizzonte internazionale.

Nel 1985 Hezbollah nacque non come partito libanese ma come sezione in Libano di un movimento internazionale, posto a cavallo su tre continenti. "Occorre non pensarsi più, dissero i suoi fondatori, come egiziani o siriani o libanesi o iraniani, altrimenti saremo sempre sottomessi agli Stati Uniti, ai suoi cani da guardia in Medioriente e ai suoi cooperatori europei. Possiamo superare tali barriere, se ci raccogliamo attorno a ciò che ci unisce, la fede nell’islam, la quale offre, se ben interpretata, gli strumenti per realizzare quella società giusta promessa ma non realizzata né dal capitalismo né dal comunismo." Da qualche anno, stiamo, invece, assistendo alla progressiva chiusura dell’orizzonte dell’azione politica di Hetzbollah entro un’ottica limitatamente libanese. È rilevante, a tal proposito, la posizione assunta da Hezbollah nei confronti della questione palestinese e dello stato d’Israele, un punto che si collega direttamente ad un altro dei compiti prioritari cui è chiamata la resistenza dei proletari in Libano: l’organizzazione della difesa dall’aggressione di Israele, che non è terminata, che va ben oltre la contesa attorno alle fattorie di Sheeba, che si prepara a colpire di nuovo, a meno che Hezbollah non ceda.

Nei documenti fondativi del "partito di Dio" si affermava giustamente che non potrà esserci pace, libertà e benessere per i popoli del Medioriente, arabi, curdi, ebrei, turchi, iraniani, ecc., senza l’eliminazione dello stato (si legga bene stato) d’Israele. Non siamo tra chi considera una simile tesi una farneticazione o un rigurgito di anti-semitismo. È la funzione svolta da Israele sin dalla sua nascita a condurre a questa conclusione. Negli ultimi anni, alcune interviste di Nasrallah hanno, però, aperto alla possibilità di accettare la nascita dello stato palestinese a fianco dello stato di Israele se il popolo palestinese si riconoscerà in simile prospettiva. Sembrano andare nella stessa direzione le precisazioni sulla natura delle azioni militari compiute in luglio da Hezbollah contro la zona settentrionale di Israele: esse avrebbero avuto una mera funzione difensiva per il popolo libanese, e non sarebbero state animate dall’intenzione di condurre a fianco dei palestinesi la resistenza nei Territori, appannaggio esclusivo del popolo palestinese. A conferma di questo orientamento di focalizzazione sulla ridotta libanese, è giunta la dichiarazione di Nasrallah sull’onda dell’ultima aggressione israeliana: "Se avessimo previsto le conseguenze della nostra azione militare del 12 luglio, non l’avremmo fatta".

Ci domandiamo: Hezbollah si sta accingendo ad adottare quel principio di non-interferenza che l’imperialismo ha voluto imporre ai lavoratori e ai popoli racchiusi entro i recenti da esso delimitati in Medioriente? il principio che tanti guasti ha fatto al movimento antimperialista nel mondo arabo-islamico e che le formazioni nazionalistiche di stampo "socialista" furono incapaci di superare, irretite nelle meschine gelosie localistiche delle élites piccolo-borghesi e borghesi egiziane, siriane, irachene, ecc.? che senso ha questa non-interferenza quando l’imperialismo adotta il principio opposto, con le risoluzioni Onu, con l’esca degli "aiuti" portati dalle ong, con i suoi appoggi a questo o a quel raggruppamento borghese arabo, con i suoi embarghi e i suoi ricatti finanziari e con i suoi interventi militari diretti nel momento in cui la situazione diventa incontrollabile? che senso ha questa non-interferenza quando le classi borghesi arabe e del mondo musulmano non ci pensano due volte a mettere il naso nelle vicende libanesi per impedire lo sviluppo di un solido movimento antimperialista basato sul protagonismo delle masse lavoratrici?

