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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

Ai lavoratori e ai compagni che vogliono resistere e battersi

Se tra le fila dei padroni regnano, sul piano politico, la confusione e l’incoerenza, le cose non vanno meglio per i proletari. Anzi. La gran parte dei lavoratori è disorientata, passiva, a rimorchio dell’uno o dell’altro schieramento borghese. Solo un ristretto settore di lavoratori non intende rassegnarsi alla deriva del vecchio movimento operaio organizzato e non accetta come definitivo l’attuale spostamento a destra di tanti proletari. Questo settore avverte il grande pericolo della smobilitazione proprio mentre è alle porte un salto di qualità dell’attacco padronale, e si chiede come farvi fronte.
Ci rivolgiamo qui a loro, siano essi delegati sindacali o membri di piccoli collettivi “di base” attivi sui temi del lavoro, della guerra, della condizione femminile, dell’ecologia. E ci rivolgiamo insieme a quei compagni che stanno dandosi da fare per evitare che la social-democratizzazione di Rifondazione disperda ai quattro venti tutti, ma proprio tutti, i militanti di classe che si erano radunati fiduciosi sotto le sue bandiere.
La loro volontà di resistere esprime il “no” alla deriva politica in atto, ma esprime anche un’esigenza “in positivo”. Che è pure nostra: quella di voler rimettere finalmente al centro dello scontro politico le necessità e i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, la lotta contro le guerre capitalistiche, la salvaguardia dell’ambiente e della salute sociale, mai così mortificati e derisi come oggi.
Discutiamone, dunque, insieme.

Dove sta la forza dei lavoratori.

