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La missione militare italiana in Libano

Di fronte all’incrudirsi delle contraddizioni sociali e militari in Medioriente e all’invio della missione italiana in Libano, in Italia solo una ristretta pattuglia di quello che fu il movimento no war ha fatto sentire la sua voce. Tale pattuglia si è divisa, tra chi ha partecipato alle manifestazioni di Assisi del 26 agosto e di Milano del 18 novembre e chi ha partecipato alle manifestazioni di Roma del 30 settembre e del 18 novembre.

La piattaforma delle manifestazioni di Assisi e di Milano ritiene che si possa "costruire una vera pace con giustizia" in Medioriente, nell’interesse dei popoli "di là" e della gente comune "di qui", attraverso la politica che sta attuando il governo Prodi-D’Alema. A questo governo viene riconosciuto il merito di aver mantenuto la promessa sul ritiro delle truppe dall’Iraq e di aver iniziato, con la missione Unifil II in Libano e le proposte di D’Alema sulla Palestina, una politica in Medioriente di segno diverso da quella di Berlusconi. Quest’area ritiene che, incalzando il governo Prodi, si possano fare altri passi contro la spirale della "guerra infinita": il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, la riduzione delle spese militari, l’annullamento dell’accordo di cooperazione firmato dal governo Berlusconi con Israele…

Le piattaforme delle due iniziative di Roma, invece, si sono opposte alla politica estera del governo Prodi e alla missione Unifil II. Lo hanno fatto perché queste iniziative sono considerate al servizio degli interessi degli Stati Uniti e di Israele e non vincolate ad un vero ruolo di pace svolto dall’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo.

Per noi comunisti organizzati nell’Oci la missione militare italiana in Libano è una missione neo-colonialista che il nostrano capitalismo e il governo Prodi hanno intrapreso, insieme ad altre, per cercare di rilanciare l’Italia come potenza internazionale non di secondo o terzo rango. E va denunziata e lottata per tale.

 

Il "multilateralismo" italiano

Per comprendere in cosa consiste, in concreto, la "pace" che la missione Unifil II e la politica d’alemiana vogliono portare in Libano e in Medio Oriente, bisogna considerare che da alcuni anni si è sviluppato in Libano un movimento di lotta contro l’occupazione israeliana del Libano meridionale e contro la politica liberista imposta dalle istituzioni finanziarie occidentali al governo di Beirut. Lo schiacciamento di questo movimento di lotta, che ha visto schierati fianco a fianco lavoratori e oppressi di varie religioni e che ha trovato uno dei suoi assi nel "partito di Dio", è stato uno degli obiettivi dell’aggressione israeliana dell’estate scorsa. Il governo D’Alema-Prodi non ha uno scopo differente. La differenza tra Roma e Tel Aviv-Washington sta nel fatto che il governo Prodi intende spegnere il potenziale rivoluzionario antimperialista contenuto nel "partito di Dio" in Libano non con i cacciabombardieri, ma attraverso una politica, per quanto possibile, non apertamente bellica: con la "libanesizzazione" dell’orizzonte politico di Hezbollah, con il rafforzamento all’interno di questo partito delle ali legate agli interessi borghesi, con la spinta a fargli percorrere un tragitto simile a quello seguito dall’Olp di Arafat.

L’approccio del governo Prodi-D’Alema alla questione palestinese è analogo.

Propone una conferenza internazionale per l’invio di una forza multinazionale a Gaza alfine di portare a compimento la nascita di uno stato palestinese a fianco di quello israeliano secondo la prospettiva fissata ad Oslo. Uno "stato" che anche un intellettuale non certo estremista come Eduard Said ha definito "stato-bantustan" per i palestinesi, in grado di far intascare qualcosa ad una cricca di notabili palestinesi al prezzo, però, di spingere i diseredati e i lavoratori palestinesi ad offrirsi come manodopera a prezzi stracciati nel mercato del lavoro mediorientale ed europeo.

Se passiamo all’Iran, il discorso non cambia.