A cosa è dovuto un simile arretramento? Non siamo così semplicisti da pensare che la lotta di classe o un movimento di resistenza antimperialista si sviluppino in modo lineare ascendente. Mettiamo nel conto che si possa essere costretti a ripiegamenti, a passi indietro o a compromessi. In questo caso, la situazione è davvero così sfavorevole? Hezbollah sta trovando il massimo grado di legittimazione e consenso in Libano; alcuni settori popolari del fronte del "14 marzo" si sono staccati dalla coalizione rappresentata da Fuad Sinora; la simpatia nel mondo arabo e islamico verso Hezbollah è grandissima, perfino oltre i confini sciiti e musulmani... e un pizzico anche in Occidente.

Non si possono, quindi, imputare agli sfavorevoli rapporti di forza l’arretramento nella "politica internazionale" di Hezbollah così come, nel migliore dei casi, l’esitazione del "partito di Dio" davanti alla prospettiva della presa del potere in Libano da parte delle masse lavoratrici e disederate. Queste due autentiche palle al piede discendono dalla prospettiva generale di Hezbollah. I militanti islamisti non potranno liberarsene senza fare i conti, nella continuazione della lotta, con tale prospettiva.

 

Si può rendere "equo e solidale" il capitalismo?

Hezbollah ritiene di poter realizzare il riscatto del mondo islamico entro le relazioni economiche del capitalismo internazionale se queste ultime vengono corrette in senso "equo e solidale". Questa prospettiva suppone che il capitalismo internazionale sia la somma di economie capitalistiche locali e che ciascuna di queste ultime possa ripercorrere, anche se al prezzo di lotte contro i pesi massimi dell’imperialismo, la traiettoria seguita dai capitalismi nazionali dell’Europa occidentale, dell’America settentrionale e del Giappone.

La storia, confermando la critica dell’economia politica svolta da Marx e da Engels, mostra che le cose non stanno così. (1) Per il marxismo rivoluzionario l’imperialismo non è una cattiva gestione di un sistema sociale, il capitalismo, che sarebbe in grado, altrimenti, di far convivere armonicamente popoli e classi sociali diversi. L’imperialismo è il capitalismo giunto all’epoca della sua putrescenza, che non può funzionare (fin dall’inizio è stato così) senza differenziare i livelli di sviluppo tra i continenti e i popoli, senza lo schiacciamento dei lavoratori dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa da parte di un pugno di stati armati fino ai denti ed in possesso del monopolio del capitale liquido mondiale e delle tecnologie produttive. Non potrebbe esserci l’iper-sviluppo dell’Occidente capitalistico senza il sottosviluppo del mondo arabo-musulmano. Da questo fatto segue che la liberazione dei popoli e degli sfruttati del Medioriente dagli effetti economici, sociali e politici della dominazione imperialistica richiede la distruzione dei rapporti sociali capitalistici nel mondo intero, richiede di organizzare le forze produttive secondo un piano cooperativo mondiale funzionale non al profitto ma ai bisogni di armonioso sviluppo della specie umana.

Sta proprio qui la radice strutturale dell’incapacità delle borghesie dei paesi dominati o controllati dall’imperialismo di condurre fino in fondo la lotta contro la dominazione imperialistica. Non neghiamo che quest’ultima pesi anche sugli strati borghesi del mondo arabo-islamico e renda impossibile quella riproduzione capitalistica all’europea che, pure, è sognata dai capitalisti libanesi, siriani, iraniani, ecc. E ci rendiamo conto quanto questa condizione possa rinfocolare la speranza di un interesse comune tra proletariato e borghesia, di poter fare un tratto di strada insieme, di avere in "casa propria" un alleato contro il fortissimo nemico esterno. Ma è proprio la struttura combinata e diseguale del capitalismo internazionale che rende questa ipotetica alleanza una pietra al collo, e non un salvagente. La storia delle lotte antimperialiste lo ha confermato innumerevoli volte. Vi abbiamo già accennato. Quando non si sono sottomesse servilmente ai gangsters occidentali, le borghesie nazionali arabe hanno potuto compiere atti di ribellione contro singoli aspetti dell’ordine imperialistico del Medioriente, salvo fermarsi quando lo scontro è arrivato a mettere a rischio la stabilità sociale interna, lasciare sguarnite le masse lavoratrici a cui si è fatto in precedenza appello o addirittura colpire direttamente (in cooperazione con gli stati occidentali) la scesa in campo diretta degli sfruttati o l’attività dei militanti proletari antimperialisti più radicali. Successe in Iraq nel 1991, contro la sollevazione delle popolazioni sciite e curde all’indomani della sconfitta di Saddam Hussein. Successe in Iran, con la repressione compiuta dal potere khomeinista contro i nuclei proletari classisti operanti nel processo rivoluzionario apertosi nel 1979.

