Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci


Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

Palestina e Libano: l’Italia è

dalla parte dei carnefici, israeliani e arabi.

Il continuo, feroce strangolamento del popolo palestinese sembra non avere né fine né limiti, se non quelli imposti dalla sua stessa straordinaria volontà di resistenza. E così l’annuncio israeliano di voler tagliare le forniture di acqua, cibo, carburanti, energia elettrica e medicine alla striscia di Gaza si aggiunge ad una tale serie di "punizioni collettive", rastrellamenti, bombardamenti, distruzioni e umiliazioni, da farne quasi sminuire la tragicità. Ma in realtà quello che sta avvenendo nella striscia, dove un milione e mezzo di persone sono costrette a vivere sottoposte ad ogni genere di privazione accalcate in un territorio di poco meno di 400 chilometri quadrati, assomiglia sempre più ad una "soluzione finale" che vorrebbe ridurre la Cisgiordania ad un arcipelago di minuscoli bantustan e Gaza a un nuovo ghetto di Varsavia. Una Palestina divisa, quindi, geograficamente e politicamente, asservita economicamente, dissanguata e smembrata dalla diaspora, messa definitivamente in ginocchio.

Lo stato d’Israele non è l’unico artefice di tale progetto. La pressione militare ed il controllo su ogni genere di prima necessità sono solo un aspetto dell’assedio che cinge la resistenza palestinese. La decisione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea di interrompere gli aiuti finanziari all’Autorità palestinese va nella stessa identica direzione. E così pure l’ostilità della "comunità internazionale" alla schiacciante vittoria elettorale di Hamas. Tale ostilità è destinata a mantenersi viva finché la popolarità di Hamas, come quella degli Hezbollah in Libano, rimarrà espressione della volontà di resistenza e dell’orgoglio delle masse oppresse palestinesi e libanesi. Il rigetto avvenuto a Gaza della linea di svendita totale della corrottissima borghesia palestinese raggruppata attorno ad al-Fatah e Abu Mazen, se da un lato ha consegnato la striscia in mano ad Hamas, dall’altro mal si accorda coi progetti delle cancellerie imperialistiche. Queste ultime faranno di tutto per strangolare e/o dirottare verso più miti consigli il movimento di Hamas, che infatti, nelle sue tortuose manovre politiche, è giunto ad ammettere la negoziazione con Israele e a dichiarare, in modo rassicurante, che "a Gaza non cambierà nulla, ciascuno continuerà la propria vita". È una tortuosità che sta tutta all’interno delle contraddizioni proprie del carattere interclassista e confessionale del movimento islamista, ma che è esaltata al massimo dall’impressionante isolamento internazionale in cui si trova al momento la lotta dei palestinesi.

Il massacro di Nahr-al-Bared

Anche i governi "fratelli" (al modo di Caino) del mondo arabo partecipano come iene a dilaniare il corpo palestinese, ora contribuendo al sorgere di ogni forma di divisione, ora mettendo in campo la propria capacità repressiva, sempre molto efficace in questa direzione, contro i movimenti radicali palestinesi. L’assedio e la distruzione del campo profughi di Nahr-al-Bared, in Libano, ne è un esempio chiarissimo. Il massacro dei militanti di Fatah Al Islam, il bombardamento del campo e il conseguente esodo delle decine di migliaia di profughi che lo "abitavano" non è altro che il tentativo delle classi sfruttatrici e privilegiate libanesi di spezzare il legame che si stava saldando tra le resistenze popolari libanese e palestinese. Un legame per sua natura sopranazionale, proletario e, in parte, interconfessionale. Ecco il vero pericolo rappresentato dai 400mila profughi palestinesi presenti nel Paese dei cedri, nonostante le loro misere condizioni di vita, il loro confinamento nei campi, il loro isolamento politico. Così, nuovamente come nel 1975 a Tall el-Zaatar e nel 1982 a Sabra e Chatila, la borghesia araba preferisce soffocare nel fuoco e nel sangue il contagioso esempio della resistenza palestinese piuttosto che mettere in discussione dominio israelo-occidentale nell’area mediorientale di cui accetta di essere collaboratrice subordinata.

Qui in Italia si è voluto presentare la distruzione di Nahr-al-Bared come una "semplice" operazione di polizia nei confronti delle ennesimi "jihadisti", in quanto tali perciò degni di morte immediata e sospettati perfino da certi "amici" della Palestina che non perdono mai l’orrida mentalità stalinista, di essere stati aiutati, se non proprio addestrati, da Israele. E perciò, anche "da sinistra" degni di essere passati per le armi o, comunque, indegni di ogni e qualsiasi solidarietà. Fatto sta, invece, che il bersaglio di questo crimine non è stato costituito soltanto da questo gruppo di coraggiosi resistenti ma anche, ed in primo luogo, dai palestinesi dei campi profughi del Libano dalle notorie simpatie pro-Hezbollah in quanto tali, a cui si è voluto lanciare un ammonimento firmato Sinora, e contro-firmato Olmert, Bush, Sarkozy e Prodi-D’Alema, a non azzardarsi ad "interferire" nelle vicende libanesi. E, nel caso specifico, a sloggiare al più presto in massa dalla zona di Tripoli dove è prevista a breve (si sente dire a Quleiat o ad Hamat) la costruzione di una grande base aerea a stellestrisce di pronto intervento.

