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Che Fare n.68 novembre dicembre 2007 L'Italia dalla seconda alla terza repubblica Contro la base militare Dal Molin! Contro la "guerra infinita"! Contro l’imperialismo italiano! Vicenza: non farsi ricacciare in un angolo, ma andare avanti... Nonostante un anno e più di mobilitazioni, la Casa Bianca, il govenro Prodi, l'amministrazione comunale del Polo delle libertà vanno avanti per la loro strada come niente fosse. La decisione di costruire la nuova base che dovrà ospitare il 173rd Brigade Combat Team, la più potente unità di intervento rapido in Medio Oriente (1), è già entrata nella sua fase operativa. Nei mesi scorsi le più grandi ditte di edilizia si sono lanciate come vampiri nella gara per aggiudicarsi l’appalto per i lavori di costruzione della nuova base di guerra (2). Piegare il "sì" di Prodi si è rivelato molto più complicato di quanto il movimento di Vicenza credesse inizialmente. Che la lotta contro la base non sarebbe stata facile era chiaro sin dall’inizio. Ed era stata esattamente questa consapevolezza a spingere i comitati cittadini, come loro primo passo, a cercare la solidarietà delle altre lotte "territoriali" in corso in Italia (a cominciare da quella nella Val di Susa contro la Tav fino alla lotta a Napoli contro i rifiuti e a Sigonella contro la base militare). Solidarietà che non si è fatta attendere. Ci sono state assemblee nazionali a Vicenza molto partecipate, c’è stata la manifestazione del 2 dicembre 2006 e poi la grande mobilitazione del 17 febbraio 2007. Tutto ciò non è stato però sufficiente. Perchè? Cosa ha impedito e sta impedendo al movimento contro il Dal Molin di vincere? Un crescendo, che si è interrotto. Certamente pesano gli imponenti interessi che stanno dietro alla costruzione della nuova base. Si tratta, ne abbiamo parlato nello scorso numero del giornale, anzitutto del programma statunitense, non solo bushiano, della "guerra infinita" ai popoli del mondo arabo-islamico per ora, e domani alla Cina e chissà se pure alla Russia. Si tratta della volontà della "cupola" del capitalismo italiano e di tutto il "quadro politico" italiano, Unione e Polo delle libertà in piena sintonia su questo, di rilanciare la competitività e la presenza del "sistema Italia" ovunque nel mondo anche attraverso un maggiore impegno militare diretto. Si tratta, infine, degli avidi interessi del padronato locale, a cui molto giova l’intreccio di legami con la superpotenza yankee da un lato, con un ritrovato attivismo internazionale dell’Italia nei continenti produttori di materie prime dall’altro. Ma il carattere strategico degli interessi in gioco, forse fin qui sottovalutato dal movimento di lotta, non spiega da solo la difficoltà incontrata nel conseguire l’obiettivo di bloccare la costruzione della nuova base: vi è stato anche un tarlo presente all’interno del movimento stesso che ne ha frenato la potenzialità e la forza d’impatto, anch’esso, crediamo, non pienamente avvertito da quanti si sono mobilitati. Questo tarlo è rappresentato dal lavoro incessante e assiduo svolto dal governo Prodi, dai partiti istituzionali, dagli "esponenti" auto-proclamatisi tali di un ormai pressoché inesistente movimento "no war", volto ad accerchiare ed a svuotare la lotta, l’auto-attivizzazione della gente comune, la presa in carico diretta da parte di essa delle decisioni che riguardano il "proprio futuro e quello dei propri figli". Un lavoro politico volto a ricacciare indietro, fino al più esangue localismo, quel processo in crescendo che aveva iniziato a muovere i suoi primi passi un anno fa quando i dibattiti, il confronto, il lavoro di controinformazione avevano fatto via via emergere come iniziare a porsi il problema dell’impatto di una nuova base nel centro della città, inevitabilmente comportasse affrontare