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Che fare n.68 Novembre dicembre2007

Contro l’accordo del 23 luglio, contro il governo Prodi

Le ragioni del nostro "no" e della lotta da fare

Quello del 23 luglio è stato un accordo a perdere per l’intero mondo del lavoro. Infatti, nel suo insieme, esso impone ai lavoratori nuovi sacrifici e sottrae loro altre garanzie, pur se contiene, in modo furbo, alcune minime concessioni effimere a questo o quel settore del mondo del lavoro allo scopo di dividere e congelare la classe lavoratrice più di quanto già non lo sia.

Contro tale accordo bisogna dunque reagire sin da subito, anche se esso è stato consacrato dal massiccio "sì" del referendum.Per poter mettere in piedi un’adeguata risposta in questo senso, è necessario iniziare a riflettere su come e quanto una coerente e non certo facile battaglia contro il cosiddetto "Protocollo su previdenza, lavoro e competitività" chiami ad affrontare problemi politici di fondo che vanno ben oltre il "puro e semplice" piano sindacale. Lo conferma, tra l’altro, la violenza e la decisione con cui l’accordo è stato difeso tanto dal governo, quanto, e più, dalla Confindustria. Nelle righe che seguono intendiamo fornire un contributo per andare appunto in questa direzione.

Primo: mettere i figli contro i padri

Rutelli: "Sono molto sorpreso del fatto che non sia ancora nato un movimento di trentenni che manifesti contro la possibilità di andare in pensione a 58 anni. Sono sbalordito" (la Repubblica, 6 luglio).

Veltroni: "Il governo sta discutendo con le parti sociali su come ammorbidire lo scalone. È una discussione che rispetto. Ma è giusto farla tenendo ben presente la necessità che il sistema previdenziale sia sostenibile sul piano finanziario, e sapendo anche che è iniqua, e non può reggere di fronte all’allungamento dell’aspettativa di vita per tutti, una situazione in cui si chiede ai giovani precari di finanziare con i loro contributi le pensioni dei padri senza contemporaneamente maturare il diritto a ricevere una pensione equivalente quando sarà il loro turno" (la Repubblica, 11 luglio).

Nelle parole di queste due star del Partito democratico (Pd) è ben sintetizzato uno degli assi portanti della propaganda con cui da lunga pezza si è lavorato per predisporre il terreno alla nuova (contro)riforma pensionistica ed agli altri provvedimenti contenuti negli "accordi di luglio". Niente di nuovo, per carità. Sono decenni che tanta bella gente al servizio del capitale va ripetendo la storia secondo cui tutti i guai della gioventù proletaria sono causati dall’"egoismo" delle precedenti generazioni operaie. Lo disse Craxi nell’84 quando tagliò i salari cancellando i quattro punti di contingenza. Lo ripeté Berlusconi dieci anni dopo allorché tentò un primo serio affondo contro il sistema previdenziale. Lo proclamò nel ’95 anche Dini proprio mentre si apprestava a varare con successo una riforma delle pensioni gravida di ripercussioni negative sull’intero mondo del lavoro e in modo particolare sulla sua componente più giovane.

A questo giro la novità, se così si può dire, è data dalla aggressività con cui questa bandiera è stata impugnata e quasi monopolizzata dalle forze costituenti il neonato Pd e, soprattutto, da come buona parte della stessa Cgil si è spesa tra i lavoratori a difesa del protocollo, avvalorando la perfida tesi secondo la quale "il figlio può ottenere qualcosa solo se la toglie al padre". Una tesi, questa, che contribuisce a paralizzare ogni reazione e che accentua le già presenti e nefaste divisioni e contrapposizioni generazionali all’interno dell’universo lavorativo. Ed inoltre una tesi totalmente falsa. Al contrario di quel che dicono i vertici sindacali, infatti, sono proprio i "figli" i più penalizzati. A loro vantaggio l’accordo prevede alcune piccole migliorie come quelle relative alla "totalizzazione dei contributi" o alla "contribuzione figurativa" per congedi parentali dei lavoratori "parasubordinati". Ma, a fronte di ciò, saranno proprio le giovani generazioni a subire i maggiori tagli sulle pensioni ed il maggiore allungamento dell’età lavorativa, nonché i primi a "godere" della conferma di fatto, contenuta nel protocollo, di tutte le norme che precarizzano il lavoro.

