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Lavoratori / padronato e governo: è tempo di...

Che cosa vogliono da Prodi (e da chi gli succederà) i poteri forti, nazionali e internazionali

 

Le "insufficienze" di Berlusconi

A chi ci legge chiediamo un po’ di pazienza. Il nodo da sciogliere è intricato. Si tratta dei rapporti tra governo Prodi e lavoratori da un lato, governo Prodi e grande capitale dall’altro (senza, però, dimenticare l’"incomodo" costituito dalle classi medie). E si tratta, in una situazione di ammorbante stasi sociale, di prospettare e motivare la necessità di muoversi alla lotta contro il padronato e contro il governo. Perciò, un po’ di pazienza.

I lavoratori salariati, ed in particolare la parte più attiva della classe operaia, hanno avuto un ruolo determinante nell’indebolire e nel delegittimare Berlusconi con le proprie lotte e nel riportare Prodi a palazzo Chigi con i propri voti. Ma il governo Prodi ha ricevuto anche un’altra e più decisiva investitura, "dall’alto", dalla Confindustria di Montezemolo. Una investitura pesante, il cui ruolo e il cui contenuto reale sono stati largamente sottovalutati, crediamo, anche dai lavoratori più attivi. E’ sembrato, anzi, e mai credenza fu più sballata!, che fosse una buona chance avere dalla "nostra" anche i poteri forti. Ecco perché in questa analisi della evoluzione della situazione italiana vogliamo partire proprio da qui, dalle ragioni per cui i grandi capitalisti hanno scaricato, al momento, Berlusconi e gli hanno preferito, transitoriamente, il centro-sinistra. Per meglio comprenderlo, e per meglio mettere a fuoco il nostro "che fare", è utile fare un passo all’indietro. Al 2001.

Allora la Confindustria di D’Amato puntò decisamente sul cavaliere. Con un mandato molto chiaro: attaccare a fondo il mondo del lavoro e le sue organizzazioni (innanzitutto la Cgil), e su questa base riorganizzare il "sistema paese", per fronteggiare adeguatamente gli incombenti pericoli di declino e declassamento del capitalismo italiano nel mercato globalizzato. È proprio su questo fondamentale punto che il centrodestra ha parzialmente fallito, come temeva quella parte del grande capitale, Agnelli in testa, che preferì assumere nei confronti dell’esecutivo del Polo una posizione di pungolo esterno.

Da un lato, l’opposizione messa in campo dai lavoratori, per quanto piena di incoerenze, ha in parte frenato l’azione berlusconiana impedendole di raggiungere integralmente i suoi fini. Dall’altro lato, nel blocco della Casa delle Libertà, anche in conseguenza della resistenza dei lavoratori, ha preso il sopravvento il particolarismo degli appetiti borghesi raccolti attorno a Bossi, Fini e Berlusconi. La massa (differenziata) dei commercianti, dei professionisti, degli imprenditori, degli artigiani, degli speculatori sostenitori del centro-destra ha interpretato gli anni berlusconiani come una grande occasione di arricchimento "ognuno per sé" e tutti ai danni del lavoro salariato. Senza preoccuparsi, però, del rafforzamento complessivo del "sistema Italia".

Questo comportamento centrifugo della base "di massa" borghese e piccolo-borghese della Casa della Libertà si è rivelato un handicap non da poco per il rilancio dell’economia nazionale richiesto dal grande capitale e promesso da Berlusconi. Se messo a confronto con i suoi competitori nel mercato mondiale, il capitalismo "italiano" rivela più di un punto debole. La dimensione media delle sue imprese è nettamente inferiore alla media europea. Il contributo della information and communication technology alla crescita dell’economia è il più basso dei paesi Ocse: l’Italia è di fatto senza industria elettronica e informatica. Il risparmio dei ceti medi è scarsamente canalizzato verso i centri finanziari con un raggio d’azione planetario. I costi improduttivi gravanti sul ciclo riproduttivo capitalistico, specie quelli della intermediazione commerciale e degli apparati statali, sono più alti che in qualsiasi altro paese occidentale. Ora: un capitalismo di questo tipo ha urgente bisogno di misure capaci di far fare una bella cura dimagrante ai suoi pletorici ceti medi e ha bisogno di provvedimenti altrettanto energici per accrescere la ultra-deficitaria efficienza delle proprie burocrazie e delle proprie infrastrutture.