Il governo italiano e i massimi capitalisti nostrani concordano in pieno con i propri partners atlantici sul fatto che l’Iran va piegato. Sono consapevoli, però, che l’attacco militare penalizzerebbe la presenza economica italiana in Iran a vantaggio della concorrenza statunitense, britannica e israeliana. E paventano il rischio di una super-radicalizzazione sociale e politica della regione, che essi vorrebbero evitare poiché restringerebbe moltissimo i margini di manovra italiani. Di qui, il tentativo di raggiungere lo stesso obiettivo – piegare l’Iran- attraverso il negoziato, la richiesta di Prodi-D’Alema di far parte del gruppo delle potenze negoziatrici con Teheran, il suggerimento rivolto agli Stati Uniti di puntare sul containment, e cioè su un cocktail di boicottaggio finanziario-tecnologico e di blandizie mirante a far cedere la parte borghesia iraniana incarnata dall’ex-presidente Rafsanjani, terrorizzata dall’eventualità di perdere consistenti posizioni di potere a causa di uno scontro con l’Occidente, come è accaduto in Iraq alla borghesia nazionale rappresentata da Saddam, e terrorizzata dalla prospettiva di vedersi riaprire sotto i piedi il cratere del vulcano rivoluzionario rappresentato dall’odio antimperialista delle masse lavoratrici dell’Iran. Sul n.5/2006 di Limes il piano viene esposto in dettaglio e si precisa che Israele stesso dovrebbe partecipare a questa architettura con quelle concessioni sul fronte palestinese che il governo D’Alema auspica.

Ammettiamo che il piano di Prodi-D’Alema riesca. Quale pace s’instaurerebbe in Medioriente?

Gli effetti della"pace" italiana

Il caso-Libano, il caso-Palestina e il caso-Iran ci danno la stessa risposta: una pace fondata sul rafforzamento delle catene che gli sfruttati del Medioriente stanno cercando di spezzare con una resistenza che, pur tra mille difficoltà, si sta sforzando di superare i limiti del fallimentare antimperialismo di stampo nasseriano dei decenni passati. Questo risultato sarebbe vantaggioso per i padroni e i finanzieri italiani, è sicuro, ma non per i lavoratori italiani: nell’era della mondializzazione capitalistica, lo schiacciamento di un segmento del proletariato si ripercuote negativamente sulla condizione dell’intero proletariato. Il successo della politica dell’Italia in Medioriente metterebbe a disposizione del capitale italiano e occidentale una riserva di manodopera iper-ricattata da sfruttare in loco o in Europa e da utilizzare contro gli stessi lavoratori europei.

Abbiamo dimenticato che quest’effetto-domino è proprio quello che si è prodotto nei e dai Balcani? L’allora primo ministro D’Alema prometteva che la "stabilizzazione" dei Balcani (=la distruzione e disgregazione della Serbia) avrebbe giovato a tutti gli italiani e a tutti gli europei. Non ha portato, invece, da un lato all’emigrazione nei paesi dell’Europa occidentale di centinaia di migliaia di lavoratori costretti ad accettare salari ed orari infami?

La politica "pacifista" dell’Italia è rivolta contro i lavoratori anche per un’altra ragione.

Perché al di là delle intenzioni del governo italiano, essa non potrà che contribuire all’accelerazione dell’aggressione militare occidentale al mondo musulmano. Gli sfruttati del mondo musulmano (e quelli della Cina e dell’Estremo Oriente) non accetteranno di essere schiavizzati pacificamente, senza opporsi strenuamente a questo destino. Prima o poi, la parola dovrà, quindi, tornare alle armi. Quando ci sarà da spartire il bottino, e sarà ancora più chiaro di oggi che la quota spettante a ciascuno sarà proporzionale al grado di partecipazione armata di ciascuna potenza capitalistica all’aggressione, i capitalisti, i governanti e i generali italiani cercheranno di arruolare i lavoratori dietro i loro piani di guerra facendo fruttificare la propaganda "buonista" di oggi. Diranno che l’Italia si è battuta fino all’ultimo per la pace e la convivenza tra i popoli e che, proprio per continuare a preparare un mondo di convivenza e di pace, occorre prendere parte allo "scontro di civiltà". O dalla parte degli Stati Uniti, per condizionarne in senso umanitario le operazioni. Oppure, contro gli Stati Uniti, in favore di un’Europa autonoma fino in fondo: in favore, cioè, della formazione di un blocco imperialistico contrapposto agli Usa. Nell’uno e nell’altro caso, i lavoratori d’Italia saranno chiamati, in nome della pace, a prendere parte in modo diretto o indiretto alla guerra contro altri popoli, altri sfruttati e quindi contro sé stessi, contro gli interessi generali della propria classe.

La politica estera è indivisibile.

Eppure, non si può dire che il movimento no war e no global abbiano dato una risposta di lotta coerente e significativa a questo indirizzo politico. Anzi, una parte di essi è confluita addirittura a sostegno del governo Prodi. Come mai? Non riprenderemo qui l’analisi della composizione sociale di questo movimento, delle linee e delle organizzazioni politiche in esso operanti, del peso condizionante della fase storica che ci sta alle spalle. Chi vuole può ricostruire il nostro "punto di vista" su questi temi nei precedenti numeri di Che fare e potrà constatare che questo esito non troppo glorioso era stato da noi antivisto e che si era cercato di allertare, senza successo (anzi!), i militanti attivi in esso circa le sue e le loro possibili derive.