Secondo: rispettare i vincoli finanziari

L’altro architrave della propaganda governativa è stato quello di presentare la modifica del sistema previdenziale come inevitabile per mantenere il cosiddetto "equilibrio finanziario" dell’Inps. Si è detto: cresce la sproporzione percentuale tra lavoratori attivi e pensionati. Diminuisce quella dei primi ed aumenta quella dei secondi e questo, se non si interviene, farà saltare le casse dell’Inps. Le pensioni, si è aggiunto, assorbono una quota eccessiva della spesa statale. Troppo. Parte di questi soldi devono essere stornati per finanziare il "risanamento" di quel debito pubblico la cui entità tanto nuoce al rilancio competitivo del paese (cioè dovrebbero andare a finire nelle tasche degli organismi finanziari internazionali, delle banche, delle imprese e delle famiglie benestanti da cui è, appunto, detenuto oltre il 90% di tale debito).

Lasciamo pure perdere il fatto che vari economisti (a cominciare da L. Gallino su la Repubblica) hanno dimostrato sul piano puramente ragionieristico quanto sia esagerata e gonfiata la tesi che vuole un Inps sull’orlo della bancarotta e proviamo ad andare un po’ più a fondo nella questione.

Cominciamo col dire che quando si parla di squilibri tra "attivi" e pensionati si tralascia sempre di ricordare quanto i conti dell’istituto pubblico di previdenza siano quotidianamente minati dal dilagare del lavoro "in nero" e della precarietà "ufficiale" (entrambi fenomeni strutturalmente necessari all’accumulazione capitalistica). Inoltre, cosa molto più decisiva, ci si "dimentica" sempre dell’enorme balzo della produttività del lavoro compiutosi negli ultimi 30-40 anni. Un balzo in base al quale un operaio oggi produce una quantità di merci anche otto o nove volte superiore a quella che produceva negli anni ’60. In pratica ciò significa che, anche prendendo per buono il dato secondo cui dalla fine degli anni ’60 ad oggi si è passati da un rapporto di un pensionato ogni quattro o cinque "attivi" a quello di uno ogni due, la massa di beni prodotta e "teoricamente" a disposizione non si è dimezzata, ma, al contrario si è all’incirca quadruplicata. Perché allora, di fronte a tanta reale ab

bondanza, si parla di insostenibilità del sistema pensionistico? Perché per il capitalismo l’aumento della capacità produttiva non deve essere messa al servizio della società, bensì deve servire all’accumulazione del capitale e della concorrenza (ecco il vero significato dei "vincoli finanziari") con tutto l’inevitabile e crescente corollario di attività e di effetti antisociali (dalle spese militari ai disastri ecologici) che ciò comporta. Le ristrettezze in cui è costretto a vivere il proletariato, dunque, non "cadono dal cielo", sono determinate dall’attuale struttura e dagli attuali rapporti di forza tra le classi. Rapporti che potranno essere ribaltati solo se si smetterà di subordinare le proprie rivendicazioni (e le proprie lotte) alle esigenze delle cosiddette "compatibilità economiche e finanziarie" del mercato, delle aziende e del paese.

Terzo: alzare l’età del pensionamento

Per i capitalisti la vita del lavoratore ha un senso esclusivamente fino a quando la si può mettere a frutto "produttivamente", fino a quando, cioè, la si può spremere nelle fabbriche e nei cantieri estraendone profitto. Poi l’operaio, il salario diventa un peso, un costo improduttivo, che, al pari di un macchinario ormai inutilizzabile, andrebbe semplicemente gettato in una qualsiasi discarica di rifiuti. Poiché questo non lo può fare (solo ed esclusivamente per la capacità di resistenza che nel corso dei secoli il proletariato ha saputo dimostrare), il capitalismo tende a prolungare al massimo il periodo di utilizzo "produttivo" del "macchinario uomo" di sua proprietà e a minimizzare costantemente i costi del suo cosiddetto "mantenimento successivo".