A partire da una constatazione elementare: il nocciolo della questione che abbiamo di fronte è interamente extraparlamentare. Non si può rispondere a questa deriva politica con la costituzione alla Camera e al Senato di una “lobby operaia” o di una pattuglia di parlamentari a prova di tradimento. I lavoratori non sono riusciti a far pesare le loro esigenze attraverso il parlamento eletto nel 2006: considerato lo sbilanciamento a destra avvenuto da allora nel paese, figuriamoci se sarà possibile farlo attraverso il parlamento partorito dalle elezioni del 13 aprile!
No, il nocciolo dello scontro politico è interamente extraparlamentare. Lo è per i capitalisti, lo è per i lavoratori. I padroni, è vero, traggono vantaggio dall’azione lobbistica svolta nel e verso il parlamento. Ma essa serve solo a raccogliere i frutti di un’iniziativa esercitata su un altro terreno, quello dei rapporti di forza, disposti a proprio favore attraverso l’uso delle leve del potere economico, statuale e culturale che i capitalisti hanno in mano. I lavoratori sono esclusi dalla cabina di comando di queste leve. E non è certo difficile prevedere quale sarà il differenziale di peso dei Boccuzzi-Argentino e dei Colaninno-Calearo sugli atti del parlamento e del governo futuri.
Questa esclusione non significa, però, che i lavoratori sono privi di ogni potere. Che sono, come si ama dire dagli smidollati, “i deboli”, condannati a restare tali per l’eternità.
I lavoratori salariati, il proletariato sono, al contrario, la forza sociale, la classe sociale che produce l’intera ricchezza della società contemporanea. Sono la fonte da cui le aziende traggono la loro linfa vitale, i profitti e le rendite. Sono il perno dell’intero sistema sociale capitalistico. Altro che dinosauri in via di estinzione! Solo in Italia ci sono oltre sette milioni di operai. E altri milioni di salariati del mitico “terziario” condividono con gli operai la ripetitività delle mansioni, l’incertezza del lavoro, il basso livello del reddito. Dopo la strage alla Thyssen-Krupp, se ne sono accorti anche i mezzi di informazione, che per anni ci hanno fracassato i timpani con la tesi che il “post-industrialismo” stesse riducendo la forza dei proletari. Lo sapevamo già, ma leggiamo con un certo gusto su L’Unità del 22 marzo la seguente ammissione: “La deindustrializzazione è stata erroneamente interpretata a sinistra come una sorta di deoperaizzazione. Niente di più sbagliato! Tutte le statistiche dicono che se l’industria dimagrisce, operai e tecnici aumentano nei servizi in un modo più che proporzionale”. Ed infatti siamo nella società più proletarizzata di ogni tempo!
La cosiddetta “globalizzazione” ha esteso come non mai l’esercito dei lavoratori. Lo ha rinfoltito in Italia e in tutto l’Occidente, con l’arrivo di milioni di immigrati e con l’immissione nel mercato del lavoro di tante donne. Lo ha moltiplicato in tutto il pianeta, in Asia, in America Latina, in Africa. I capitalisti, è vero, hanno in mano i pulsanti di comando del meccanismo economico mondializzato, ma a far girare le ruote planetarie della produzione agricola e industriale, dei trasporti e dei commerci sono solo e soltanto i salariati o i semi-salariati, i semi-proletari delle campagne. E questo ruolo conferisce loro il potere (potenzialmente immenso) di dettare i destini della vita dell’intero pianeta.
Finora la mondializzazione capitalistica ha giocato a favore dei padroni e dei finanzieri, che sfruttano la concorrenza spasmodica tra lavoratori di continenti, paesi, regioni, sessi diversi per imporre il loro dispotico sfruttamento. Ma questa stessa spirale ribassista sta facendo nascere tra i lavoratori l’esigenza di reagire, di difendersi. E dove questa esigenza si manifesta, emerge pure il bisogno, per ora più sotto forma di aspirazione che altro, di organizzarsi unitariamente a livello mondiale. Siamo solo ai primi passi di un cammino che è però obbligato. In Cina, nei paesi dell’Europa dell’Est (Polonia, Slovenia, Romania…), sta emergendo la volontà dei lavoratori di rivendicare aumenti salariali contro la morsa delle multinazionali occidentali e la spremitura dei capitalisti autoctoni. In Russia alla Ford, alla Hyundai, alla AvtoVaz gli operai rialzano la testa per difendere le proprie condizioni di vita. Come del resto hanno fatto di recente gli operai tessili del delta del Nilo in Egitto, gli edili asiatici insorti a Dubai, i metalmeccanici dell’Iran-Khodro di Teheran, e quelli dell’industria petrolifera in Iraq. E in molteplici luoghi delle campagne del Sud del mondo, dall’India dei dalit, degli adivasi, dei naxaliti, delle grandi lotte contro la Monsanto e contro i trasferimenti forzati imposti dal governo di Dehli, al Messico dei campesinos e dei chilangos in marcia contro il Nafta, i braccianti e contadini sfruttati fanno sentire la propria voce in masse organizzate (anche in armi), capaci di dare corpo, con Via campesina, perfino ad un primo embrione di propria organizzazione internazionale.
Anche in Italia, accanto alla delusione e alla frustrazione, sta accumulandosi, specie tra gli operai, una grande rabbia. Se n’è accorto pure uno dei più queruli gazzettieri della “scomparsa della classe operaia”, Gad Lerner. Il quale, su la Repubblica del 19 gennaio, ha scritto: “La coincidenza tra lo scandalo delle morti bianche, la perdita del potere di acquisto dei salari, il ritardo nel rinnovo dei contratti, la metà delle famiglie italiane che vive con meno di 1900 euro al mese, sta innescando un clima di conflitto diverso dalle stagioni del passato. […] La lotta di classe figura come un retaggio anacronistico inservibile, sovrastata dai flussi della globalizzazione. Ma ciò non garantisce più la tanto invocata pace sociale. Il nuovo conflitto operaio scatenato dall’insicurezza e dai bassi redditi, ma più ancora dall’umiliazione inflitta ormai a due generazioni di lavoratori manuali, dall’indifferenza che respirano attorno a sé, può avere esiti imprevedibili. Non stiamo ritornando all’ottocento luddista. Se gli operai non otterranno l’udienza che gli è dovuta, se il governo non riuscirà ad avviare una significativa redistribuzione delle risorse, la nostra società affluente farà i conti con una rabbia difficile da istradare nei binari della democrazia e della contrattazione sindacale.”
In queste parole c’è il riconoscimento da parte della voce del padrone della forza materiale, del tutto extra-parlamentare, posseduta dai lavoratori, e insieme il timore che essa torni a esprimersi nell’unico modo, altrettanto extra-parlamentare, in cui può “farsi sentire”: con i mezzi della lotta di classe. È su questo terreno, non su quello elettorale, che si può invertire la deriva e la frantumazione in corso nella classe lavoratrice.
 

Competitività, razzismo e guerra: questi nodi non vanno elusi!

