Lavoratori / padronato e governo: è tempo di...
Dove portano competitività e liberalizzazioni? A una società in cui a dovere essere competitivo, liberalizzato e low cost sarà anzitutto il lavoro
Il governo di centro-sinistra, da un lato, Confindustria e Draghi, dall’altro, convergono nel chiamare le organizzazioni sindacali e i lavoratori ad una trattativa finalizzata a ridisegnare gli orari, l’organizzazione del lavoro, la struttura dei contratti nazionali e, di nuovo, il sistema pensionistico. Il tutto in vista di un accordo generale per la produttività e la competitività del "sistema Italia". Questo invito e questa prospettiva vanno respinti. Senza se e senza ma.
Per due ragioni.
La prima è che tale prospettiva comporta il completo assoggettamento dei lavoratori al mercato e alle imprese. Con una catena di conseguenze penalizzanti e atomizzanti per la classe lavoratrice, che vanno dall’aggancio di quote sempre maggiori del salario ai risultati delle singole aziende, all’incremento dei carichi di lavoro, già ora per molti intollerabili, alla libertà di licenziamento, fino ai nuovi tagli al sistema pensionistico e alla trasformazione coattiva o "volontaria" dei lavoratori in azionisti di borsa che nulla contano e tanto rischiano, come nel caso dei fondi pensione. Fa parte integrante di tale cammino verso la "libertà" (di sfruttamento) la progressiva demolizione di tutte le forme di organizzazione in qualche modo confederali dei lavoratori, e perfino di quelle categoriali, come mostra il caso statunitense, dove si è arrivati ad avere un mero 9% di iscritti ai sindacati nel settore privato dell’economia. Non inganni l’attuale coinvolgimento dei sindacati maggioritari, né il loro, sempre più debole e sempre più debolmente esercitato, "potere di veto". Ciò a cui li si chiama è a contribuire al proprio auto-affondamento e alla propria trasformazione in apparati di servizi agli "utenti", burocratizzati più di quanto già non lo siano, e sempre più estranei ai luoghi di lavoro, sempre più profondamente e direttamente coinvolti (si pensi, anche qui, ai fondi pensione) nell’"ordinata gestione" delle leggi di mercato e della concorrenza tra imprese e tra paesi, cioè tra lavoratori. E non si può certo dire che i vertici dei sindacati stiano alzando le barricate contro questa trasformazione-deriva. Neppure dentro la Cgil, dove anzi è ciclicamente sotto tiro il solo, forse, tra i sindacati di categoria, la Fiom, che continua ad auto-concepirsi, fino ad un certo punto, come sindacato conflittuale.
Insomma anche Prodi&C. indicano come via obbligata da percorrere per la società italiana quella dell’americanizzazione non solo del mercato del lavoro ma dell’intera esistenza dei lavoratori. Ciò risulta evidente dal recente pacchetto di liberalizzazioni. Esso promuove, infatti, a piccoli passi, la prospettiva di una società low cost con l’ulteriore accentramento dei consumi intorno agli iper-mercati, la liberalizzazione degli orari, e una certa riduzione di costo dei servizi e delle merci disponibili per la massa della popolazione. E’ la società di Wal-Mart, di Ikea, di Ryanair, di Google che si espande ben al di là dei confini di queste imprese-guida, e che viene presentata come la sola risposta possibile dell’economia di mercato alla "fine dell’era delle aspettative crescenti". I benzinai debbono scomparire, ha scritto Turani su la Repubblica, come sono scomparsi nelle nazioni più avanzate. E una decimazione dovrà esserci anche per la marea dei commercianti al dettaglio, i giornalai, i tassisti indipendenti, l’elenco è lungo, ed in tutti questi casi si prospetta al lavoratore-consumatore un risparmio di spesa e di tempo. Bersani offre ai giovani più intraprendenti e qualificati questo processo di liberalizzazione-semplificazione dei servizi come una buona opportunità per emergere. Per emergere in una competizione sul mercato sempre più sregolata e al ribasso che, attraverso un’iniziale deregulation, deve implementare il processo di concentrazione del capitale anche in questi ambiti.
Il puzzle delle misure di liberalizzazione fin qui prese dal governo Prodi può anche sembrare incoerente. Ma dietro queste misure c’è una logica di insieme perfettamente capitalistica, che punta alla riduzione dei costi di circolazione delle merci e alla riduzione dei costi di riproduzione della forza-lavoro come su due leve utili alla riduzione ulteriore dei costi di produzione. E riduzione dei costi di produzione significa in primo luogo riduzione del valore, del costo, della remunerazione della forza-lavoro. L’amputazione delle classi intermedie serve, poi, anche a gonfiare di eccedenze il mercato del lavoro salariato con una nuova forza di lavoro impaurita e declassata da mettere in concorrenza, una concorrenza al ribasso va da sé, con i salariati "di tradizione". Il paese ch’è andato più lontano su questa via, gli Stati Uniti (dove il lavoro "autonomo" tocca a stento il 10%, mentre in Italia è ancora superiore al 25%), è il paese in cui i salari hanno perso in trenta anni ogni anno circa l’1% del loro potere di acquisto.