Nell’era berlusconiana, la parte della società che campa di profitti e di rendite ha beneficiato di un trasferimento di ricchezza ai danni del lavoro salariato mai visto nel secondo dopoguerra. Questo spostamento di ricchezza, però, non è diventato un serio ricostituente del capitalismo italiano nel suo insieme. Nel quinquennio 2001-2006 esso ha invece continuato a perdere quota nel panorama internazionale, scivolando in una posizione sempre più gregaria nel gruppo delle maggiori potenze mondiali. La crisi produttiva dal tessile si è estesa al comparto meccanico e a quello elettronico. La quota italiana degli investimenti esteri si è ridotta dal 3 al 2,4% (la Spagna è al 3,4%, la Francia al 7,9%, la Germania all’8,6%, la Gran Bretagna al 14%). La quota degli investimenti esteri sul prodotto interno lordo italiano si è ridotta al 17% (in Spagna è al 33%, in Germania al 30%, in Francia al 38%). Pur se il commercio mondiale è cresciuto del 10%, la quota italiana è scesa all’1,5%, arrivando ad un livello pari alla metà di quella della Germania e inferiore anche a quella della Spagna.

D’altro canto, e come riflesso di quanto si è appena detto, la compagine capitanata dal cavaliere si è dimostrata incapace e finanche non interessata, salvo forse qualche settore leghista (senza dimenticare, però, che lo scalone è a firma Maroni), a coinvolgere attivamente nel proprio disegno il proletariato industriale, o almeno una sezione di esso, fosse pure solo quella padana. Berlusconi avrebbe potuto tentare una simile operazione solo a due condizioni: posizionare l’Italia in dura competizione sui mercati internazionali anche coi propri alleati atlantici; iniziare a mettere in riga sugli interessi nazionali sia l’anarchico arcipelago del "lavoro autonomo" che la burocrazia statale, facendo poi "immaginare" al proletariato, su questa base, delle positive ricadute materiali. Ma non è stato in grado di percorrere seriamente né la prima né la seconda via, anche per le contraddizioni interne alla sua caotica compagine e per la pochezza di Forza Italia, "partito" largamente virtuale e del tutto privo di veri terminali nella classe lavoratrice. E, di conseguenza, ha dovuto anche mitigare i suoi attacchi al lavoro salariato (nonostante le sue "ottime" intenzioni, Berlusconi non ce l’ha fatta ad essere la Thatcher italiana).

Di fronte a queste insufficienze dell’operato berlusconiano, la parte della grande imprenditoria e dell’alta finanza più direttamente esposta sul versante della concorrenza internazionale ha tentato anzitutto un arrocco in campo economico. Realizzando alcune significative fusioni, tra cui quella che ha portato l’Unicredit ad espandersi nei paesi dell’Europa centrale e quella che ha coinvolto Banca Intesa e San Paolo. Il neo-governatore della Banca d’Italia Draghi, che da direttore generale del Tesoro aveva guidato la "prima grande stagione delle privatizzazioni e concentrazioni creditizie in Italia", sembra proporsi ora come l’autentico regista di altre nuove fusioni bancarie "amichevoli, domestiche e sostanzialmente no cash". Fusioni capaci di interdire le ulteriori "azioni aggressive" della finanza di altri paesi europei sul sistema bancario e sulla struttura produttiva tricolori (il sole-24 ore, 20 gennaio), ma non necessariamente in contrasto la super-protezione statunitense (Goldman Sachs, Merrill Lynch, ecc). La Fiat, dal suo canto, sciolto il nodo scorsoio messole al collo dalla General Motors, sta tentando dopo anni di magra un minimo di rilancio espansivo "in proprio" sul mercato interno e sui mercati asiatici. Questo arrocco difensivo e questo primo timidissimo rilancio, però, non possono bastare ad invertire il declino degli ultimi 15 anni. Per risalire la china nella competizione mondiale il sistema delle imprese italiane deve razionalizzare, per renderla più produttiva di profitti, l’intera macchina capitalistica, l’intera struttura sociale. E una tale doppia razionalizzazione non può darsi senza la piena copertura del potere governativo e statale. Per questa ragione il grande capitale italiano ha manovrato per delineare un quadro politico più adeguato (per sé) di quello berlusconiano.

