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Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

L'Italia dalla seconda alla terza repubblica

Dal Pci alla socialdemocrazia alla liberaldemocrazia:

un cammino obbligato

La vita politica dell’Italia del secondo dopoguerra è stata segnata dalla presenza di un grande partito "operaio"-borghese. Con la nascita del partito democratico questa storia si conclude. Avevano preparato il terreno a quest’epilogo inglorioso la "mutazione" dal Pci al Pds del 1989 e quella, successiva, dal Pds ai Ds. Ecco perché nessuna vera opposizione e nessuna vera alternativa al partito democratico possono essere sviluppate sulla base del recupero della precedente tradizione socialdemocratica, come, invece, propongono Mussi-Diliberto-Giordano, inevitabilmente destinati ad essere risucchiati dalla scia di Fassino-Veltroni-Rutelli.

Per comprendere le ragioni di questa inevitabile traiettoria, bisognerebbe partire da molto lontano. Per motivi di spazio, ci limitiamo qui a tornare al secondo dopoguerra, al periodo in cui sembrò che il lavoro salariato, come da copione socialdemocratico, potesse difendersi e migliorare la sua posizione entro le maglie del capitalismo, attraverso le istituzioni democratiche, senza eliminare le basi sociali della sua riduzione a merce, come sostenuto, invece, dall’ala comunista rivoluzionaria del movimento operaio. Doveva lottare e organizzarsi, certo: altro che limitarsi a votare ogni cinque anni, come pretende l’angosciante notte bianca veltroniana! Ma sembrava che Bernstein e Kautsky avessero avuto ragione contro Rosa Luxemburg e Lenin, Turati e Togliatti contro Bordiga.

In realtà, quel compromesso tra capitale e lavoro salariato era fondato su basi tutt’altro che definitive.

Fine del "compromesso storico" tra capitale e lavoro

Da un lato, esso fu reso possibile dal fatto che i lavoratori occidentali potevano far valere le loro richieste sull’orario di lavoro e sul salario grazie al monopolio del lavoro industriale di cui disponevano. I capitalisti che investivano il loro denaro nella produzione manifatturiera, a parte la porzione limitata costituita dalle branche minerarie e infrastrutturali collocate nelle "periferie" del mondo, erano costretti a vincolarlo in Europa occidentale, nell’America settentrionale e in Giappone. Non potevano delocalizzare, né potevano disporre di un’inesauribile riserva di manodopera immigrata dal Sud del mondo. Non glielo permettevano né le condizioni sociali esistenti in America Latina, in Africa e in Asia né i mezzi di trasporto e di trasferimento delle informazioni allora a disposizione.

Dall’altro lato, di fronte a questa pressione dei lavoratori occidentali organizzati in "cartello", il capitale, sulla base della divisione internazionale del lavoro allora imperante, trovò le risorse per rispondere in solido alle rivendicazioni dei lavoratori: con il consolidamento di un saccheggio coloniale e semi-coloniale così esteso da ricavare da esso anche una quota di ricchezza rivolta alla pacificazione del conflitto di classe interno; con la conquista di una riproduzione allargata "auto-sostenuta" da un concorso di condizioni ottimali con la quale ridurre nelle metropoli l’incertezza occupazionale tipica dell’esistenza proletaria.

Negli anni settanta questo circolo "virtuoso" si è irreparabilmente inceppato. Per l’incandescente risveglio delle genti di colore contro la dominazione coloniale e semi-coloniale. Per la determinazione del movimento operaio occidentale a non accontentarsi della fetta della torta assegnatagli dai capitalisti. Per l’esaurimento delle condizioni economiche che avevano permesso, alla fine della seconda guerra mondiale, la riproduzione virtuosa del capitale. Le basi del compromesso sociale siglato nel novecento nei paesi capitalistici avanzati erano infrante. L’ulteriore sviluppo del capitalismo non poteva avvenire che attraverso un regresso della condizione del proletariato, del suo potere nella società prima ancora che delle sue condizioni di esistenza. I re della finanza e dell’industria ed i loro governi si misero all’opera ma fecero attenzione ad un rischio: sentirono che il passaggio all’era delle contro-riforme avrebbe potuto predisporre il terreno ad una situazione rivoluzionaria, di cui si intravvedevano le lontane premesse nella convergenza delle lotte proletarie, pur ancora perfettamente riformiste, dell’Occidente, dell’Est e del Sud del mondo in corso agli inizi degli anni ottanta e nella riemersione, in queste lotte, di minuscole formazioni politiche rivoluzionarie. Per sventarlo, l’imperialismo seguì un’accorta opera di divisione e di aggiramento.

