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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

 

La secessione del Kosovo: un’ulteriore (non ultima) tappa della guerra contro i lavoratori dei Balcani

Finalmente il Kosovo è libero e indipendente! Padrini della festa gli Stati Uniti e l’Europa. Tant’è che l’Unione europea, con Germania e Italia in prima fila, ha deciso di inviare una missione militare e civile (Eulex) di circa duemila tra poliziotti, giudici e magistrati a sostegno del nuovo stato (?), già il giorno prima che questo venisse proclamato. Tanta sollecitudine per garantire ai kosovari prosperità e pace? Frottole. Frottole a cui non credono per primi coloro che le diffondono. Quello che in realtà avanza sotto il manto della libertà e dell’indipendenza è il processo di colonizzazione, e cioè di schiavizzazione e di sottomissione, altro che libertà e indipendenza!, di tutti i popoli e gli sfruttati dei Balcani, kosovari “liberati” inclusi, da parte dei padrini-padroni di cui sopra.

Sono decenni che le imprese e i governi occidentali puntano a stringere nella propria morsa i lavoratori della Jugoslavia con un attacco praticamente ininterrotto. Tale attacco si è dispiegato su molteplici e collegati piani. Con la pressione che gli stati occidentali hanno esercitato per avere libero accesso ai mercati della repubblica jugoslava. Con le misure di austerità imposte negli anni ottanta dal Fmi e dalla Banca mondiale. Con l’attizzamento delle divisioni tra le diverse “nazioni” della ex-Jugoslavia mediante lo studiato approfondimento delle disuguaglianze di sviluppo regionali ad opera delle cure del Fmi. Con la coltivazione delle ambizioni separatiste delle micro-borghesie locali. Con il sostegno alle secessioni a catena di Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia, all’origine delle “pulizie etniche”. Con la guerra del 1999, Italia in prima fila, contro la Federazione jugoslava (Serbia e Montenegro), sotto la copertura dell’ipocrita motivazione di “liberare” la popolazione albanese del Kosovo, colpita da un inesistente “genocidio”. Ed ancora con lo spudorato sostegno alla secessione del Montenegro di Djukanovic, altro principato della droga e del gioco d’azzardo sotto tutela occidentale. Dulcis in fundo: l’“indipendenza” del Kosovo.

La “pace” portata nei Balcani con la guerra del 1999

Nell’attacco generale ai popoli e ai lavoratori della Jugoslavia, un posto speciale è spettato alla Serbia, perché da lì è venuta e viene tuttora la resistenza più testarda all’imperialismo statunitense ed europeo, pur se in forme e contenuti neppure lontanamente adeguati da un punto di vista di classe, anzi, diciamolo subito con franchezza, molto al di sotto dello stesso jugoslavismo titino (ciò che non “imputiamo” in prima istanza ai proletari serbi, ma anzitutto alla solitudine in cui il proletariato europeo li ha lasciati).
Per l’Occidente la Serbia di Milosevic era colpevole di voler contrattare o, peggio, contrastare -dal punto di vista dei propri interessi borghesi – l’ulteriore penetrazione dei capitali occidentali. Una colpa dopotutto alquanto esagerata perché, al di là della indiscussa dignità personale, la politica di Milosevic, interamente chiusa quale è stata alla scala serba e serbista, non è stata in grado di contrastare l’attacco occidentale. E ha avuto, per converso, l’effetto di spingere i lavoratori serbi contro quelli delle altre “nazionalità” jugoslave, contribuendo così a creare le condizioni, nel caso del Kosovo, perché la popolazione albanese seguisse, almeno in parte, formazioni come l’Uck, totalmente al soldo degli stati occidentali.
E tuttavia l’aggressione militare alla Federazione Jugoslava dimezzata, nonostante le previsioni (di hitleriana memoria) di “guerra lampo”, le oltre 32.000 missioni aeree di bombardamento ed una quantità di esplosivo pari a più di dieci bombe su Hiroshima, che hanno portato alla distruzione della sua struttura produttiva e ad enormi devastazioni ambientali, non si è conclusa con lo sperato netto trionfo della Nato. Non c’è stata né la resa incondizionata, né la rotta dell’esercito jugoslavo. Incamerato il Kosovo, l’aggressione occidentale è dovuta quindi proseguire con altri mezzi.
Subito dopo la fine dei bombardamenti, Bruxelles, Washington e Berlino hanno aumentato la pressione economica sulla Federazione Jugoslava e supportato le forze secessioniste montenegrine. Nemmeno dopo sei mesi, nel novembre del 1999, il Montenegro è entrato nella zona monetaria del marco, mettendo il controllo della propria economia nelle mani della Bundesbank. Questo ha determinato la sua secessione economica di fatto dalla Serbia, che si è completata sette anni dopo, con il referendum del maggio 2006, fortemente voluto, appoggiato e “indirizzato” dall’Ue e dagli Usa. L’anno dopo il Montenegro, un mini-stato (hai detto stato?) di 14mila km² con 650 mila abitanti (1/6 della popolazione pugliese), ha firmato un accordo che garantisce l’impunità ai soldati statunitensi presenti sul proprio territorio, essendo stato ridotto ad essere niente più che una base delle forze navali USA.
Intanto, nel 2001, il fronte di guerra si era già spostato in Macedonia, un paese che, nonostante il controllo militare diretto degli Stati Uniti, non mostrava di piegarsi ancora nella misura “necessaria” ai dettami occidentali di disgregazione dell’area. Gruppi armati albanesi ben equipaggiati, foraggiati e supportati da Usa e Ue, hanno fatto irruzione in territorio macedone, attaccandovi l’esercito. Nel giro di poche settimane gli scontri si sono diffusi ad ampie zone del paese, provocando migliaia di profughi. In agosto, il conflitto è terminato con la stipula dell’accordo di Ohrid, co-firmato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, che hanno costretto il governo macedone a trattare con l’Uck e accrescere la disgregazione del paese attraverso una devastante “etnicizzazione” istituzionalizzata della vita sociale. Risultato: la Macedonia è oggi, insieme al Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa; versa in una situazione di profonda crisi economica, con circa il 40% della popolazione in età lavorativa disoccupata e la quasi totalità della popolazione in condizioni al limite della sopravvivenza.