Andare oltre Berlusconi

Ecco perché, dopo aver incassato i tanti risultati positivi per sé prodotti dall’era-Berlusconi, i grandi poteri capitalistici hanno, a maggioranza, voltato le spalle al cavaliere e puntato provvisoriamente e con molte condizioni sul professore. Con ciò non hanno certo rinunciato al loro obiettivo di fondo: rilanciare la competitività del capitalismo nazionale. Al contrario. Gli strateghi del grande capitale sanno bene che anche a causa delle esitazioni e delle incoerenze della conduzione del cavaliere, i tempi del recupero sono diventati ancora più stretti. Con Prodi, i boss del sistema bancario, la Confindustria, le Fondazioni che contano puntano a mandare avanti l’opera svolta da Berlusconi con un tentativo più strutturato e organico di quello berlusconiano di accelerare l’accentramento del capitalismo "nazionale" e la sua ristrutturazione in senso neo-liberista. Questo tentativo passa, da un lato, per la riduzione di numero, la tosatura e la messa in riga dei ceti medi accumulativi (specie di quelli del commercio) e degli apparati pubblici, tenuti finora dal centro-destra troppo al riparo dalle "riforme"; e dall’altro per un più profondo incatenamento al mercato della classe lavoratrice.

Si tratta, dunque, di un attacco su due fronti. Che i poteri forti ritengono di poter condurre con più efficacia scagliando gli uni contro gli altri. Il salariato, specie quello dell’industria, contro le "categorie" della distribuzione, dei servizi o dello stato superflue o troppo "protette". E queste categorie contro il salariato, additato insieme ai suoi rappresentanti come responsabile del declino italiano e dei "sacrifici necessari" per invertirlo. Per le grandi centrali del potere capitalistico schierare in senso anti-proletario i piccoli accumulatori non è affatto difficile (in ciò, il Polo e le associazioni di categoria danno pieno affidamento). Per questo esse stanno concentrando i loro sforzi nel muovere contro le classi di mezzo i lavoratori salariati, cerecando di cointeressarli alle "riforme" in cantiere. Nessun ritorno indietro sulla Biagi o sulla Bossi-Fini, si capisce. Nessun ritorno alla concertazione con i maggiori sindacati. Ma la prospettazione ai lavoratori, in modo forzoso o semi-"libero", di terreni d’azione di "comune interesse", quali per l’appunto il taglio dei privilegi e degli sprechi delle pubbliche amministrazioni, la liberalizzazione dei servizi gestiti finora in regime di "monopolio" a livello locale o di piccole corporazioni, i fondi pensione, il federalismo fiscale, etc. Con risparmi e benefici (così assicurano) per i lavoratori in quanto utenti, in quanto consumatori, in quanto cittadini, in quanto, addirittura, possessori di titoli. La prospettiva generale che viene propagandata e "offerta" –mai pubblicità fu più ingannevole!- è quella di una società insieme più "efficiente" e low cost, che sarebbe nell’interesse di tutti.

Non solo. Il grande padronato sta anche intensificando a trecentosessanta gradi i propri sforzi per "convincere" i lavoratori, con 4/5 di bastonate e 1/5 di carote, che c’è una sola via per allontanare le incognite del presente: affidarsi in tutto e per tutto alle imprese, lasciar cadere le "ultime resistenze conservatrici" al primato incondizionato delle leggi del mercato, votarsi anima e corpo alla crescita della produttività. Dopo l’eccellente, per loro, semina ideologica compiuta da Berlusconi (anche dentro la sinistra), dopo le coltellate inferte al corpo del lavoro salariato con le controriforme pensionistiche, i contratti atipici e la smisurata intensificazione del lavoro, i padroni, grandi e piccoli in questo uniti, ritengono di avere a tal punto messo sulla difensiva il mondo del lavoro da poter tentare il colpo grosso: arruolare i lavoratori, in particolare gli operai delle giovani generazioni e del Nord, nella crociata per la massima competitività del sistema-Italia.