Ci limiteremo qui a porre alcune semplici domande.

La prima è rivolta a quanti, pur favorevoli alla missione in Libano, sono rimasti "sorpresi" dall’aumento delle spese militari deciso dal governo Prodi e intendono contrastarlo, o almeno così dicono, poiché l’azione di contrasto alla finanziaria è qualcosa di più e di diverso dalla mera critica verbale di essa. Pax Christi e altre associazioni dell’area pacifista cattolica che hanno sfilato ad Assisi o a Milano hanno protestato per il bilancio militare del governo di centro-sinistra. Ma come si può cauzionare il ruolo "di pace" del governo Prodi-D’Alema e poi lamentarsi degli oneri che questo ruolo comporta in termini di armamenti e missioni militari? o addirittura sognare che tale ruolo possa essere portato avanti dalle ong "disarmate"? La risposta del ministro della difesa Parisi è da questo punto di vista ineccepibile. La politica estera di uno stato (di cui Fini a Washington ha riconosciuto la sostanziale continuità anche con l’avvento del centro-sinistra) non è lo scaffale di un supermercato: prendo questo, ma non quello. E’ un’unità indivisibile. Quella del governo Prodi-D’alema è illustrata molto bene dalla rivista Limes (v. riquadro). Davanti ad essa ci sono due sole possibilità: o prendere, o lasciare.

Il nostro primo nemico è in casa nostra.

Lasciare: dicono i promotori delle iniziative di Roma, in polemica contro la deriva governista dell’area cattolica.

Sì, ma siamo proprio sicuri che a questa deriva non abbia contribuito anche l’appello rivolto all’Unione durante la campagna elettorale da alcune delle forze politiche promotrici di queste iniziative? Quell’appello sollecitava (implorava, scriverebbe una penna tagliente) la direzione dell’Unione ad attuare, se uscita vincitrice dalle elezioni, una discontinuità reale con la politica guerrafondaia di Berlusconi. Ma come? e il programma dell’Unione? e l’azione smobilatrice svolta dalle sue direzioni durante la mobilitazione contro l’aggressione all’Iraq? e i crimini commessi da esse quando erano al governo nel 1999 contro i popoli della "ex"-Jugoslavia? Non era sufficiente tutto ciò a prevedere la futura politica del governo Prodi?

Non rivangate!, atteniamoci al presente, ci si dirà. Ma il presente, questo è il punto, è in continuità con il passato. Poiché il filo di colore non proprio rosso che collega ieri, oggi e domani di una data prospettiva è la proposta (l’invocazione…) di una politica estera nazionale italiana ed europea demarcata dalla politica degli Stati Uniti e di Israele. La lotta contro la "guerra infinita" implica la lotta contro l’imperialismo egemone che l’ha avviata e la dirige, gli Stati Uniti. Questo è sicuro, e anche banale. Ma questa lotta è monca, e può essere, è già chiaramente in più di un caso, deviante rispetto ad una coerente lotta contro l’imperialismo (articolato, ma unitario) e contro le sue guerre e le sue "paci", se qui in Italia non si afferra forte l’anello italiano di questa catena: che è lo stato italiano, che sono i governi e il parlamento italiano, e gli interessi capitalistici che su queste "sacre istituzioni" regnano sovrani. Sia in politica interna che in politica estera. Il nostro primo nemico è in casa nostra!

Se questo viene "dimenticato", o messo tra parentesi, sullo sfondo o anche solo lasciato scritto sulla carta senza vere conseguenze pratiche, allora è ben possibile che la disponibilità alla mobilitazione anti-guerra manifestata dai lavoratori e dai giovani diventi preda di un progetto politico alternativo sì a quello yankee, ma solo in quanto concorrente nella spartizione del mercato mondiale. E francamente qualche prova di trasmissione in tal senso da parte di esponenti dell"estrema sinistra" l’abbiamo già sentita. Dopo il prode Bertinotti e la musa Rossanda frementi di passioni verso un’agognata Europa anti-americana, ecco La Grassa invocare, ancor più anti-americano di loro, invocare, nel suo ultimo testo, un riarmo italiano ed europeo capace di contrastare davvero gli Usa sul loro terreno e di trainare uno sviluppo dell’economia italiana realmente centrato sulla tecnologia d’avanguardia. Piuttosto "soprendente", poi, la dichiarazione rilasciata da uno degli esponenti del cartello di forze contrarie alla missione in Libano, Bernocchi: "L’unico che si oppone [alla missione in Libano] con argomenti di sinistra è Giulio Andreotti [gulp!]. Il compito di un governo di centro-sinistra dovrebbe essere dire chiaramente ad Israele che, se non si discute di Palestina, non si interviene in Libano" (il manifesto, 18 agosto 2006). Una boutade? Un colpo di sole?