Questa volta la parte del macellaio è stata affidata all’esercito libanese. Un esercito, per inciso, che non ha opposto alcuna resistenza all’invasione israeliana dell’estate 2006, ma che anzi in alcuni suoi settori, specie di vertice, l’ha accolta a braccia aperte. Un esercito sgangherato e screditato, quindi, che potrebbe però tornare estremamente utile come strumento di riconciliazione nazionale (e sociale). Non a caso il suo comandante in capo, il generale Michel Suleiman, si è candidato alle prossime elezioni presidenziali ottenendo l’appoggio di Nasrallah. E in una commemorazione del "martirio" dei soldati libanesi caduti nell’assedio e distruzione del campo profughi palestinese, ha prontamente invitato maggioranza e opposizione "a unirsi e mettere da parte gli interessi confessionali", per il bene della nazione, naturalmente.

La sponsorizzazione della candidatura di Suleiman, unita al silenzio francamente vergognoso tenuto dal partito Hezbollah durante la battaglia di Nahr-al-Bared, sembra descrivere in modo chiaro una parabola politica sempre più istituzionale. Una linea accentuata dalla dirigenza del "partito di Dio" anche attraverso il protrarsi del debilitante braccio di ferro con il governo Siniora per il controllo delle strutture istituzionali borghesi. Tutto questo mentre sul paese piovono milioni di euro e di dollari in aiuti economici e militari, mentre la missione Unifil II occupa il sud del paese e il premier Siniora e il leader Druso Jumblatt invitano l’Occidente un giorno sì e l’altro pure ad utilizzare le maniere forti con Iran e Siria.

Il ruolo dell’Italia

Il ruolo dell’Italia è particolarmente attivo proprio in questo senso. Mentre si sostiene il governo liberista di Sinora con centinaia di milioni di euro e ci si assicura la leadership Unifil con l’invio di 2.500 militari con l’intento esplicito di disarmare la resistenza, si sta tentando, al contempo, di facilitare la metamorfosi di Hezbollah in senso compiutamente istituzionale, il che significa, viste le "istituzioni" del Libano, nel senso della connivenza e collaborazione con le potenze imperialiste interessate alla Mezzaluna Fertile. Del resto, solo i ciechi per scelta volontaria riescono a non vedere da che parte sta l’Italia, se con gli oppressi o con i carnefici. "Il nostro obiettivo è il disarmo delle milizie e quello di obbligare Hezbollah a divenire un ente unicamente politico, affinché il Libano sia una democrazia normale", ha dichiarato D’Alema al quotidiano israeliano Yediot Aharonot. Disarmare, quindi, e nel caso si rendesse necessario, reprimere, la resistenza popolare da un lato. E dall’altro, favorire il processo di riaggregazione nazionale delle forze politiche "libanesi" in chiave antisiriana, antiraniana, antipalestinese. Ecco la strategia dalemiana, e in larga parte europea, che dobbiamo smascherare e denunciare a piena voce. Altro, quindi, che "missione di pace" in Libano! Con la missione dell’Onu l’Italia e l’Europa stanno imponendo ai lavoratori libanesi la condizione di protettorato neo-coloniale e gli stanno lanciando l’ingiunzione a lasciar cadere ogni legame con le resistenze popolari palestinesi ed irachene, e a non azzardare a prender partito contro il sempre più probabile assalto occidentale all’Iran.

Buone nuove da Israele?

In questa interminabile vicenda di guerra in cui lo stato di Israele e l’Occidente hanno precipitato il Medio Oriente, un piccolo interessante segnale in controtendenza sembra arrivare da Israele dove, nel contesto di un clima di stanchezza popolare verso la guerra, pare riprendere un po’ quota la prospettiva di un solo stato per entrambi i popoli, quello che fu un tempo un obiettivo anche di al-Fatah combattente e del Fronte democratico di Hawatmeh. Alcuni pacifisti israeliani da sempre impegnati contro la politica colonialista del "proprio" stato, infatti, stanno prendendo atto del fatto che la politica degli insediamenti è a tal punto andata avanti da aver reso materialmente impossibile la costituzione di una qualsiasi stato palestinese. Per quanto l’opinione pubblica israeliana rimanga in larga prevalenza contraria, non resterebbe a loro avviso altra possibilità realistica di soluzione del conflitto se non la convivenza dei due popoli, fianco a fianco in uno stesso stato. Ma la borghesia israeliana non si piegherà mai a una soluzione che manderebbe in pezzi i suoi sogni espansionisti, se non vi sarà costretta con la forza, con la violenza, dagli sfruttati palestinesi, libanesi ed israeliani coalizzati, e dunque con una rivoluzione sociale che apra la strada a quella Federazione di liberi popoli sovietici che la Terza Internazionale prospettò nei primi anni ’20 come la sola praticabile. Questa coalizione e questa soluzione sono assai lontane, ahinoi, ma è già qualcosa che nella sede del sindacato israeliano di Tel Aviv il tema di un solo stato per due popoli abbia dovuto essere di nuovo discusso.

Se qualcosina si muove perfino a Tel Aviv, qui, invece, pare tutto fermo. La redazione di questo giornale sa di non avere la forza di indire una ripresa della mobilitazione, ma si sente in obbligo di ripetere con convinzione che per porre fine allo strangolamento del popolo palestinese, per impedire l’arresto delle lotte sociali e politiche del proletariato libanese, per incoraggiare le prime forme di disfattismo in corso in Israele, per sbarrare il passo al procedere della macchina bellica imperialista verso i nuovi capitoli della "guerra infinita", è tassativo chiamare i lavoratori occidentali a rompere il loro silenzio e a schierarsi al fianco dei loro fratelli di classe mediorientali. La lotta dei lavoratori palestinesi, libanesi, iracheni, iraniani, siriani, sudanesi è anche la nostra lotta. Mentre l’oppressione che il nostro capitalismo esercita contro di loro deve essere sentita e lottata come un’oppressione che strangola anche noi. Ci vorrà tempo e inflessibile costanza per far marciare queste "idee", ma ci riusciremo.

Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci