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Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

L'Italia dalla seconda alla terza repubblica

"Sinistra Critica":

un argine alla deriva di Bertinotti?

Il crescente disciplinamento di Rifondazione allo stato democratico, al mercato, al capitale attraverso la sua fedeltà al governo Prodi ha prodotto una serie di schegge che si presentano "alternative" alla deriva di Bertinotti&C. Tra queste schegge vi è l’area raccolta attorno a "Sinistra Critica".

"Sinistra Critica" parte da due importanti valutazioni sulla situazione politica italiana. Da un lato, riconosce che è stato il governo a portare le sue ragioni nei movimenti piuttosto che i movimenti le loro nella politica del governo. Dall’altro lato, per reagire a questo fallimento, propone di ripartire dal basso, dalla mobilitazione contro il Dal Molin, la Tav, la precarietà, le discariche, le politiche di privatizzazione dell’acqua, ecc. e da qui costituire dei "forum dell’opposizione sociale" che recuperino il meglio dell’esperienza di Genova e post-Genova e siano il crogiuolo di una nuova "sinistra anti-capitalistica".

Ora, può essere anche in parte obbligato, nella presente situazione politica, ripartire dalle vertenze parziali e locali, dalle reazioni anche minime che i lavoratori e i giovani sono costretti a mettere in campo contro questo o quell’effetto della dominazione capitalistica. Il problema è quale indirizzo politico deve farsi strada in tali iniziative affinché esse favoriscano lo sviluppo di un movimento di classe capace di imporre "le ragioni dei movimenti" al governo Prodi e a quelli che potrebbero sostituirlo. Diciamo subito che quello proposto da "Sinistra Critica" va nella direzione opposta: fa la sua parte per affossare tali spunti di lotta e deviarli su binari morti o suicidi. Per diverse ragioni.

Sostegno al governo Prodi e altre quisquilie...

La prima sta in un fatto gravissimo, che si tende a nascondere sotto il tappeto: sono mesi che "Sinistra Critica" denuncia i provvedimenti del governo Prodi, eppur continua a garantire l’appoggio esterno al governo stesso, cioè continua a promettere il voto favorevole a quei provvedimenti ritenuti accettabili per gli interessi dei lavoratori. Questo significa che non è l’impianto generale della politica del governo Prodi a non andare bene ma solo singoli provvedimenti. Il problema non è, dunque, un programma incentrato sul rilancio della competitività del sistema Italia ma solo il mix di misure con cui lo si realizza. Si tace completamente sul fatto che nel capitalismo mondializzato quell’obiettivo può avvenire solo comprimendo diritti e condizione dei proletari. Si tace che anche quelle misure del governo che prevedono una manciata di euro in più per il lavoro salariato sono parte di un’offensiva generale che mira a narcotizzare, frantumare e irrregimentare a favore del social-imperialismo la fievole risposta di mobilitazione abbozzata dai lavoratori e dai giovani nel quinquennio berlusconiano.

È vero che in un suo documento del luglio 2007 "Sinistra Critica" afferma che l’incapacità del governo Prodi di rappresentare una "soluzione di continuità" con il berlusconismo è discesa "essenzialmente dall’esaurimento dei margini riformistici", ma poi si continua a ragionare come se tali margini esistessero ancora. Quello che si mette sotto accusa è il modello liberista, una certa gestione del capitalismo, lasciando intendere che con un governo diverso della macchina capitalistica i problemi potrebbero essere superati.

Non bastasse l’appoggio esterno a Prodi, la proclamazione tonante dell’anticapitalismo da parte di "Sinistra Critica" si sostanzia in una serie di posizioni politiche di ben altro segno: il peana verso la Costituzione italiana, che, a quanto ci risulta, è la cornice giuridica del compromesso tra il capitale e il lavoro su cui si è retta la prima repubblica; la riluttanza nel denunciare come neo-coloniale la spedizione in Libano, di cui invece si evidenziano "le ambiguità e le contraddizioni", come se essa potesse andare bene in presenza di qualche rettifica di tiro e come se non fosse pienamente coerente con la presenza in Afghanistan; il tentativo di mettere a tacere in occasione del 9 giugno la denuncia dell’imperialismo italiano per puntare il dito solo su quello statunitense; l’"invito" di Cannavò durante l’assemblea del 7 ottobre a non fare dello sciopero auto-organizzato del 9 novembre uno sciopero politico; l’indirizzo politico disfattista portato avanti a Vicenza, nella mobilitazione contro il Dal Molin, dai referenti locali di "Sinistra Critica", i "disobbedienti", che non disdegnano, anzi!, la collaborazione con quel Cacciari che ha criticato, dal punto di vista dei ceti accumulatori veneti, la politica eccessivamente radicale (!!) del partito democratico e del governo Prodi…