Da qualsiasi lato si esamini la faccenda si arriva alla stessa conclusione: lo sviluppo di una coerente lotta rivoluzionaria contro la dominazione imperialista e il suo baluardo israeliano richiede la frattura secondo linee di classe della società dei paesi del Medioriente e l’incardinamento delle mobilitazioni in corso attorno ad un orizzonte teorico e d’azione coerentemente anti-capitalistico e non semplicemente "anti-imperialista".

 

La "umma" non è e non può essere unita.

La piena traduzione sul piano politico di questa conclusione trova un ostacolo in uno dei perni dell’ideologia di Hezbollah e, in generale, dell’islamismo radicale: quello dell’imperativo dell’unità della comunità islamica come elemento da conservare gelosamente per opporre un valido argine alle aggressioni dell’imperialismo.

Questo vincolo è considerato da molti militanti islamisti intoccabile in quanto raccomandato da Maometto in persona. Sappiamo che egli ha detto: "Colui che cercherà di dividere i musulmani quando sono uniti, chiunque egli sia, passatelo a fil di spada". Ma quando lo ha detto? In un’epoca in cui il movimento islamico stava cominciando ad ingaggiare la sua lotta rivoluzionaria contro i rapporti sociali allora prevalenti nella penisola arabica e contro i decadenti imperi dei persiani e dei bizantini. In quella situazione, come accade in ogni movimento rivoluzionario allo stato nascente e soggetto alle persecuzioni dei poteri costituiti, vi era bisogno di darsi un assetto unitario nello scontro rivoluzionario con i mercanti del Tempio e gli sfruttatori dell’epoca. Oggi la "comunità islamica" è diventata tutt’altra cosa. I custodi dei luoghi santi, tanto per dire, sono strettamente legati ai più grandi poteri filo-imperialisti. Non sono forse loro i nuovi mercanti del Tempio?

Che lo si voglia oppure no, la comunità dei credenti musulmana è attraversata da una profondissima e non sanabile spaccatura di classe tra oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori, diseredati e straricchi e questa spaccatura richiede che la lotta di liberazione degli oppressi islamici, il loro jihad passi dentro la stessa "umma", si rivolga contro le classi dominanti che ne reggono le fila e sono collegate con mille fili e subordinate ai grandi poteri capitalistici occidentali.

La vera "comunità" da unire è la classe degli sfruttati.

Ecco perché i criteri che hanno istintivamente portato i militanti islamisti a stabilire un embrione di unità d’azione con i militanti della sinistra del Libano sono sani e vanno sviluppati sino in fondo. Essi chiedono di stabilire sulla base delle distinzioni di classe e non sulla base di quelle religiose chi è il proprio compagno di lotta (anche non islamico) e chi è il proprio nemico (anche se islamico). Del resto, successe qualcosa di simile anche ai tempi della rivoluzione maomettana, quando fu necessario riconoscere che i legami tribali erano un laccio allo sviluppo della nuova comunità di lotta dei credenti raggruppata attorno a Maometto e furono lasciati cadere per stabilire la fratellanza tra coloro che, pur separati da legami di sangue, condividevano lo stesso schieramento nello scontro rivoluzionario in corso.

Parte integrante di questa nuova "comunità di lotta" sono anche gli sfruttati ebrei d’Israele, che stanno sperimentando quanto sia fasulla la speranza che lo stato d’Israele sia in grado di offrire loro protezione e benessere. La società israeliana è stanca, i soldati sono spesso demotivati, l’"anima" di Israele è disorientata. Questa situazione, da Hezbollah stesso approfondita, va messa a frutto con una politica che getti un ponte verso il proletariato ebreo d’Israele e s’inserisca come un cuneo tra quest’ultimo e le politiche con cui i vertici militari e le formazioni di estrema destra stanno tentando di irreggimentarlo dietro una nuova guerra contro il mondo arabo e musulmano. Anche su questo piano, i lavoratori del Libano hanno interesse a smarcarsi dalla posizione delle classi sfruttatrici arabe, le quali, agitando di quando in quando lo slogan apparentemente radicale "gettare a mare tutti gli ebrei", hanno cercato un cemento per mantenere l’oppressione sui loro lavoratori e lasciare che i pilastri dell’ordine imperialistico del Medioriente rimassero inalterati.