La riforma delle pensioni varata da Prodi, Damiano e Padoa Schioppa (vedi scheda a p. 5), che è prodotto proprio di questa esigenza, porta un attacco sia materiale che politico ai lavoratori. Sancendo, a regime, un corposo incremento dell’età lavorativa e una diminuzione dell’entità dell’assegno previdenziale non colpisce "solo" la condizione economica del lavoratore, ma punta a favorire ed incentivare l’aziendalizzazione e l’individualizzazione del trattamento pensionistico (si pensi alla campagna su Tfr e fondi pensione), dando per questa via un’ulteriore spinta alla frammentazione e quindi all’indebolimento territoriale e settoriale del proletariato.

Quarto: incatenare il lavoratore all’azienda

Il protocollo di luglio prevede incentivi fiscali per i premi di rendimento contrattati a livello aziendale e legati alla produttività dell’impresa. Tale misura, al pari di quella sugli straordinari (vedi scheda), potrebbe a prima vista apparire come, tutto sommato, vantaggiosa anche per i lavoratori. E in tal modo è stata presentata da governo, Confindustria e vertici sindacali.

Ma se si guarda un po’ più a fondo, la cosa assume ben altro aspetto. Si tratta di un nuovo colpo ai fianchi diretto contro la contrattazione collettiva e nazionale e contro ogni elemento (sia pur blando) di unità tra lavoratori. Con tale provvedimento, infatti, si tende ad incentivare l’incremento della quota di salario variabile ed aziendale a discapito di quello "certo" e "uguale per tutti" frutto della contrattazione nazionale di categoria su cui, di contro, nello stesso protocollo si fa gravare la minaccia di ulteriori incrementi della tassazione contributiva. E quanto più una busta paga è direttamente dipendente dall’andamento altalenante del mercato e della singola azienda, tanto più contribuisce ad instillare nell’operaio uno "spirito" che lo spinge a sentirsi sempre maggiormente legato e solidale con la "propria" impresa e sempre meno legato e solidale con gli "altri" lavoratori. Si tratta, quindi, di un’ulteriore spinta all’affermazione di quella logica e di quella ideologia tutta borghese che in modo falso e mistificato punta a rappresentare l’impresa come una "comunità armoniosa" in cui l’operaio è chiamato a "cooperare" col padrone e, in virtù di ciò, ad abbandonare e ripudiare integralmente il concetto stesso di appartenenza di classe e di lotta di classe.

Sul piano sindacale il provvedimento dimostra, al di là di ogni chiacchiera, come a prevalere sia stata la logica della Cisl, da sempre favorevole ad una decisa diminuzione del peso della contrattazione nazionale a vantaggio di quella locale ed aziendale. Ciò non è accaduto per una presunta abilità di Bonanni, o per una "errata conduzione delle trattative" da parte di Epifani. Il fatto è che se si subordina (come fa pienamente anche la Cgil) tutta la propria prospettiva e la propria azione alle regole del mercato e alle esigenze delle compatibilità capitalistiche e nazionali, allora quella della Cisl si afferma alla fin fine come la politica più "realistica" e più coerente con tale orizzonte di riferimento.

Quinto: far fuoco sulla Fiom (disarmata)

Il "no" dei metalmeccanici della Cgil al protocollo (anche e soprattutto sintomo di un profondo malessere serpeggiante nelle fabbriche, poi confermato anche nella consultazione) è stato immediatamente accolto da un autentico fuoco di fila volto a emarginare, isolare e criminalizzare la federazione guidata da Rinaldini. Attivissimi in tal senso non solo i vari Epifani, Bonanni e Angeletti, ma anche i capi e gli apparati del nascente Pd. Eppure, quella espressa dalla Fiom è stata una posizione tutto sommato alquanto moderata. Rinaldini ha ripetutamente spiegato, infatti, come il "no" fosse circoscritto all’accordo di luglio (o ad alcuni suoi punti) e non fosse minimamente da considerare come segno di ostilità alla politica del governo nel suo complesso. Lo stesso Rinaldini ha assicurato che nelle assemblee la Fiom si sarebbe limitata ad illustrare l’accordo senza propagandare il "no". Perché allora tutto questo can can?