La produzione industriale si mondializza.

Il proletariato delle metropoli fu messo sotto attacco ma gradualmente. I paesi e gli sfruttati del Sud del mondo furono, invece, messo sotto torchio: si siglò un compromesso con la Cina denghista e si concentrò il fuoco prima sull’America Latina (dove, sin dai primi anni settanta, il liberismo cominciò i suoi esperimenti in stile pinochettista) e poi sul Medioriente (soprattutto dopo e contro la rivoluzione khomeinista in Iran). In questo quadro, in conseguenza dell’educazione social-imperialista assunta nel corso della fase precedente, i lavoratori delle metropoli si sono cullati nella speranza che il graduale arretramento dalle loro precedenti posizioni fosse l’inevitabile prezzo da pagare per tornare al ciclo ascendente e nell’illusione che, a tal fine, convenisse loro il ripristino dell’ordine imperialistico nelle periferie. Non si resero conto che nel frattempo l’imperialismo li stava prendendo alle spalle. La controffensiva contro le periferie (insieme ad una serie di trasformazioni nel campo della finanza, nell’organizzazione del lavoro, nelle tecnologie del trasporto e della comunicazione) stava permettendo all’imperialismo di funzionalizzare a sé lo sviluppo industriale compiuto, contro di esso, dal moto antimperialista dei paesi periferici e semi-periferici, soprattutto in Asia e nell’Europa dell’Est.

In questo modo il capitale si stava liberando del vincolo subìto nell’epoca precedente di non poter installare (se non in certi limitati segmenti) la produzione manifatturiera al di fuori dell’Occidente e si stava preparando a spezzare la resistenza del proletariato occidentale spezzando il monopolio del lavoro industriale su cui i lavoratori avevano fatto leva nella loro lotta riformista dell’ottocento e del novecento. Nel 1950 il 75% della produzione industriale mondiale era concentrato in Europa occidentale, in Giappone e in Nordamerica. Nel 2000 la situazione risultava notevolmente cambiata: la quota occidentale della produzione industriale mondiale era ridotta al 40%. Il 10% era nell’Europa dell’Est e in Russia, quasi il 50% nel "resto del mondo". In corrispondenza di questa ridislocazione, all’inizio del XXI secolo solo 150 milioni del mezzo miliardo di operai del mondo lavoravano in Occidente: 60 milioni erano nell’ex-blocco dell’Est, 300 nel Sud del mondo e in Estremo Oriente. E su di essi la pressione gigantesca di un esercito di un miliardo di disoccupati e inoccupati!

Grazie a questa trasformazione, da vent’anni, di fronte ai lavoratori occidentali, il capitale può giocare una carta che in passato non aveva avuto in mano: "O mangiate questa minestra o delocalizziamo o… vi sostituiamo con lavoratori immigrati!".

Il controllo sul lavoro si fa ancora più serrato.

A reggere le fila di questa offensiva è un capitale finanziario ben più potente di quello del passato, non solo e non tanto per le colossali dimensioni raggiunte, ma per il controllo che può esercitare secondo per secondo sui luoghi dello sfruttamento, ridotti a reparti di una fabbrica planetaria, e per la sua capacità di imporre i suoi diktat, pena il ritiro degli investimenti e la declassificazione dei rapporti di rating. Il che, per l’immedesimazione dei lavoratori con il capitale e con lo stato imperialista sedimentatasi nel corso del novecento, per la tenuta relativa dei consumi dovuta al penoso allungamento dell’orario di lavoro, all’indebitamento delle famiglie proletarie e alla riduzione del valore delle merci che entrano nel paniere-salario (causata dall’incremento della forza produttiva del lavoro oltre che dai salari "orientali"), non ha, finora, sospinto il proletariato occidentale verso la ripresa di combattività, ma allo svuotamento della sua organizzazione riformista e al (provvisorio) ripiegamento di fasce crescenti di lavoratori verso l’ineluttabilità del social-darwinismo (cioè della concorrenza più sfrenata tra lavoratori) quale unico mezzo per la riduzione del danno.