Il processo delle liberalizzazioni è anzitutto e soprattutto un corso di di liberalizzazione dello sfruttamento e dell’auto-sfruttamento, a misura che gli stessi piccoli esercenti e piccoli produttori di servizi sono costretti, per sopravvivere, ad estendere i propri orari di lavoro, a moltiplicare le proprie mansioni, ad offrire sconti e, naturalmente, a spremere fino al midollo (se ne hanno) i propri dipendenti. Questo, sebbene il centro-sinistra abbia in mente di avanzare con gradualità, attuando una sorta di americanizzazione temperata, con compensazioni per i colpiti e con qualche "protezione" per i più "deboli", in linea con una sorta di solidarietà compassionevole di cattoliche radici – eccolo in breve il programma del Partito democratico in costruzione. E’ questa "moderazione" che non piace agli ambienti confindustriali.
Il secondo motivo per cui la proposta prodiana è tremendamente dannosa per i salariati è che essa li spinge, spinge anzitutto gli operai, ad intrupparsi dietro i propri sfruttatori, ed a contrapporsi in modo suiocietà che in questo processo di americanizzazione, di polarizzazione sociale, è destinata ad essere scalzata dalle proprie attuali posizioni e in molti casi precipitata in un vero e proprio processo di proletarizzazione, formale e/o reale. Sappiamo bene che per un intero secolo nei paesi ricchi, l’Italia tra essi, le mezze classi accumulative e il personale statale sono stati il più sicuro presidio sociale dell’ordine capitalistico contro la classe operaia e il movimento proletario, l’inesausta riserva dell’anti-comunismo. E tuttavia la grande svolta che l’avvento della reaganomics prima e della low cost society poi hanno segnato, porta con sé la messa sotto pressione, insieme ai salari, anche dei redditi da piccolo lavoro autonomo e della massa degli stipendi (inclusi quelli del personale tecnico qualificato, coinvolto ormai amch’esso in un mercato del lavoro mondializzato). E con ciò sta producendo un vero e proprio sfarinamento delle posizioni intermedie della "stratificazione sociale", rompendo in qualche modo i diaframmi tra questi tre settori di massa del mercato del lavoro: lavoro operaio, lavoro impiegatizio, piccolo lavoro autonomo.
Per la classe dominante dei paesi occidentali, ciò comporta una nuova ed inedita sfida politica: tenere a bada il salariato senza poter contare ad occhi chiusi sulla tradizionale fanteria anti-operaia. Per la classe dei lavoratori a salario, invece, questo oggettivo, non transitorio avvicinamento di condizioni sociali e lavorative costituisce un’opportunità nuova: di parlare ad aree sempre più vaste della società, e diventare davvero, con la vigorosa ripresa della propria lotta antagonista contro il grande capitale, il punto di riferimento di quanti vivono del proprio lavoro, offrendo ad essa una vera alternativa di sistema sociale. La politica del centro-sinistra e quella del centro destra1 cooperano, da poli "opposti", a scongiurare proprio questa possibile congiunzione astrale, che sarebbe quanto di peggio possa capitare ai poteri forti, i grandi profittatori del basso costo del lavoro e della bassissima qualità di vita che la low cost society, e il low cost welfare che l’accompagna, comportano.
E’ per queste ragioni che il programma del governo Prodi e la sua concreta messa in opera vanno, senza ulteriori indugi ed illusioni, contrastati e lottati. Insieme con tutta l’intollerabile chiacchiera sull’"equità per lo sviluppo" che li unge.
(1) Si pensi a quanto è velenosa certa propaganda dei capi leghisti che descrive l’intero comparto pubblico e para-pubblico come un solo, uniforme melma di profittatori che campa sulle spalle dei "produttori" (i mitici sciur Brambilla…) laddove in esso lavorano sodo centinaia di migliaia di proletari, dagli infermieri ai ferrovieri, dai postelegrafonici agli addetti ai trasporti locali, e figure sociali, come i vigili del fuoco e i maestri, per fare due esempi, che solo una torbida demagogia anti-proletaria, tale anche se ammantata di filo-produttivismo, può collocare in blocco tra i parassiti della società. Ancor più torbida perché i suoi diffusori fanno da anni i reggicoda di Berlusconi, il signor ("produttore"?) 50 miliardi di euro, accumulati come?, col sudore della fronte?