La tragica "alternativa" a questo tipo di spaccatura dell’"umma" secondo linee di classe è, come sta avvenendo nel bagno di sangue iracheno, la spaccatura per linee confessionali e settarie che sta ri-consegnando il fiero popolo iracheno alla dominazione imperialista a cui ha pur saputo contrapporsi con immenso coraggio.

Per la sua posizione nei rapporti sociali, per noi comunisti del che fare, anche il proletariato occidentale è parte integrante, decisiva, della ricomposizione del fronte di lotta internazionale degli sfruttati contro l’imperialismo. Sappiamo che ci si potrebbe obiettare: "Ma dove accidenti è, questo proletariato? Se c’è, non è forse d’accordo con i propri governi o indifferente alla sorte dei popoli arabo-islamici? Cosa possiamo aspettarci di buono dai lavoratori occidentali?"

Attenzione. Non diciamo che già oggi la classe proletaria sia pronta per quest’opera di radicale rinnovamento sociale. Sappiamo che le cose stanno diversamente. Che, in particolare, i lavoratori occidentali, contro i loro stessi interessi, sono indifferente od ostili alla lotta antimperialista nel mondo musulmano. Ma lo sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori occidentali dagli stessi rapporti sociali capitalistici che schiacciano il mondo arabo-islamico, la marcia del capitalismo e la stessa "guerra di civiltà" attorno alla quale gli stati imperialisti vorrebbero arruolarli, li spingono ad una collocazione diversa, ad entrare in rotta di collisione con il proprio imperialismo e a riconoscere come parte integrante del proprio esercito la lotta di liberazione nazionale e antimperialista nel mondo musulmano (e nell’intero Sud del mondo).

Questo passaggio, inscritto nella dinamica del capitalismo, non si realizzerà mai, però, se, sin da ora, non c’è un’azione soggettiva che getti un ponte tra i due fronti della stessa battaglia antimperialista, che lavori per l’unificazione della classe proletaria internazionale e cementi attorno ad essa la lotta delle masse diseredate del mondo musulmano e del Sud del mondo. Sappiamo che i militanti antimperialisti del mondo arabo hanno provato a tendere una mano verso i lavoratori occidentali, che hanno lanciato un appello ai "popoli dell’Occidente" e, in più occasioni, li hanno invitati a separarsi dai propri governanti. Sappiamo che la risposta è stata negativa o assente. Ma si va creando una frattura sociale sempre più profonda anche in Occidente tra sfruttati e sfruttatori. E quello che oggi non si riesce a sentire e a capire, lo si potrà sentire e capire domani. Bisogna insistere e non, invece, "cambiare interlocutore".

Unifil II e Hezbollah

È invece quello che sembra stia succedendo ad Hezbollah. Da un lato, essa tende a privarsi dell’ossigeno che proviene dalle masse lavoratrici della regione, dall’altra cerca questo ossigeno laddove può venire solo anidride carbonica, nell’Europa e in particolare nell’Italia, e nella missione neo-coloniale Unifil II o nella versione italiana di questa spedizione. Ma sarà mai possibile ricevere un sostegno proprio da chi è corresponsabile della frantumazione del mondo arabo? Da chi ha dato il suo beneplacito al distacco del Libano dalla Siria e progettato e resa possibile l’instaurazione del confessionalismo in Libano? Da chi non ha esitato a bombardare l’Iraq nel 1991 e ad imporre un embargo terroristico che ha causato più morti delle due guerre contro l’Iraq? Da chi sta partecipando al boicottaggio del governo di Hamas? Da chi sta partecipando al pressing sul governo di Teheran? Da chi regala ai lavoratori di fede islamica immigrati in Europa razzismo e supersfruttamento?

