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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

Iraq: cinque anni di massacri e di devastazione. Parla Dahr Jamail

Il quinto anniversario della seconda guerra statunitense (col solito volonteroso contributo italiano) all’Iraq è passato, purtroppo, senza che da nessuna parte si sentisse il bisogno, se non altro, di denunciarne i tragici effetti. Tornate a casa le “nostre” truppe, chiuso definitivamente il problema. Quello che succede in Iraq non ci interessa. E così la sola informazione che circola è quella che parla dei successi della nuova strategia politico-militare statunitense denominata “Surge”, volta a comperare e coinvolgere nel “governo” di alcune province del paese un certo numero di dignitari locali sunniti in modo da isolare al massimo i nuclei organizzati di combattenti, siano essi di al-Qaeda o meno. Una strategia di cui abbiamo trovato una certa lode perfino in siti “pacifisti” quali Peace Reporter, condita dal sospiro: “oh, se gli americani ci avessero pensato prima”…
Per parte nostra, per quel che possiamo, torniamo a battere il chiodo. Dando conto della più seria testimonianza sull’attuale situazione irachena, che è quella fornita al settimanale “Socialist Worker” di Dahr Jamail, autore di Beyond the Green Zone. Dispatches from an Unembedded Journalist edita dalla Haymarket Books di Chicago (riprendiamo la sua intervista dal sito di “A l’encontre”, su cui la si può scaricare nella sua integralità).
Ciò che ne emerge è che gli imperialisti yankee sono stati di parola. Avevano promesso quindici anni fa, con il “saggio” James Baker, consigliere di Bush padre, di riportare l’Iraq, all’epoca il più moderno e progredito (in senso borghese, è ovvio) paese arabo, “all’età della pietra”, e ci stanno riuscendo. “All’oggi più di un milione di iracheni sono stati uccisi, tre milioni sono invece i feriti, e cinque milioni gli sfollati. A questi bisogna aggiungere quattro milioni di persone che necessitano di aiuti urgenti. Ciò significa che [in questi cinque anni di guerra] metà della popolazione di questo paese è stata forzatamente spostata di residenza, ferita, uccisa o messa nelle condizioni di avere urgente bisogno di aiuto”. E se gli si domanda qual è la vita quotidiana della popolazione irachena, Jamail risponde così: “Non c’è alcuna normalità in Iraq. La condizione delle infrastrutture è, a tutti i livelli, molto peggiore di quello che era prima dell’invasione [dopo una guerra devastante e ben dodici anni di embargo “umanitario” Onu!]. La disoccupazione della popolazione oscilla tra il 60 e il 70%. Le abitazioni dispongono di elettricità al massimo per cinque ore al giorno. C’è penuria permanente di gas (sia per cucinare che per riscaldarsi). E il 70% della popolazione irachena non ha accesso alla acqua potabile [bombardamenti intenzionali distrussero infatti gli acquedotti, che non sono stati in alcun modo ripristinati]. Più della metà del personale medico è fuggito dal paese e la situazione negli ospedali è peggiore di quella che esisteva allorché l’Onu impose le sue sanzioni dopo la prima guerra del Golfo. L’occupazione dell’Iraq è una completa catastrofe e si può agevolmente affermare che tale catastrofe è il risultato di una politica di genocidio condotta dall’attuale amministrazione Bush, dalle due amministrazioni Clinton e, in precedenza, da quella di Bush padre. Si tratta di una guerra bipartisan (dei democratici e dei repubblicani) condotta dalle diverse amministrazioni degli Stati Uniti che si è prolungata per diversi decenni e ha prodotto infine la distruzione di questo paese”. In questo quadro di devastazione totale e di disperata miseria in cui tra le poche possibilità di sopravvivenza spiccano le attività illegali o delinquenziali al soldo degli occupanti, non sorprende che lo stesso movimento di Moqtada al-Sadr, la più importante forza popolare di lotta agli occupanti, si sia venuto via via decomponendo, com’egli stesso ha dichiarato, anche a causa della “infiltrazione di elementi criminali” nei suoi ranghi.
Un aspetto di primaria importanza della distruzione dell’Iraq è stata la sistematica frammentazione del paese, che nella lotta anti-coloniale aveva saputo raggiungere una sua orgogliosa unità nazionale (con tutti i limiti di tali forme di unità), secondo linee “etniche” e confessionali. In questa nefasta opera di divisione e soggiogamento delle genti irachene che, non dobbiamo nascondercelo, ha avuto più di un successo, Jamail sottolinea il ruolo svolto da specialisti di primo rango degli “squadroni della morte” tristemente noti in America centrale quali l’ambasciatore J. Negroponte e il colonnello J. Steele, che nell’autunno del 2004 misero in piedi, insieme con il Ministero degli interni iracheno, delle squadracce “sciite” di criminali comuni e le lanciarono in efferati massacri contro i sunniti per spezzare la spinta quella unità interconfessionale nella resistenza all’invasore che aveva avuto la sua massima espressione proprio nella primavera del 2004 intorno ai magnifici insorti di Falluja. Dopo alcuni anni di questa politica razzista l’Iraq è ormai il paese delle molte pulizie “etniche” e “settarie”. Sono stati costretti a fuggirne decine di migliaia di palestinesi, 2.700 dei quali sono ora bloccati al confine tra Siria (la “sorella” Siria…) ed Iraq “dove vivono in due campi di fortuna in condizioni disumane”: la denunzia è della Mezzaluna rossa (L’Unità, 22 marzo). A Baghdad, città da cui è fuggito almeno un milione di abitanti (su sei), siamo alla fase finale delle operazioni di “pulizia etnica” effettuate dalle gang di assassini sostenute dagli Stati Uniti: “la ‘pulizia confessionale’ e la segregazione dei quartieri misti dal punto di vista confessionale sono ormai un fatto in larga parte compiuto”. E non c’è luogo dell’Iraq in cui non sia stata prezzolata e organizzata dai “liberatori” questa orrenda pratica, a cominciare, si capisce, dal Kurdistan e dalla città “contesa” di Kirkuk, nella quale sotto la guida dell’esercito statunitense le milizie kurde dei peshmerga hanno “ripulito” la città da ogni insegna e traccia araba e continuano a forzare gli arabi, anche con omicidi, a lasciare le loro abitazioni in città.
Ebbene, in questo deserto di rovine e di sangue, la resistenza popolare anti-imperialista non è ancora domata, come sanno i soldati statunitensi, anch’essi colpiti con morti, feriti, sciancati per sempre, malati di mente, suicidi, omicidi, malati da uranio impoverito, con le famiglie distrutte, e quant’altro per non essere riusciti, come classe sfruttata degli Stati Uniti, a fermare questa infame guerra. In questo deserto di rovina, non più tardi di qualche mese fa hanno rialzato la testa migliaia di operai del petrolio organizzati nella Federazione irachena dei sindacati del petrolio ponendo accanto a delle rivendicazioni immediate (miglioramenti salariali, costruzione di alloggi, ferie garantite, assunzione dei lavoratori con contratti a termine) la fondamentale rivendicazione politica di avere voce in capitolo nella redazione delle leggi sul petrolio che, fortemente volute dagli occupanti espropriatori, ancora non sono state approvate dal “parlamento” iracheno. Quando si dice che la lotta di classe è insopprimibile, e che il proletariato, gli sfruttati, comunque sia, stanno facendo la storia, un’altra storia…

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

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