Puntare sulla lotta di classe significa, certamente, sostenere le lotte, anche minimali, che si accendono contro questo o quell’effetto della dominazione capitalistica e tornare ad esprimere i bisogni umani insoddisfatti dei lavoratori in piattaforme rivendicative adeguate. Si tratta di due compiti essenziali. Ma per svolgerli in modo adeguato si deve affrontare di petto anche il vincolo che, nelle iniziative e nei sentimenti dei proletari, rende oltremodo difficile, per il meccanismo di funzionamento del capitalismo, una efficace lotta difensiva di classe: la subordinazione della difesa degli interessi proletari a quella della competitività delle aziende. Questa subordinazione è un pilastro dell’offensiva padronale in corso da decenni: un pilastro che deve essere attaccato!
L’accettazione del vincolo della competitività comporta, infatti, due cose: da un lato, l’esaltazione delle esigenze delle aziende e dello stato capitalistico; dall’altro, la divisione dei lavoratori, chiamati a farsi la pelle gli uni agli altri. Eppure è così raro vedere affrontato il tema della competitività, del mercato mondiale, della concorrenza fratricida che esso fa gravare sui lavoratori! Forse a molti la critica della competitività appare come un vuoto esercizio ideologico; ma è invece ossigeno, l’ossigeno che serve per spingere in avanti le mobilitazioni e tessere un filo unitario tra esse. I padroni non avrebbero fatto della competitività un dogma intoccabile se non si trattasse di una questione realmente cruciale, sia per il capitale che per i lavoratori: quanto ci vorrà per rendersene conto?
Ma il nostro ritardo è grave anche su altri due terreni decisivi tanto per la tenuta e la maturazione delle attuali avanguardie, quanto per la piena ripresa delle lotte e la ricomposizione della classe.
Il primo è quello della lotta contro il razzismo, della solidarietà incondizionata con i lavoratori e le lavoratrici immigrati. In questo campo non basta denunciare la marea montante del razzismo, la Bossi-Fini e, da ultimo, il decreto sicurezza introdotto dal governo Prodi – una denuncia che è stata fin qui, quando c’è stata, assai poco energica. Occorre denunciarne, agli occhi dei lavoratori italiani e di quelli immigrati, qual è la funzione: l’attizzamento dello scontro tra i lavoratori a vantaggio del capitale mondializzato. E occorre partecipare e farsi carico di organizzare le (anche minuscole) mobilitazioni dei lavoratori immigrati in corso in Italia, vedendone e valorizzandone il ruolo vitale per il superamento delle divisioni nazionali, religiose, di genere indotte dal capitalismo mondializzato. Specie in una fase come questa in cui si tende a fare degli immigrati il capro espiatorio di ogni malessere.
Il secondo terreno che non va assolutamente disertato, ma che purtroppo è al momento quasi del tutto abbandonato, è quello della lotta contro le guerre di oppressione e di rispartizione del mercato mondiale condotte o preparate dall’imperialismo nei Balcani, in Medioriente e nel resto del Sud e dell’Est del mondo. Queste guerre non sono soltanto guerre per il petrolio, il gas, il coltran o quant’altro; servono anche per buttare nel calderone del mercato del lavoro mondializzato sempre nuove reclute super-ricattate di contadini espropriati o proletari licenziati o privati della loro (bombardata) fabbrica, della loro casa, dei propri mezzi di sopravvivenza. Esse investono direttamente anche i lavoratori italiani e occidentali. L’appena varata portaerei Cavour è parte di questa politica. I finanziamenti per costruirla si sono trovati senza problemi di bilancio o di deficit: evidentemente sono socialmente indispensabili, superflui o dannosi sono invece quelli per la sanità, la scuola, le pensioni…
Il rilancio del “movimento contro le guerre dell’imperialismo” richiede l’organizzazione di una propaganda sistematica su questo punto cruciale. La campagna nazionale “Ferma la guerra, firma la legge” con cui un cartello di associazioni e di singoli compagni intende promuovere una legge di iniziativa popolare non va, però, in questa direzione. Perché elude l’analisi delle radici della “corsa infinita” alla guerra e delle conseguenze che essa ha per i lavoratori in Italia e nel mondo. E perché illude di poter mettere fuori dalla storia le guerre del capitale attraverso la promozione di una legge di iniziativa popolare e, per di più, attraverso una legge ispirata ad una carta, la costituzione italiana, coerentemente usata dall’imperialismo nostrano per giustificare le missioni di guerra e di pace neo-coloniali degli ultimi decenni.