Sta in questo processo epocale di trasformazione del capitalismo la radice della liberaldemocratizzazione della socialdemocrazia. Oggi la democrazia non è più chiamata nelle metropoli a comporre il compromesso tra il capitale e il lavoro. Ma a frantumare del tutto la capacità di resistenza collettiva anche riformista dei lavoratori. A blindare anche gli spazi di rappresentanza delle esigenze immediate dei lavoratori entro le istituzioni democratiche che il capitale era stato costretto a concedere.

Un patto diabolico

Ma c’è qualcosa di ancor più radicale. Quello che la classe capitalistica sta proponendo ai proletari delle diverse nazioni dell’Occidente è, in realtà, la stipulazione di un patto diabolico. Non più in vista di un progresso indefinito, di pace e benessere per tutti, come nel secondo dopoguerra. Ma in vista di un risultato ben diverso: "A voi lavoratori occidentali, possiamo offrire uno sconto nell’arretramento delle vostre condizioni di esistenza richiesto dal rilancio della competitività aziendale e nazionale. Purché ci aiutiate a mantenere o a riportare sotto la media planetaria, da abbassare drasticamente, il valore della forza lavoro dei paesi del Sud e dell’Est del mondo. Purché accettiate di farvi protagonisti della razionalizzazione della macchina capitalistica nazionale, del disciplinamento di tutti gli strati sociali della nazione. Purché offriate il vostro sostegno al protagonismo imperialistico del vostro paese…" Non è il tradimento della democrazia. È la confessione della sua essenza, esattamente come messa a nudo dal marxismo sin dai suoi primi passi.

In questo quadro, il "partito di lotta e di governo" di togliattana memoria non può che diventare il partito di governo e basta di D’Alema. Non basta più neanche la socialdemocrazia annacquata di Occhetto. Persino il riformismo cristiano-sociale stile Rosy Bindi è un intralcio. Occorre volare verso il partito elettorale su base liberal-compassionevole di Veltroni. Come trampolino verso tappe ancor più terrificanti (se fosse possibile), come tanti sintomi danno già a vedere, se un nucleo di lavoratori non si organizzerà attorno a un programma di classe e si batterà per congiungerlo con le multiformi iniziative di resistenza che i lavoratori sono e saranno costretti a mettere in campo in tutto il mondo.

Il Prc rincorre D’Alema.

Ne dà una conferma l’evoluzione di Rifondazione Comunista. Nata per contrastare la "svolta" della Bolognina, ne segue oggi le orme e va ad occupare lo spazio politico lasciato libero da Fassino-D’Alema. Tradimento di Bertinotti, come sostengono Ferrando e la "Sinistra Critica"? Al contrario. Coerenza massima con gli impegni assunti nel 1991. Allora il Prc chiamò socialismo quella che era soltanto un’"umanizzazione" della condizione proletaria entro i rapporti capitalistici e sulla pelle dello sfruttamento del Sud del mondo. Esauriti i margini per le riforme, non rimane altro che l’abbraccio con Marchionne e l’implorazione bertinottiana di un compromesso (!) con il capitale finanziario globalizzato: nient’altro che l’auspicio di uno sconto nelle perdite dei lavoratori italiani al prezzo di amplificare quelle degli sfruttati degli altri paesi. Del Sud del mondo innanzitutto. Non a caso, la presa di distanza bertinottiana dalla lotta antimperialista con la famigerata intervista sul film La battaglia di Algeri e, recentemente, la schifosa apologia dei marines nostrani inviati in Libano. Un esito scontato. Che noi comunisti dell’Oci denunciammo sin dal 1991. Non in contrapposizione alla volontà di reazione alla "svolta" di Occhetto da parte dei militanti di classe confluiti nel Prc, bensì proprio per fare la nostra parte, da posizioni indipendenti, per dare a tale volontà gli adeguati coefficienti teorici e politici. In mancanza della rottura con i fondamenti della "democrazia progressiva", era inevitabile la rincorsa da sini

stra della deriva del Pds e dei Ds con l’effetto, che è ormai sotto gli occhi di tutti, della dispersione e dello spolpamento di un autentico patrimonio di energie di classe. Non dovremo aspettare molto per vedere i passi successivi. Li mostrano le giravolte di colui che nella "Cosa Rossa" dà il "la" sia a Diliberto che a Giordano: Mussi. Ad esempio con la presa di distanza dal "radicalismo" della manifestazione del 20 ottobre o dalle resistenze dei palestinesi e degli iracheni.

Avremo ragione noi.

Abbiamo accennato sopra le ragioni per cui la crisi del riformismo socialdemocratico non si sta traducendo, per ora, nel passaggio dei lavoratori occidentali alla ripresa della mobilitazione di classe. Al momento il frutto di questa decomposizione, il riformismo social-darwinista, sembra dare l’illusione della riduzione del danno. Ma anch’esso non può offrire una risposta stabile alle aspirazioni e alle sofferenze dei proletari.

Prendiamo il lavoro in fabbrica. Hai voglia a predicare la convenienza dell’abbraccio con il padrone, anche con il padrone illuminato alla Marchionne, ma chi subisce la morsa del mostro del macchinario al servizio del turbo-capitalismo del XXI secolo? C’è voluta La Repubblica, il 10 ottobre, a ricordare quello che nella "sinistra" è diventato un tabù: il "lavoro che sfianca", la "fabbrica che ti consuma", la "macchina che t’insegue" nello stabilimento e a casa. Come denunciarono qualche anno fa le operaie della Barilla in una delle rare inchieste sulle condizioni di lavoro nella fabbrica "snella e leggera". Non dicono niente i suicidi persino tra gli ingegneri della Renault per la pressione creata sui dipendenti creata dalla spasmodica ricerca della competività? Ma prendiamo anche la vita dei lavoratori al di fuori del lavoro o il futuro che il capitalismo delinea in prospettiva, di cui forniscono una pallida anticipazione l’assedio occidentale all’Iran, con l’occhio torvo verso la Cina, il tracollo finanziario da subprime, i crescenti squilibri ecologici del pianeta...

Quello che sta emergendo, in mezzo al frastuono della celebrazione del capitalismo come l’unico mondo possibile o il meno peggio dei mondi possibili, è il fatto che tale sistema sociale riesce ad andare avanti solo al prezzo di sempre più pesanti conseguenze anti-sociali, sugli operai, sull’umanità lavoratrice e sulla natura. Che entro i rapporti sociali capitalistici non c’è soluzione per i problemi degli sfruttati e della società contemporanea. L’evoluzione del capitalismo e quella del suo alter ego riformista stanno mostrando che alla distanza sono Rosa Luxemburg e Lenin ad avere ragione contro Bernstein, Bordiga contro Turati e Togliatti. Non viceversa. Per ora, questa grande verità sta emergendo "solo" al livello dell’analisi sociale e non anche sul piano dello scontro di classe. Ma siamo solo agli inizi del carico di pene e di tragedie che il capitalismo ha in grembo per l’umanità. Ed in più, già adesso, se siamo capaci di vedere, rileviamo che la stessa concorrenza mondializzata che spinge i lavoratori verso il basso e verso la frantumazione, li sta costringendo a cercare una via di ricomposizione di classe, un’alternativa sistemica al sistema dello sfruttamento capitalistico.

Non sono colpi di coda di un passato oramai finito le lotte sotto il segno del chavismo in America Latina, le resistenze -pur divise- attive nel mondo arabo-islamico spesso sotto il segno dell’islamismo radicale, gli scioperi operai dell’Est europeo e della Cina per la conquista dei diritti sindacali e di aumenti salariali contro lo strapotere delle multinazionali o anche le lotte contadine dell’Asia meridionale contro la morsa del complesso industrial-agricolo imperialistico. Non sono colpi di coda residuali neanche il "no" metalmeccanico al protocollo di luglio in Italia e la mobilitazione "No Dal Molin" o "No Tav" in corso a Vicenza e in val di Susa. Sono i segni del conflitto di classe che inevitabilmente tornerà, più forte di tutte le socialdemocrazie e le liberaldemocrazie di questo mondo.

Che Fare n.68 novembre dicembre 2007


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