Il mercato, giurano questi spergiuri professionali, sa premiare chi lo merita. Se il sistema-Italia si rilancia, promettono, ce ne sarà anche per i salari operai. Come realizzare il rilancio? con o senza i sindacati? Per il momento sopportano, con crescente insofferenza, la presenza dei sindacati ai tavoli di trattativa, che vogliono però sempre più subordinati alle imprese e aziendalizzati. Ma in realtà al centro del loro mirino hanno messo ogni "istituzione operaia", a partire dalle strutture di fabbrica, che sia in grado, fosse pure solo in modo inerziale, di resistere alla frammentazione del tessuto di classe. E’ per questo, e per l’oggettiva funzione di supplenza politica che sta svolgendo da tempo a fronte dell’auto-affondamento del Pci, dei Ds e di Rifondazione, che la Cgil resta in cima alla lista dei bersagli da colpire e delle forze organizzate da ridimensionare e disgregare. Così la pensa lo stato maggiore di Confindustria. I piccoli e piccolissimi accumulatori sarebbero, sono, per metodi assai più rudi, disposti a plebiscitare aggressivamente Berlusco-ni&C. come e più che nelle elezioni precedenti.

Produrre uno "shock irreversibile". Ora!

In che modo, in quale funzione Prodi e il centro-sinistra possono essere utili ad un simile disegno padronale? Sotto diversi aspetti.

Anzitutto, come già fecero a fine anni ’90, possono paralizzare e sfibrare quel tanto di forza di resistenza centripeta che si è venuta accumulando nel proletariato nelle lotte contro il centro-destra. Con il concorso dei volonterosi vertici dei sindacati confederali, possono contribuire ad orientare verso il mercato (dall’interno) le attese dei lavoratori. E poi essendo meno legati dei quadri del Polo a singoli interessi monopolistici e disponendo di buone competenze gestionali (di "buona gestione" capitalistica), hanno le mani più libere ed esperte del personale politico della destra per colpire in nome dei "superiori interessi nazionali" dove e come si deve, incluse quelle frazioni neo-borghesi più indisciplinate e rampanti a cui il cavaliere aveva lasciato briglia sciolta.

Sarebbe da sciocchi, però, credere che esista un perfetto feeling tra il grande capitale e la squadra prodiana. E che il primo abbia firmato alla seconda una cambiale a tempo indeterminato, come se Prodi fosse il suo nuovo "uomo della provvidenza", e l’Ulivo o il partito democratico in gestazione il nuovo, unitario, "definitivo" partito della borghesia italiana, la nuova Dc per l’"era della guerra infinita". Nulla del genere. Fin dall’inizio, anzi, il grande padronato ha posto l’esecutivo in carica, e in particolare la sua sinistra e parte dei Ds, nonostante la loro totale arrendevolezza alle "ragioni" della coalizione ed alle sue ali di centro e di destra, sotto un esplicito ricatto. E’ vero, ha ammesso Montezemolo: l’agenda del governo include i temi che sono nell’agenda della Confindustria. Ma dovete fare presto. Il tempo a vostra disposizione è nell’ordine di pochi mesi, non i cinque anni di cui straparla Prodi. Ora, mentre c’è un minimo di ripresa, e non domani, va attuata una "terapia d’urto". Ora, non domani, va prodotto nella società uno "shock irreversibile" – tali i termini usati dall’economista-capo di Confindustria. In sintonia da sempre con tali ambienti, il vecchio Scalfari e il club di "Repubblica" l’hanno messa giù hard: Prodi divenga il dittatore, il Cesare della coalizione, non si faccia condizionare dalla "sinistra estrema" o dai veti "corporativi" dei sindacati. Ardua, come metamorfosi, ma vi dà l’idea del clima che si respira nelle alte sfere del capitale finanziario nostrano.

Per conferire maggiore forza a questo ricatto, esse hanno già sdoganato dalla Casa delle libertà il partitino di Casini e costruito un asse di ferro con Rutelli e i suoi. E di quando in quando, si sono concessi anche qualche sortita "anti-partitocratica" rivolgendosi in modo diretto ai lavoratori per un dialogo senza intermediari tra "produttori", in polemica con tutto il "quadro politico", con la "politica" in quanto tale, ma in chiave anzitutto anti-governativa. Insomma, Prodi è, per i grandi capitalisti nostrani, una soluzione provvisoria. Molto provvisoria. Per quello che li riguarda, resterà in sella solo fintantoché pedalerà spedito nella direzione "giusta". Deve sapere, e lo sa, lo sa, che i potentati che lo hanno scelto, forti dei quotidiani diktat delle istituzioni finanziarie internazionali, pretendono subito da lui e dal suo governo una stretta nell’attacco al proletariato. Pronti alla bisogna, anzi prontissimi, a liquidarlo con una pedata nel sedere.

Come ha risposto a queste pressioni l’esecutivo di centro-sinistra?



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