La forza Unifil II, di cui l’Italia è parte, infatti, non segna un cambio di pagina. Essa è pienamente coerente con le politiche precedenti. Intende favorire lo scioglimento della forza armata di Hezbollah entro le maglie dello stato libanese e seminare l’illusione che ci possa essere una rinascita per la popolazione lavoratrice se il Libano tornerà ad essere un paese indipendente, amico

nose lotte antimperialiste dell’area, a partire da quella palestinese e dalla solidarietà con i profughi palestinesi in territorio libanese. Non dice nulla il fatto che, nel passato, i colonialisti europei e poi statunitensi, abbiano fatto di questa prospettiva libanese il cavallo di Troia per affermare i loro piani? Non dice nulla il fatto che essa è stata il cardine del partito falangista?

Oggi l’Italia cerca di rinverdire questa tradizione e di far leva, a tal fine, sui limiti della politica di Hezbollah e sugli interessi degli strati borghesi che fanno riferimento a Hezbollah, in modo da far percorrere a questa formazione la stessa traiettoria compiuta dall’Olp. Non è un caso che una delle riviste di orientamento geo-politico del centro-sinistra scriva: "Hezbollah non è diverso dalla gran parte degli altri movimenti di guerriglia. Non può essere sconfitto militarmente in un mini-conflitto armato di poche settimane; ma nel lungo periodo può essere sconfitto politicamente. (…) Dopo tutto, quando Hezbollah venne fondato la maggior parte degli sciiti libanesi era costituita da contadini poveri. A distanza di circa un quarto di secolo, il quadro è oramai diverso: la comunità ha ricevuto molto denaro dai connazionali emigrati in Africa occidentale –dove gli sciiti libanesi controllano il commercio dei diamanti– e negli Stati Uniti, tanto che a Beirut e nelle principali città del Libano meridionale si è formata una nuova borghesia sciita. (…) Gli investimenti iraniani, incanalati attraverso Hezbollah, hanno concorso anch’essi all’espansione della nuova classe media sciita, che ha un evidente interesse alla stabilità e alla pace del paese" (in Astenia, "L’interesse dell’Italia. Chi siamo, cosa vogliamo", n. 34, settembre 2006).

Ai militanti islamisti diciamo, infine: sappiamo che non condividete la nostra sottolineatura del legame inestricabile tra la lotta per la liberazione nazionale e quella per la liberazione sociale, che nel migliore dei casi considerate esagerata la nostra concezione dell’antagonismo inconciliabile tra le classi sociali, che ritenete sconfitta la prospettiva del comunismo e infondato il ruolo assegnato dai comunisti al proletariato nel processo di liberazione mondiale dallo sfruttamento, dall’oppressione nazional-razziale e dal dominio del sesso maschile su quello femminile.

Ma è la realtà del capitalismo mondiale e quella dello scontro in corso in Medioriente a porvi di fronte a questi nodi. Non potete aggirare il confronto con le nostre osservazioni, perché non potete aggirare il confronto con ciò che è il capitalismo e con la dominazione di esso sui vostri paesi. E perciò, chi di voi vorrà andare fino in fondo, non potrà neppure scansare il confronto con il comunismo.

(1) Di più. Il contesto internazionale in cui si è svolta la lotta in Libano ha spinto i militanti islamisti di Hezbollah ad allargare lo sguardo al di fuori dei confini mediorientali. Ad esempio, verso i movimenti antimperialisti dell’America Latina, i cui protagonisti sono spesso organizzati attorno alla bandiera del "socialismo cristiano" alla Chavez. Su questa base Hezbollah ha iniziato la traduzione di una serie di testi della teologia della liberazione cristiana latinoamericana.

Noi consideriamo della più grande importanza questa prima "covnergenza" tra il Libano e l’America Latina. Esso è espressione della più generale, pur se embrionale, socializzazione in corso da alcuni anni delle multiformi esperienze di lotta dei vari continenti, anche attraverso i Social Forum mondiali, a cui anche Hebzollah ha partecipato. L’unitarietà e la forza del nemico contro cui si stanno mobilitando gli sfruttati nei vari continenti richiede, però, di andare al di là di questa prima convergenza e di portare avanti un serrato dibattito su quale sia l’indirizzo più adeguato per la conduzione dello scontro con l’imperialismo.


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