La vera posta in gioco

Critica della competitività, rapporto con i lavoratori immigrati, ripresa della lotta contro il militarismo e la guerra: c’è bisogno che le lotte immediate, i momenti di discussione e le iniziative in campo trovino la forza di connettersi con questi temi di fondo, sollevandosi al di sopra di un residuale tran-tran che rischia di inghiottire nel localismo e nel minimalismo i piccoli collettivi che resistono.
Si tratta poi di capire che questi “diversi” temi hanno una medesima radice nel meccanismo di funzionamento proprio del capitalismo mondiale, e che i crescenti intoppi di questo meccanismo ci parlano dell’esaurimento del suo ruolo progressivo, ci indicano l’esigenza storica di “sostituirlo” con un “altro mondo (già) possibile”. Quando il bisogno di un nuovo sistema sociale s’impone sulla scena storica, si presenta inizialmente proprio così: come una pluralità di proteste, spesso inconsapevoli del loro significato epocale, che si dirigono contro questo o quel miasma generato dal sistema sociale putrescente ma ancora in piedi, come impossibilità degli esseri umani di continuare a vivere come hanno vissuto fino ad allora. Successe a fine settecento con il sistema aristocratico feudale in Europa. Sta succedendo di nuovo, oggi, con il capitalismo a scala mondiale. Questa è la posta in gioco, ed è qui la radice anche della cosiddetta “crisi italiana”, che nel suo fondo è tutto salvo che italiana. Questa posta i lavoratori e i compagni che vogliono rispondere all’offensiva capitalistica sono chiamati ad afferrarla, a dichiararla apertamente, vincendo il timore di apparire rétro. Poiché il difetto dei comunisti autentici, da sempre, è quello inverso: essere troppo in anticipo sui tempi!
Del resto sono gli stessi consiglieri del capitalismo a parlare del rischio di una nuova grande crisi, di un’insicurezza sociale generalizzata, di una inaudita emergenza ecologica che mette in causa la stessa stabilità del sistema sociale… Vorranno proprio degli oppositori del capitale esserne da meno? Le stridenti contraddizioni di un capitalismo che per decenni si è presentato trionfante aprono davanti alla nostra propaganda e alla nostra azione delle autentiche autostrade! Come mai, per dirne solo una, molti lavoratori dei paesi ricchi fanno fatica ad arrivare a fine mese, ad accedere con i loro salari ai prodotti e ai servizi richiesti da una vita dignitosa quando, nello stesso tempo, il mercato straripa di merci, quando la produttività del loro lavoro è ai massimi di ogni tempo? non è forse perché il capitalismo nella sua immodificabile natura sa produrre ricchezza solo al prezzo di produrre una più che proporzionale miseria, sa generare tempo libero solo al prezzo di imporre immani tormenti di lavoro? e come mai il capitalismo che si era presentato al mondo con la promessa di mandare in archivio le guerre attraverso il progresso tecnico e l’industria, e che questa promessa aveva solennemente rinnovato a Yalta e a New York nel 1945, si è di nuovo infognato (se mai ne era uscito per un momento) in un corso di guerre senza fine?
L’esplosivo aggrovigliarsi degli antagonismi capitalistici chiama i lavoratori di avanguardia ad uno sforzo enorme di chiarificazione teorica e politica su se stessi e verso la massa dei lavoratori. Uno sforzo che non deve spaventare perché l’armamentario indispensabile esiste già nella dottrina di Marx ed Engels, che l’“ultimo” capitalismo globalizzato sta “clamorosamente” confermando essere l’unica in grado di spiegarne l’evoluzione storica e di indicare come salvarci dall’orrore senza fine che la sua anarchia sta generando. Essa va riconquistata nella sua integralità, nella sua originaria forza corrosiva e liberatoria, con un’attività teorica che ci consenta di vedere, nello stesso tempo, come lo sviluppo capitalistico ha creato le premesse materiali, che la classe lavoratrice deve impugnare con risolutezza, di un sistema sociale globalmente alternativo, il socialismo, che saprà fare a meno della divisione del lavoro (in tutte le sue forme), delle classi, dello stato, della guerra.

Una nuova leva di militanti, una nuova organizzazione politica.