Il ponte da costruire

Una delle nostre "pedanterie" internazionaliste è l’insistenza sulla necessità di un’azione sistematica per superare il fossato che separa i lavoratori occidentali dalle masse sfruttate e disederate del Sud del Mondo, in primo luogo quelle del mondo arabo-musulmano nel mirino immediato dell’imperialismo. E’ questa un’altra delle palle al piede che hanno frenato il movimento no war e no global degli anni scorsi. I lavoratori e i giovani che hanno partecipato alle sue iniziative hanno spesso visto la resistenza delle masse lavoratrici e diseredate di fede islamica come una minaccia alla propria condizione o, al più, l’hanno guardata senza vederla, con indifferenza.

Sotto questo aspetto, ci fa piacere che le manifestazioni di Roma del 30 settembre e del 18 novembre abbiano finalmente messo il problema sul tappeto, affermando, in qualche misura, che tali resistenze sono una risorsa per i lavoratori occidentali e il movimento no war, e che occorre cercare il contatto con esse anche se la loro bandiera è islamica. E’ un punto cruciale, per il quale ci siamo battuti sin dall’inizio della nostra esistenza e durante la mobilitazione degli anni scorsi. A rendere possibile questo passo in avanti è stato senza dubbio la battagliera prova data da Hezbollah in Libano. Essa ha mostrato che dentro i contenitori dell’islam radicale si raccoglie una spinta di classe, un potenziale rivoluzionario.

Ma… con quale logica si è "aperto" a questi movimenti? in vista di quale rapporto da stabilire con le lotte di resistenza in atto in Medioriente? L’indirizzo politico dominante nelle manifestazioni di Roma punta sul sostegno alle attuali direzioni delle resistenze in Libano, in Palestina e in Iraq e sull’obiettivo di far diventare tali resistenze le "interlocutrici" dei governi europei, e viceversa: di portare queste resistenze a interloquire col nostro governo come governo "diverso" o addirittura "amico". Lo ha fatto il Pdci con il suo gemellaggio con il partito comunista libanese e con Hezbollah. Lo hanno fatto e lo stanno facendo i Comitati Iraq Libero con la conferenza internazionale in via di preparazione.

Ci risiamo. La prospettiva è quella di una lotta europeista contro il dominio totalitario degli Usa, e di un’azione "calmieratrice" nei confronti del potenziale rivoluzionario delle masse sfruttate del mondi islamico. Diliberto ed altri potranno risentirsi se diciamo che ci torna alla mente un tal Benito "spada dell’Islam" e un tal Muftì pronto all’asse anti-plutocratico. Da comunisti rosso-antico quali siamo, li capiamo, ma i fatti hanno la testa dura, e per intanto essi dovranno prender nota che a Vicenza a manifestare contro i diktat degli Usa ci andrà anche la nuova destra anti-americana…

Una coerente lotta contro la "guerra infinita" e le sue radici richiede tutt’altro. Richiede che si costruisca una discussione con i militanti antimperialisti del Medioriente sull’indirizzo politico da mettere in campo "là" e "qua" per l’unificazione delle lotte ora divise e deboli contro il capitalismo imperialista. Questa "proiezione", che ovviamente può muovere i suoi primi passi anche in incontri con le attuali strutture organizzate delle resistenze, non è un’indebita intromissione nello scontro di classe di altri paesi. È una necessità. Ed il suo obiettivo non può essere quello di far diventare i movimenti di lotta degli oppressi mediorientali "interlocutori" di una politica europeistica, cioè imperialista, delle vecchie e nuove potenze coloniali europee. L’"interlocutore" con cui mettere in collegamento le lotte in corso in Medioriente è costituito dai lavoratori italiani ed europei in vista di una lotta comune contro la politica imperialistica delle potenze europee non meno che di quella statunitense. Solo su questa base sarà possibile mettere a frutto i contrasti e la competizione tra Usa ed Europa, al fine di indebolire la loro capacità ricattatoria e terroristica.

E il primo passo per concorrervi qui in Italia, è lo sviluppo della lotta "senza se e senza ma" contro il modo specifico con cui l’imperialismo italiano partecipa allo schiacciamento delle lotte antimperialiste. È l’impegno a favorirne la disfatta nei suoi teatri d’intervento, anche laddove –come in Libano oggi– esso non è visto ancora come forza d’occupazione dalla popolazione lavoratrice locale e non è nel mirino delle forze della resistenza. Difficile. Ma questo è.



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