Non è tutto molto chiaro? La pace è possibile entro i rapporti internazionali del capitalismo, dice al fondo "Sinistra Critica", basterebbe perseguire una vera politica multilaterale, più coerente di quella di D’Alema. Anche il rilancio del welfare è possibile entro il corso del capitalismo mondializzato, se solo ci fosse una adeguata politica di redistribuzione della ricchezza... E dov’è la differenza sostanziale con Bertinotti e con Fassino? Anche "Sinistra Critica" rimane dentro quell’orizzonte riformista che sta portando il movimento operaio ad affrontare in modo disastroso l’affondamento del "compromesso sociale" che si riteneva eterno.

Ma quale svolta a sinistra?!

Lo evidenzia anche la rivendicazione da parte di "Sinistra Critica" dell’orizzonte teorico e strategico fissato nel IV e nel V congresso di Rifondazione. Tali congressi furono e sono presentati da Turigliatto come quelli della "svolta a sinistra", dell’"andata verso i movimenti" di Rifondazione dopo la partecipazione al primo governo Prodi. Essi portarono, invece, ad una politica che favorì l’illusione del movimento no war e no global di trovare nel centro-sinistra un soggetto politico "permeabile" alle "ragioni dei movimenti": quei congressi e le tesi che vararono sono corresponsabili dell’attacco politico portato avanti dal governo Prodi contro i lavoratori, i giovani, i popoli del Medioriente. E poiché la costruzione di una solida opposizione a Prodi e ai padroni richiede di fare chiarezza su questo punto cruciale, è bene ritornare su questa esperienza.

Le tesi sostenevano che il "movimento dei movimenti" sarebbe stato in grado da solo, purché non intralciato dall’organizzazione comunista di partito, di crescere, unificarsi e di far pesare le sue ragioni sulla politica istituzionale mediante la "pressione morale" esercitata sui partiti della "sinistra".

In realtà, il movimento no global, pur se originato da esigenze antagonistiche al capitale, non era affatto consapevole di quest’opposizione radicale. Nel suo slogan "Un altro mondo è possibile!" non esprimeva alcuna rivendicazione anti-capitalistica. Bastò una Rossanda per rilevare, sulla Rivista del manifesto, l’orizzonte riformista delle iniziative di resistenza contro Berlusconi e la "guerra infinita". Altrettanto sballata l’idea che per favorire la maturazione di tali iniziative sul piano della coscienza e dell’auto-organizzazione occorresse limitarsi ad essere megafono dei manifestanti, ad opporsi all’intervento della forma-partito. In questa maniera, Rifondazione e la sua ala "critica" si schierarono non a favore ma contro i movimenti e le loro ragioni profonde. Perché li fissarono ad un livello embrionale, non si batterono per il superamento, nella lotta e sulla base dell’esperienza scaturita dalla lotta, delle loro illusioni, tra cui quella micidiale di non avere nulla a che fare (o peggio) con la resistenza antimperialista nel mondo arabo-islamico, soprattutto se di matrice islamico-radicale.

Con questa impostazione, e con il ritornello di impedire il soffocamento delle lotte da parte della cappa dei partiti, Rifondazione e la sua ala "critica" si batterono per radicare nel movimento un certo partito: il partito della ricerca della soluzione dei problemi entro l’orizzonte capitalistico, il partito della delega alla futura alleanza democratica. Tale partito non si è infiltrato di soppiatto all’insaputa dei partecipanti e dei compagni di Rifondazione. Esso era già presente dentro i movimenti: avete dimenticato come i Rutelli e i Di Pietro scorazzavano "liberi e belli" nel mega-corteo contro la guerra all’Iraq del febbraio 2003?

I movimenti non sono mai qualcosa di puro. Esprimono al loro interno schieramenti partitici, "opzioni" politiche contrapposte, al di là se formalizzate o meno. E possono selezionare quella in grado di farli maturare, se quest’ultima

dà battaglia politica esplicita, su tutti i piani, contro le altre, se cerca di ricondurre i problemi contro cui si lotta alle loro radici nell’essere della società borghese, se mostra, contro la linea del minimo sforzo spontanea, i passaggi politici e organizzativi per marciare verso l’unica soluzione possibile, quella comunista rivoluzionaria.