Rilancio delle lotte rivendicative, della discussione collettiva sui nodi politici strategici, del lavoro teorico: questa generale ripresa dell’iniziativa richiede il protagonismo e l’auto-organizzazione dei lavoratori che sola può animarla. Richiede una nuova organizzazione politica di partito che all’oggi è assente. Richiede che si formi una nuova leva di militanti di classe aliena dall’individualismo, dal carrierismo e dal filisteismo così diffusi nei partiti dell’attuale sinistra, di cui è campione Bertinotti, il “non-violento” ammiratore dei parà tricolori inviati in Libano. Per favorire questo percorso, occorre, però, mettere a fuoco le vere ragioni della “mutazione antropologica” che ha condotto a simili pupazzi, e al disastro del movimento operaio organizzato che ci affligge.
Non si può attribuire questo disastro solo alle regole di funzionamento interne a Rifondazione, e tanto meno ad una sorta di intrinseca malvagità della forma-partito (magari in quanto forma maschile della politica). Lo statuto di Rifondazione, la sua prassi organizzativa, le sue dinamiche interne discendevano dai cardini teorici e politici di quel partito, tutti interni sin dall’inizio al riformismo togliattiano, e perciò alla ideologia, alle idealità, alle prassi proprie della borghesia, seppure di una borghesia “progressista”, che Bertinotti non ha affatto tradito, ma che al contrario ha svolto con coerenza fino al vomitevole approdo attuale. E quanto alla forma-partito, è inutile girarci intorno: è una legge della lotta politica che le classi sfruttate e oppresse debbano concentrare al massimo le proprie forze e dotarsi di un programma e di un piano di battaglia coerente con le proprie necessità per avere ragione delle classi sfruttatrici che le opprimono. Fu così per il terzo stato chiamato, nella rivoluzione borghese, a spezzare le catene del sistema feudale dei nobili e del clero. E’ così per il “terzo stato” di oggi, il proletariato mondiale, chiamato a spezzare con la forza le catene del sistema sociale del profitto.
Andiamo al fondo delle cose! Un bilancio severo di quello che è stato il riformismo del novecento in tutte le sue varianti mostra che ad aver spappolato dall’interno il movimento operaio rivoluzionario che nel primo quarto del ventesimo secolo fece tremare l’ordine borghese in Europa (e non solo), non è stata la forma-partito “in sé”, è stata la sottomissione, più o meno conflittuale, dei partiti “a base proletaria” e degli interessi proletari a quelli nazionali, capitalistici, risultato, a sua volta, di un rapporto di forze a livello mondiale che dopo un primo momento ci è stato sfavorevole. (1) Ma per la classe lavoratrice assumere come proprio invalicabile orizzonte la società capitalistica, sia pure resa “più equa” da piccoli aggiustamenti redistributivi, non può significare altro che accettare il proprio schiacciamento. La fine dei margini riformisti di cui parla perfino Bertinotti sta ad indicare che anche la possibilità di rendere “più equa” la società capitalistica occidentale (sulla pelle degli sfruttati del Sud del mondo) volge ormai al termine. E grazie a questo passaggio d’epoca ritornano oggettivamente in campo più cogenti che mai l’attualità della prospettiva comunista rivoluzionaria e la necessità di una organizzazione di partito coerente con essa.
Ovviamente sono le mobilitazioni e il protagonismo diretto della massa dei lavoratori l’elemento centrale della lotta per la difesa e per la liberazione degli sfruttati. È impossibile sostituirli o surrogarli con questo o quel marchingegno organizzativo. Ma è altrettanto impossibile che le singole iniziative di lotta si fondano in un solo fiume in piena, senza che esse conquistino una prospettiva di pensiero e di azione unitaria e unificante, senza una minoranza che in esse si organizzi per compiere questo passo in avanti. Senza, cioè, un’organizzazione comunista di partito. Lasciamo ai tromboni dell’imperialismo la privativa delle invettive contro tale organizzazione, presentata, non a caso, come la sentina di ogni abiezione; discutiamo pure, in sede di bilancio critico materialista, di “ciò che non è andato bene” nell’esperienza delle tre Internazionali e del perché; ma vediamo l’organizzazione di partito per quello che essa è stata realmente nelle sue più alte ed esaltanti espressioni: l’unico organo in grado di realizzare fino in fondo l’auto-organizzazione per sé dei lavoratori, di elevarli collettivamente al ruolo di soggetto storico agente in modo cosciente per la propria liberazione e la liberazione dell’intera specie.
Certo, l’esercito dei proletari è oggi scompaginato, e un grande esercito scompaginato non si può riorganizzare in quattro e quattr’otto. È una sfida difficile e di lunga lena. Essa può sembrare, ed è nella sua piena attuazione, al di là, del tutto al di là delle nostre forze “individuali”. Ma o si comincia, anche in pochissimi, in questa risalita dall’abisso, avendo di mira la vetta da raggiungere e senza nascondere ai propri compagni di avventura le aspre difficoltà del cammino, oppure l’apparente realismo degli obiettivi “più a portata di mano”, un realismo che, guarda caso, si sta traducendo nella rincorsa di una, anche microscopica, visibilità elettorale, disperderà in men che non si dica le (già scarse) energie che riesce a mobilitare, e ritarderà la proiezione di quanti oggi vogliono resistere verso una nuova generazione di proletari rivoluzionari.

Nota

(1) Si veda su questo gli articoli pubblicati sui numeri precedenti del nostro giornale e i nostri inserti speciali sul partito. I materiali sono consultabili e scaricabili dal nostro sito oppure possono essere richiesti alle nostre sezioni.

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

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