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Che Fare n.68 novembre dicembre 2007 L'Italia dalla seconda alla terza repubblica L’ipocrisia di stato sui morti da lavoro "Lavoro la strage è globale: sarebbero 2,2 milioni le persone che nel mondo perdono la vita lavorando ognianno, a causa di "incidenti" e malattie professionali, mentre il numero degli infortuni ammonterebbe a 270 milioni.L’Ilo ha anche fornito i dati sulle malattie professionali: sarebbero 160 milioni i casi denunciati ogni anno…" (il manifesto, 28 aprile 2007)."Quattro morti al giorno [in Italia]; tra i 1300 e i 1400 all’anno, negli ultimi dieci anni; 1.950.000, la media annuale degli infortuni sul lavoro." (l’Unità, 27 gennaio 2006). "In tutto il mondo, ogni anno ne muoiono più che in guerra. E in Italia più dei marines a Baghdad. Da tre a quattro al giorno. Se ne vanno in silenzio, nell’indifferenza. Se poi sono rumeni o moldavi o magrebini, a volte non fanno neanche statistica. Li raccolgono come sacchi e li buttano. Da Milano a Palermo i caduti sul lavoro dal 2001 sono stati più di 7 mila, gli incidenti quasi 5 milioni." (la Repubblica, 21 novembre 2006). Nel solo 2006: 1280 morti, 1.000.000 di feriti –incluse decine di migliaia di invalidi e mutilati; questi i dati ufficiali, inutile dire sottostimati. A che servono tanti numeri? P otremmo continuare a sciorinare statistiche e vedere dove e quando si muore di più, chi muore di più, etc., ma può bastare così, di statistiche i giornali traboccano. Ci interessa di più chiederci: a cosa servono queste statistiche? a denunciare il fenomeno o, viceversa, a convincerci della normalità del fenomeno? Se davvero fossero strumenti di denuncia, i numeri dovrebbero essere accompagnati da un esame delle cause di questo vero e proprio olocausto operaio e proletario, ma è proprio questo esame, sia pure in accenno, che manca.Ed allora è inevitabile pensare che questa sfilza di numeri serva in realtà ad assuefarci alla morte sul lavoro e da lavoro, così come alle altre bellezze del mondo odierno: la guerra, la violenza sulle donne, il razzismo contro gli immigrati, lo sfruttamento globale, la distruzione del pianeta. Il capitalismo deve trasformare in consuetudine l’inferno a cui ci sottopone quotidianamente. Le cifre non urlano, non sanguinano, anzi, in certi contesti, placano. E hanno anche un’altra virtù: sono manipolabili a piacimento. Il ministro del lavoro Damiano, ad esempio, ha avuto la faccia tosta di affermare qualche mese fa (il manifesto, 2 agosto 2007): "ci conforta il fatto che l’Inail ci dica che i dati previsionali sono in miglioramento." Notate il previsionali… E che dire dello stesso titolo de il manifesto, quotidiano "comunista", per giunta: "Rapporto Inail 2006, troppe morti bianche". Troppe!? Se ne deve dedurre che se si morisse in 500 invece che in 1300 potrebbe andar bene? E poi, notate il linguaggio, perché "bianche", e non nere, da libro nero del capitalismo? Insomma, ciò di cui vogliono convincerci, a cui vogliono assuefarci i giornali, i ministri, la televisione è che morire per guadagnarsi da vivere è un fatto accettabile. Se vado a lavorare in fabbrica, o in un cantiere o alla guida di un treno devo mettere in conto di perdere una mano, un occhio, di ammalarmi di leucemia o di… morire. È questo che impone il capitalismo. S i indigna il Quirinale!Ma ecco che viene immediatamente a smentirci nientepopodimenoche il presidente della repubblica "fondata sul lavoro" in persona, lord Giorgio Napolitano: «L’Italia deve "indignarsi" per le morti bianche, dice commosso in una cerimonia al Quirinale per il primo maggio dedicata alla sicurezza del lavoro». E, convenite, l’indignazione presidenziale, non è certo un’indignazione qualsiasi, è la più alta delle indignazioni possibili, la presidentessa delle indignazioni. Indignarsi di più è impossibile. Veniamo dunque smentiti su tutto il fronte. Lungi dal restarne indifferente, lo stato è pieno di indignazione per le "morti bianche".Arriva poi a ruota il ministro Damiano, "emozionato davanti alla scelta di premiare le vittime", che parla di una "scelta forte e commovente, di grande intensità". Quasi ci scappa da piangere, emozionati da tanta emozionata commozione. Lo stato ha un cuore tenero. E c’è da restare senza fiato quando addirittura il presidente della Confindustria, di una delle massime responsabili, cioè, di questo olocausto quotidiano, si aggrega al nobile consesso dicendosi, con gergo agonistico, pronto "a impegnarsi al massimo" in questa materia. Anche il capitale si dà finalmente un’etica della vita. Beh, passano poche settimane e un onorevole napoletano, tale Caruso, uno che più innocuo di così per il "sistema" non potrebbe esserci, si lascia andare ad una puntatina verbale contro Biagi e Treu accusandoli di corresponsabilità nelle morti sul lavoro in quanto "padri" di leggi sulla precarietà. E che succede? Il finimondo. A cominciare proprio dal Quirinale. "Parole disgustose", "neo-terrorismo", "va espulso dal parlamento", "va espulso da Rifondazione" e quant’altro, è mancata solo la richiesta di condanna a morte. Indignarsi sui morti sul lavoro, o.k., purché si eviti assolutamente ogni e qualsiasi accenno, perfino così circoscritto e riduttivo come quello del deputato new-global, alle responsabilità del massacro! La realtà Lontano, mille miglia lontano dal Quirinale, dagli scranni parlamentari, dalle cineprese mediatiche è la vita quotidiana nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi. Ritmi stressanti, minacce continue di licenziamento, infortuni, morte. Dove la morte non è che l’ultimo atto, il più brutale a cui porta la logica dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. È il capitalismo con i suoi padroni, con i suoi stati posti a presidio dei padroni, il responsabile degli omicidi.È questa la verità occultata sia dalle cifre che dalle false indignazioni di stato. L’odierna ristrutturazione ultraliberista dà un ulteriore giro di vite alle già difficili condizioni di vita dei lavoratori, poiché mette il lavoratore alla mercè dell’azienda. Esiste una legge sulla sicurezza, ma viene sistematicamente elusa, perché significherebbe spendere denaro per la salute dei lavoratori invece che per gli investimenti redditizi. Normalizzare la precarietà, la flessibilità significa rendere impossibile al lavoratore rivendicare i propri diritti: dal pacchetto Treu alla legge Biagi non è stata che una corsa forsennata (qui davvero ci si è "spinti al massimo") al metodico smantellamento delle "conquiste", per limitate che fossero, di decenni di lotte. Il capitalismo ci spreme sino all’osso e ci uccide: questa è la normalità che esso vuole imporci. L’Azienda, il Mercato, la Nazione sono feticci, moderne –e civili!– divinità che richiedono, peggio di quelle arcaiche, sacrifici di sangue. E insieme sono imponenti colossi materiali che sembrano granitici come montagne e inevitabili come il succedersi della notte al giorno. Dobbiamo scuoterci da questo giogo, contrapporre a questa inevitabilità del capitalismo, l’inevitabilità della lotta, degli scioperi, della reazione dura e immediata allo sfruttamento padronale. Bisogna ricostruire con pazienza un fronte di combattimento proletario, che è l’unico che può davvero cancellare dalla realtà la tragedia delle morti da sfruttamento del lavoro. Che Fare n.68 novembre dicembre 2007 |
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