Il putiferio scatenato intorno a questo "caso" è una riprova di come i meccanismi e le necessità del capitalismo nazionale ed internazionale stiano decisamente spostando l’asse della situazione politica sempre più a destra. La nascita (e la linea) del Pd è allo stesso tempo effetto e causa di tale spostamento, così come, per altre vie, ne è chiaro sintomo il rafforzarsi, soprattutto sul terreno sociale, di una destra sempre più spavalda e agguerrita. Con tutto ciò bisogna iniziare a fare i conti, senza illudersi di poter costruire reali linee di difesa della condizione operaia confinandosi nel puro ambito sindacale, confederale o anche extra-confederale, si tratti della Fiom, dei Cobas o delle Rdb.

Meno politica? No, una politica di classe!

Di fronte (e contro) alla posizione della Fiom e all’indizione della manifestazione del 20 ottobre, Epifani ha dichiarato che "la politica deve fare un passo indietro". È vero esattamente il contrario. O, meglio: è sempre più necessario che i lavoratori facciano passi in avanti per riappropriarsi di una loro politica che ribalti di centottanta gradi quella "offerta" dalle dirigenze sindacali e dai partiti del centrosinistra.

A difesa del Protocollo è schierato un intero (anche se differenziato) arco di forze borghesi che, in mille modi, esercita una grande pressione politica sul mondo del lavoro. Così come una grande pressione politica è esercitata dal ricatto, riproposto in modo esplicito anche dal segretario della Cgil, di un ritorno della destra (con o senza Berlusconi) che sarebbe stato facilitato e provocato da una eventuale bocciatura dell’accordo nelle fabbriche.

Per fare i conti con e contro questo quadro generale, è necessario cominciare a riconquistare una politica di classe che sappia denunciare la vera natura anti-operaia del governo di centrosinistra e dimostri quanto sia falsa l’idea per cui una lotta a fondo contro Prodi aprirebbe le porte ad un ritorno del Cavaliere. Evidenziando, anzi, come proprio la passività della classe operaia (l’esperienza insegna) finisce per favorire il rafforzamento di una destra sempre più baldanzosa e per accrescere gli appetiti padronali. Sottolineando, al contrario, la necessità di riprendere la strada della lotta e della mobilitazione, che è l’unica via attraverso cui i "no" espressi nella consultazione sul protocollo di luglio potranno acquisire davvero peso.

In questo cammino la manifestazione del prossimo 20 ottobre può divenire un utile primo passo. Per questo è (è stato) opportuno darsi da fare perché riesca, per farne un momento di lotta contro Prodi e i cardini della sua politica. A cominciare dal punto-chiave: il "rilancio competitivo del paese". Perché senza combattere la "logica" della competitività non si potrà contrastare efficacemente il veleno aziendalista, territorialista e razzista che, creando disgregazione e contrapposizione tra i proletari, sta indebolendo l’intero mondo del lavoro.

Anche la giusta parola d’ordine dello sciopero generale contro il governo Prodi (e il padronato, ci permettiamo di aggiungere) lanciata da settori del sindacalismo auto-organizzato, potrà acquistare forza solo se affronterà senza mezzi termini queste problematiche e sarà portata avanti rivolgendosi alla massa dei lavoratori per tempo ed in ognuno dei passaggi che potrà vedere partecipe questa stessa massa.

Programma tradito?

Noi dunque parteciperemo ed invitiamo i lavoratori a partecipare alla manifestazione del 20 ottobre su basi alternative rispetto a quelle della piattaforma degli organizzatori.

La prospettiva con cui i promotori (da Rifondazione ai Comunisti Italiani, passando per il manifesto) chiamano in piazza è chiara. Per Giordano e Diliberto il governo sta tradendo alcuni punti fondamentali del proprio programma e, quindi, per il suo stesso bene va aiutato a tornare sulla "retta via". Tutta l’azione della cosiddetta "sinistra radicale", dunque, è e deve essere apertamente finalizzata a ciò. Questa impostazione è, a nostro avviso, disarmante e falsificante.