La manomissione della Serbia

A tutto ciò va aggiunta l’opera di aperta manomissione della vita politica interna alla Serbia in occasione delle elezioni dell’ottobre 2000, quelle che hanno portato alla sconfitta di Milosevic e alla vittoria del partito democratico. Un bell’esempio di cosa sia l’esportazione della democrazia fuori dall’Occidente: formazione e finanziamento di partiti quisling (il partito democratico del neo-rieletto presidente Tadic, ad esempio), aumento della pressione e delle minacce nelle settimane precedenti al voto, compreso lo schieramento di navi da guerra di fronte alla costa montenegrina. Dopo un iniziale rifiuto, i governanti serbi si sono piegati completamente ai diktat occidentali, e dopo aver consegnato Milosevic al tribunale dell’Aja, calpestando così anche il proprio tradizionale orgoglio nazionale, si sono detti pronti ad essere gli esecutori interni dei progetti occidentali di colonizzazione della Serbia, e cioè a calpestare i bisogni e le rivendicazioni dei “propri” lavoratori.
“Vogliamo essere un paese aperto, una colonia aperta”, da cui ci si può aspettare (in Occidente) addirittura di più che dalla Croazia e dalla Bosnia: così si esprimevano allora i membri del nuovo establishment democratico. E a queste parole sono seguiti i fatti. La liberalizzazione dei prezzi, che ha portato ad una loro crescita tra il 50 e il 100%. L’ancora maggiore apertura dei mercati alle merci e ai capitali occidentali. L’impegno a rinunciare al sostegno statale all’economia. Dopo la caduta di Milosevic, tutti i governi succedutisi in Serbia si sono schierati servilmente a favore dell’ingresso nella Nato e nell’Unione Europea. Questo è quello che vuole l’Unione Europea: una Serbia aperta, meglio ancora squadernata al capitale occidentale, sottomessa al Tribunale dell’Aja, disposta alla riscrittura della propria storia secondo le prescrizioni dei conquistatori. La ricompensa? L’entrata nell’anticamera della Nato.
A questo punto, però, qualcosa ha cominciato ad andare storto nei piani dell’Occidente, che ha dovuto far scattare il piano d’emergenza per il quale aveva da tempo predisposto il terreno in caso di “imprevisti”: l’ulteriore sbriciolamento della Serbia.

I grattacapi dell’Occidente

I grattacapi per i centri direttivi dell’imperialismo sono nati da due ordini di fattori, distinti tra loro perché ben distinte, anzi oggettivamente contrapposte, sono le classi che li incarnano, ma che potrebbero anche intrecciarsi tra loro in modo pericoloso.
Da un lato, vi sono il rilancio del capitalismo russo, la sua progressiva ripresa di influenza nell’Est Europa e nei Balcani e la tessitura internazionale che Mosca e Pechino stanno stringendo sul terreno economico e militare tra loro e con alcuni paesi in qualche modo “ribelli” all’ordine imperialista, l’Iran e il Venezuela innanzitutto. L’imperialismo ha bisogno che lo sviluppo capitalistico di queste aree continui, ma ha altrettanto bisogno che esso sia del tutto funzionalizzato al proprio capitale finanziario. Il che mal si concilia con le intenzioni delle succitate borghesie, quella russa per prima, intenzionate a proseguire sui binari “autonomi” degli ultimi anni, anche per essere in grado di tenere sotto controllo il fronte interno e le istanze delle proprie classi lavoratrici.
Dall’altro lato, i lavoratori dell’Europa dell’Est si stanno mettendo alle spalle la fase di illusioni verso l’“arrivo” nelle loro terre dell’Occidente “liberatore” e la depressione politica conosciuta dopo il 1989. In Russia, in Polonia, in Cechia, in Romania, in Slovenia si sono verificate, o sono in corso, lotte e iniziative sindacali per rivendicare di fronte alle proprie direzioni aziendali (spesso multinazionali occidentali) e ai propri governi l’aumento dei salari o le coperture sociali. Le cancellerie occidentali avvertono il bisogno urgente di stoppare sul nascere questo risveglio, che potrebbe in qualche misura anche essere incoraggiato dall’attrito tra l’orso russo e l’Occidente, e da un riavvicinamento Mosca-Belgrado.
Memori della lezione del nazi-fascismo, che per la sua offensiva verso Oriente ebbe bisogno dello sbriciolamento della Serbia (amputata a favore dei paesi vassali o annessi della Croazia, dell’Albania, del Montenegro, dell’Ungheria e della Romania), le potenze occidentali hanno fatto scattare la secessione del Kosovo come tassello dell’offensiva scatenata contro il duplice ostacolo, borghese e proletario, che si stanno trovando davanti.