Ovvio che, fissate al loro livello, alla vigilia delle elezioni del 2006, le mobilitazioni no global e anti-Berlusconi hanno sperato che l’alleanza di centro-sinistra si permeabilizzasse alle proprie (riformiste) ragioni. Ed ovvio che il Prc, premuto dai "movimenti", appoggiasse per coerenza questa speranza. Solo a questo punto l’area di "Sinistra Critica" puntò i piedi. Senza puntarli del tutto, però. Sia perché accettò che si potesse dare comunque un appoggio esterno al governo Prodi. E sia perché non riconobbe che l’appoggio organico al cartello elettorale di centro-sinistra proposto Bertinotti derivava organicamente dalle tesi dei due precedenti.

Da dove bisogna ricominciare

Ripartire dalle lotte locali e parziali, quindi, può anche andar bene, sempre che non ci si sottragga, tanto per fare un esempio, dall’intervento su temi generali come quello della "guerra infinita" e del suo capitolo iraniano in preparazione. Ma facciamo tesoro dell’esperienza che ci sta alle spalle. Essa chiama i compagni e i lavoratori che vogliono sbarazzarsi realmente dalla subalternità al governo Prodi ad un chiarimento teorico e strategico di fondo: dove va il capitalismo? E noi, dove vogliamo andare? "Sinistra Critica" elude queste domande cruciali, non coglie ed occulta l’alternativa di fondo tra capitalismo e socialismo che sta tornando d’attualità.

Gratta gratta, rincorre il sogno "reazionario" di un capitalismo welfarista, da cui nasce un intervento politico nei movimenti di lotta che concorre alla débâcle di essi e alla ricontrattazione al ribasso con l’ala laburista del partito democratico. È vero che, dopo gli amari bocconi messi sul tavolo dal governo Prodi, le illusioni di tanti giovani e lavoratori verso il centro-sinistra si sono incrinate. Ma se guardiamo bene, vediamo che questo disincanto non sta per essere riempito, neanche laddove si partecipa ad iniziative di lotta, da posizioni classiste. Vediamo che il capitale, il suo stato e i suoi partiti stanno cercando di deviarlo in un’altra direzione. Essi sanno bene che, proprio per l’inasprimento degli antagonismi verso cui va incontro il sistema capitalistico, la totale diluizione del proletariato nel mare magnum della "società civile", a cui sta dando il suo grande contributo il partito democratico, non può essere la soluzione definitiva per esercitare la dittatura borghese in Italia e in Europa.

Tale nebulizzazione va bene solo come momento di passaggio per la successiva riaggregazione dei lavoratori su un altro terreno a pro della gestione social-imperialista del capitalismo italiano ed europeo, da catalizzare a partire dall’intervento (anche organizzativo oltre che politico) dall’interno e all’interno delle prime reazioni di lotta degli sfruttati. Tant’è che alcuni dirigenti del partito democratico, come Reichlin e Damiano, criticano il distacco del partito democratico dal lavoro salariato e propongono la costituzione di una corrente laburista proprio per evitare che i lavoratori rimangano "scoperti" alle sirene del populismo e, soprattutto, della rivoluzione socialista (v. Argomenti umani, nn. 3-4 del 2007).

Quest’iniziativa laburista in seno al partito democratico e gli addentellati che essa potrebbe trovare in un settore di lavoratori legati alla Cgil e alla Cisl, insieme al consenso di crescenti frange giovanili verso la combinazione nei programmi dell’estrema destra di politiche imperialistiche e razziste con vagheggiamenti socialistoidi, sono il sintomo di un antagonismo tra capitale e lavoro non cancellabile e destinato ad esplodere. Ma tutto ciò mostra anche quanto i lavoratori, in tale scontro, debbano liberarsi da indirizzi che, altrimenti, li porterebbero e li stanno già portando nel baratro. Non potranno farlo che nella lotta, certo. E, oggi, a partire dalle lotte parziali e locali in corso. Ma come spingerle in avanti senza dare battaglia contro quegli indirizzi? E come lo si può fare se ci si limita ad un riedizione del bertinottismo, criticato solo in aspetti secondari? Se non si fa i conti con la vera radice dell’esaurimento dei margini riformisti? E cioè con i meccanismi di fondo del capitalismo, con l’avvicinamento di esso ai suoi limiti storici, con il ritorno d’attualità dell’alternativa tra socialismo e barbarie, con l’impossibilità far crescere l’auto-organizzazione entro e attraverso il parlamentarismo e di far fuori il capitalismo attraverso le istituzioni democratiche?

Che Fare n.68 novembre dicembre 2007


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