È disarmante perché su simili basi può, forse, anche ben riuscire una singola manifestazione, ma non è possibile contribuire a rimettere in moto il movimento dei lavoratori. L’idea che con il governo di centrosinistra il massimo che si possa fare, è esercitare una certa pressione per "mantenerlo in riga" o "correggerlo", porta, in fin dei conti, a rendere sempre più blanda e inefficace questa stessa pressione. Se Prodi viene visto e presentato come un "amico che sbaglia", allora anche le mobilitazioni dovranno sempre auto-contenersi onde evitare accuratamente il rischio di metterlo in crisi. Dice qualcosa in proposito il fatto che nell’ultimo anno le ore di sciopero si sono più che dimezzate? o che le trattative per l’accordo sulle pensioni sono state accuratamente condotte dai vertici sindacali senza che mai, neanche nei momenti più critici, i lavoratori siano stati chiamati a far sentire la loro voce?

È falsificante sul piano della prospettiva politica perché in realtà non c’è alcun "tradimento". Tutto il programma di Prodi è stato sin all’inizio esplicitamente incentrato e finalizzato al rilancio competitivo del "sistema Italia". È su queste basi che in campagna elettorale il "professore" ha incassato l’appoggio (condizionato) di buona parte del mondo imprenditoriale e finanziario che lo ha (transitoriamente) preferito alla destra anche al fine di procedere, via centrosinistra, ad una ulteriore narcotizzazione e sfibramento dall’interno del movimento operaio in preparazione di colpi più frontali.

Ma il "rilancio competitivo" del capitalismo nostrano impone innanzitutto che si avvii una decisa stretta contro le condizioni generali del mondo del lavoro. Proprio per questo il protocollo di luglio, lungi dal rappresentare un "deragliamento", è invece un tassello pienamente coerente con la complessiva impostazione politica e programmatica del governo.

Spezzare la catena della competitività!

Per costruire una coerente opposizione all’accordo di luglio si deve dunque affrontare di petto la questione del rilancio della "competitività nazionale e aziendale" e andare con lo sguardo oltre i ristretti confini della "propria" impresa e del "proprio" paese. È infatti a scala mondiale che il capitalismo globalizzato genera, attizza ed utilizza una crescente concorrenza tra i lavoratori dei vari continenti (ecco l’altra faccia della competitività) per imporre una micidiale competizione al ribasso tra operai e lavoratori di diverse aziende e nazioni. Una spirale senza fine che sta stritolando salari e diritti, che sta frantumando il mondo del lavoro in mille rivoli e che sta spingendo una parte di esso, soprattutto quella più giovane, a convogliare in modo suicida la sua sacrosanta ripulsa verso la società borghese dietro le bandiere di una risorgente destra sociale sempre più aggressiva, razzista e populista.

Contrastare tutto ciò chiama a porsi il problema di come gettare le basi per primi momenti di discussione, organizzazione e lotta comune tra lavoratori a livello internazionale. A fare una battaglia all’interno del proletariato autoctono per "spiegare" come e quanto le lotte degli operai delle altre nazioni e quelle degli immigrati lo riguardino da vicino. Per "spiegare" come solo battendosi per una parificazione verso l’alto dei diritti e dei salari degli "altri" lavoratori si potrà cominciare a venir fuori dalla paralisi generata dai ricatti del capitalismo mondializzato. Per denunciare tutto l’impianto della politica "estera" del governo Prodi che, tanto nei suoi aspetti "pacifici", quanto in quelli militari, è in linea con i precedenti esecutivi ed è fondamentalmente finalizzata a schiacciare e a schiavizzare le masse sfruttate del Sud del mondo e, per tal via, anche a creare maggiori condizioni di ricattabilità contro la classe operaia di "casa nostra".

Compiti necessari e difficili che chiamano i lavoratori che hanno a cuore la ripresa del movimento di classe ad un approfondimento del piano teorico e ad una assunzione di responsabilità sul piano politico ed organizzativo a cui l’Oci, nei limiti delle sue non certo titaniche forze, è decisa a dare il massimo contributo possibile.

Che fare n.68 Novembre dicembre2007


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