molteplici altri temi ad essa legati e concatenati tra loro. Era così cresciuta la consapevolezza che una nuova base è portatrice di distruzione ambientale; produce inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra; è generatrice di degrado sociale e di violenza; concorre alla militarizzazione della vita sociale del territorio. E soprattutto era emerso con chiarezza a cosa serve una base militare: a rilanciare nuove e ancor più feroci guerre. Il "no" contro questa nuova base si era combinato perciò con il "no" contro tutte le basi in nome della "difesa della Terra e del no determinato alla guerra". E su questa via di crescita di consapevolezza e di progressivo ampliamento dell’orizzonte della lotta i comitati erano giunti al 17 febbraio avendo fatto un percorso in comune e numerosi passi in avanti. Avendo maturato, in alcuni suoi settori, la convinzione che per opporsi efficacemente a questo progetto di guerra è necessaria la scesa in campo diretta da parte di chi, come dice il Manifesto del "Gruppo donne" del presidio, non vuole "rimanere tra le persone che dicono che questa vicenda non le riguarda". Torna la delega. E torna l’europeismo bellicista. Sennonché è nella direzione esattamente opposta a questa che hanno lavorato e stanno abilmente lavorando quanti, dai "disobbedienti" ai parlamentari europei della cosiddetta "sinistra" (gli uni e gli altri molto attenti e attivi verso e nel movimento contro il Dal Molin), si prestano a svolgere la funzione di ricucitori professionisti tra il governo, il sistema, il militarismo e il movimento, cercando di canalizzare le sane e vive energie espressesi nella lotta dei mesi scorsi in una nuova forma di delega e di de-politicizzazione. Non è un caso se, soprattutto nella componente che più simpatizza per i "disobbedienti", l’esaltazione del no ai "partiti" (che al fondo è un no diretto innanzitutto contro l’organizzazione politica e sindacale autonoma dei lavoratori, quell’organizzazione contro cui -non a caso- spara di continuo anche la destra) si accompagna sempre, contestualmente, all’esaltazione del sì alle "personalità" di "spicco" del (fu)-movimento "no"war". Un esempio? Le giornate di dibattiti organizzate dal Presidio permanente contro il Dal Molin nella prima settimana di settembre. Senza nulla togliere alle dignitose denunce anti-militariste di individui rispettabili come Dinucci, Zanotelli, Naomi Klein (ma anche senza nasconderci i loro limiti, a dir poco, quanto ad incapacità di indicare una prospettiva anti-guerra che sia minimamente conseguente), va rilevato, però, che la scena è stata occupata soprattutto dai promotori di una prospettiva bellicista ben precisa: quella di una "Europa a mano armata". Uno dei suoi cantori, già in prima fila dalla parte sbagliata ai tempi dell’agitazione europea-vaticana per la distruzione della ex-Jugoslavia, e che ribattezzammo perciò tra i "beati i costruttori di guerra", don Albino Bizzotto, ha formulato la seguente tesi (alla lettera): "Armiamo l’Europa, così può confrontarsi con gli Usa e svolgere le sue missioni di pace". Nello stesso senso anche un Giulietto Chiesa e numerosi altri. Questa scesa in campo sempre più invadente di "personaggi" del genere ha prodotto un duplice effetto negativo: è servita a svalorizzare la mobilitazione diretta e le nuove avanguardie da essa prodotte (marginalizzate in questi dibattiti tra "grandi esperti") e dare forza nella protesta all’europeismo, falsa alternativa al militarismo statunitense. Nell’assenza di un vero movimento internazionale contro la "guerra infinita", realmente impegnato contro il militarismo capitalistico e l’imperialismo, gli effetti di questo bieco lavoro si fanno già sentire pesantemente. Il movimento contro il Dal Molin è arrivato a questa scadenza di settembre (che nelle intenzioni dichiarate degli organizzatori avrebbe dovuto dare il "benvenuto" all’avvio dei lavori di costruzione della nuova base) più isolato e, ci si permetta di dire, più fiacco di quando è partito. Lo riconoscono e lo affermano anche i suoi rappresentanti più "veri", i quali registrano, rispetto ad un anno fa, una maggiore indifferenza, "quando non aperta ostilità" da parte della popolazione, alla lotta contro il Dal Molin ed una qualche stanchezza nelle stesse fila del movimento. Si è arrivati a settembre con una sorta di "auto-limitazione" nella denuncia e nelle azioni, manifestatasi nell’assenza da tutti i dibattiti e da tutte le iniziative di piazza di quei nodi centrali che il movimento "di Vicenza" aveva saputo nei mesi scorsi quanto meno nominare (il legame base-guerra, gli effetti delle guerre sui popoli del Sud del mondo, la crescente militarizzazione della società e del mondo del lavoro), e nell’esitazione a cogliere tutte le connessioni tra la propria lotta, la propria azione ed il contesto sociale e politico più generale. Ed infine, lo si avverte nelle modalità con cui sono state organizzate le "azioni" di piazza: una serie di azioni meramente "simboliche" il cui filo conduttore "è e sarà", scrivono gli stessi organizzatori, "la creatività" e, aggiungiamo noi, il localismo. Messi, infatti, da parte i temi di fondo connessi con l’installazione della nuova base, è rimasta in primo piano la sola difesa del "proprio territorio", del "proprio futuro", del futuro dei "propri" figli. Ma in un mondo così globalizzato com’è il nostro, con un militarismo altrettanto globale, la difesa (sacrosanta) del "proprio territorio", del "proprio futuro", del futuro dei "propri figli" richiede di ricollegare la lotta contro la base Dal Molin alla difesa della Terra, di tutta la Terra come bene comune collettivo nel senso più ampio del termine; richiede di collegare la lotta per un futuro senza guerre per sé e i propri figli alla lotte in corso nel Sud del mondo contro la rapina, il saccheggio, l’impoverimento delle terre oggi così brutalmente e violentemente sotto attacco occidentale. Il movimento non deve farsi mandare a casa! C’è un altro punto di cui occorre, inoltre, prendere atto. Questo tarlo ha potuto corrodere il movimento di lotta per le debolezze e le illusioni degli stessi protagonisti di tale mobilitazione, debolezze e illusioni legate a quelle del movimento no war degli anni scorsi. Ne abbiamo ragionato più volte nei numeri precedenti del giornale e abbiamo avuto modo di discuterne prima dell’estate in un utilissimo momento di confronto con alcuni rappresentanti del movimento "No Dal Molin" in una riunione del Comitato contro la guerra e il razzismo di Marghera. La difficoltà sta nel fatto che si stenta a vedere come la guerra portata ai popoli e agli sfruttati del Sud del mondo dalle basi militari del Nord è rivolta anche contro i lavoratori e la gente comune dell’Italia e del resto dell’Occidente. O addirittura nell’illusione che il ristabilimento dell’ordine imperialista in Medioriente e nel Sud del mondo possa convenire, oltre che ai capitalisti occidentali, anche ai lavoratori occidentali. Ci sono ragioni storiche, oggettive e soggettive, alla base di tale difficoltà e di tale speranza, che vanno comprese per mettere a fuoco l’attività, di lunga lena, di cui c’è bisogno per rilanciare la lotta a Vicenza e nel resto d’Europa contro la "guerra infinita" e i suoi infiniti tentacoli. Così come va compreso che queste ragioni stanno venendo per effetto dello stesso processo della mondializzazione capitalistica. Lo ha mostrato, in piccolo, il capitolo "balcanico" della "guerra infinita". Esso sembrava aver localizzato "là" gli effetti dei bombardamenti, le distruzioni delle fabbriche, le divisioni concorrenziali tra i lavoratori delle diverse regioni e delle delle diverse religioni, la diffusione della disoccupazione, la semina dell’uranio impoverito... Ed invece, oggi si può toccare con mano, per effetto della delocalizzazione delle imprese e dell’arrivo nei paesi dell’Europa occidentale di milioni di immigrati super-ricattati dall’area Balcani in seguito alla disoccupazione creata dal "nostro" intervento "umanitario", che tale intervento era rivolto anche contro i lavoratori italiani ed europei. Che essi non potevano dare forza alla resistenza in cui erano impegnati sulle pensioni, i salari, la tenuta dell’organizzazione sindacale senza prendere di petto anche il risvolto esterno dell’offensiva del padronato e dei governi. Una lezione di bruciante attualità, oggi che sta per riaprirsi, anche grazie alle installazioni in corso di ammodernamento e costruzione a Vicenza, la questione-Kosovo e il capitolo iraniano della "guerra infinita". Questa inter-connessione fa emergere il soggetto sociale che può davvero mettere il bastone tra le ruote alle aggressioni imperialiste e ai risvolti interni di esse: i lavoratori, italiani e immigrati, un rinato movimento proletario di classe. Non il cittadino, non l’italiano, non, come abbiamo sentito, il vicentino! Questa inter-connessione fa emergere l’attività cui sono chiamati quei protagonisti del "movimento No Dal Molin" che non vogliono arrendersi o farsi paralizzare in un angolo: una propaganda instancabile verso i lavoratori, italiani e immigrati, per mostrare il loro interesse ad opporsi alla base e alla "guerra infinita", per raccordare le iniziative di mobilitazione sui salari, sulle pensioni, sulla precarietà, sulla legge Bossi-Fini aggiornata da Amato-Ferrero, con il rilancio dell’iniziativa contro il militarismo capitalistica e, in primo luogo, contro l’imperialismo italiano. Su questo cammino non si è soli nel mondo. Puntiamo ad allargare la mobilitazione a quanti stanno lottando contro le varie articolazioni della "guerra infinita" in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e ancor prima nei paesi contro cui direttamente e in primo luogo sono dirette le bombe (quelle cosiddette "intelligenti" e quelle altrettanto mortali al seguito delle "missioni di pace"). Andare avanti nella lotta significa, infine, uscire dal ricatto paralizzante degli effetti che la ripresa della mobilitazione avrebbe sul governo e sui "delicati equilibri" della sua maggioranza. L’auto-limitazione, l’esitazione a sviluppare la lotta fino in fondo, la paura del ritorno di Berlusconi sono esattamente gli elementi che, lungi dallo scoraggiarla, hanno favorito la decisione del governo Prodi di andare avanti. Ciò che serve è l’esatto contrario. È lo sviluppo sulla più ampia scala del movimento di lotta contro la base e la guerra imperialista a cui essa è connessa. È il suo collegamento con il mondo del lavoro, che si intravvide a Vicenza nella partecipazione importante di settori di lavoratori della Fiom e della Cgil. È sicuramente una grande sfida quella che abbiamo davanti! Ma delle due l’una: o il movimento contro il Dal Molin, e quel che rimane del movimento "no"war", compiono il salto di qualità necessario ad aggredire le ragioni di fondo della spirale guerra ed escono dalla sorda indifferenza verso le sorti delle popolazioni del Sud del mondo, "colpevoli" di resistere eroicamente ai piani di rapina e di devastazione dell’Occidente, o siamo destinati a soccombere. 1) http://www.173abnbde.setaf. army.mil/ "Welcome to the official website of the 173rd Airborn Brigade at Caserma Ederle in Vicenza, Italy. We are Europe’s quick response fighting team". (2) Con la base Dal Molin le basi militari a Vicenza diventano quattro: esistono già la caserma Ederle, la base militare sotterranea a Fontego di Arcugnano e la base militare sotterranea "Pluto" a Longare. Che Fare n.68 novembre dicembre 2007 |
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