Europa vassalla degli Usa?

Forse in Italia e nella Ue qualcuno avrebbe voluto evitare la secessione del Kosovo e trovare una soluzione di compromesso con la Serbia, ma gli Usa hanno spinto il piede sull’acceleratore. E per non rimanere indietro, tanto Roma che Bruxelles hanno dovuto prendere in mano la patata bollente e contendere agli Usa la direzione del processo. È così, anarchicamente, che procede il “piano” dell’imperialismo verso la “guerra infinita” contro i popoli e gli sfruttati dell’Oriente…
In questa offensiva l’Europa non sta seguendo in maniera supina e servile il volere degli Stati Uniti, come sostiene il patriota Giulietto Chiesa, secondo cui il Kosovo è “un esempio che più chiaro non si potrebbe di come l’Europa sia sdraiata sulla linea degli Stati Uniti d’America, esecutrice della loro volontà, prona e succube. Sovranità patria addio”. Certo, sono stati gli Stati Uniti a spingere il piede sull’acceleratore, come aveva fatto capire il viaggio di Bush in Albania nel giugno 2007. L’Ue, e l’Italia in modo particolare, avrebbero preferito, forse, una soluzione meno pesantemente punitiva verso Belgrado e, indirettamente, Mosca. Però, però… è l’abituale vorrei ma non posso dell’Unione Europea verso il protettore concorrente d’Oltreoceano.
Concorrenza e collaborazione, collaborazione e concorrenza: il passaggio di poteri dall’Unmik all’autorità kosovara sotto l’egida dell’Unione Europea, rappresenta una divisione dello sporco lavoro da compiere. Agli Usa la presenza militare nella zona, all’Ue l’espansione economica nei Balcani che, come si legge a chiare lettere nei documenti ufficiali dell’Ue, sono considerati rientrare nella sua area di espansione, nel suo “spazio vitale”. Tale divisione dei compiti e delle sfere di influenza caratterizza nel suo insieme il processo di “integrazione” europea ad Est, una vera e propria colonizzazione economica sotto l’ombrello militare della NATO. Il Kosovo “indipendente” è dunque un satellite della Nato nell’area di influenza economica dell’Unione europea, una base di supporto di grande importanza strategica per portare avanti la “guerra infinita” in direzione del Medio Oriente e dell’Asia.

Il perno della sola, vera resistenza all’imperialismo sono i lavoratori dei Balcani di nuovo uniti!

Questo processo di espansione militare ed economica occidentale verso Est non avviene senza resistenze da parte dei lavoratori e delle popolazioni dell’area, a partire dalla popolazione serba stessa, che, dentro e fuori i confini del proprio paese, non intende accettare supinamente diktat e umiliazioni. Le molteplici proteste di massa (a Belgrado, il 21 febbraio, i manifestanti erano addirittura un mezzo milione) contro la secessione del Kosovo in Serbia, in Kosovo, nella Repubblica Srpska di Bosnia lo provano in modo eloquente. Più volte in esse sono state prese di mira le sedi di consolati e ambasciate statunitensi ed europee, di banche occidentali (l’Unicredit, ad esempio), e più volte la polizia o le forze dell’Onu hanno provveduto a reprimere i dimostranti. Anche gli emigrati serbi hanno organizzato delle manifestazioni molto partecipate nelle principali città di Austria, Germania, Svizzera, e spesso, come è accaduto a Vicenza il 25 febbraio, il grosso dei dimostranti era composto da operai.
Questo risveglio della mobilitazione di massa è avvenuto sotto un segno di fondo nazionale e nazionalistico, ancorché da nazione oppressa, sistematicamente vessata dall’imperialismo. Se ne comprende senza sforzo la ragione. Ma non si deve tacere che il nazionalismo dei Kostunica e dei Nikolic, come e più di quello di Milosevic, non saprà dare alcuno sbocco positivo al bisogno dei lavoratori serbi e jugoslavi di scrollarsi di dosso la morsa soffocante dell’imperialismo. Anzi. Esso ha già fatto il possibile per complicare le cose all’unica risposta vincente alla manomissione imperialista della Jugoslavia e della Serbia: il rilancio del processo di affratellamento dei proletari di tutti i Balcani, il riavvicinamento, la solidarietà tra i proletari serbi e quelli kosovari, vittime entrambi di tale manomissione e delle proprie vili borghesie o sotto-borghesie. All’aggressione congiunta di Europa e Stati Uniti non si può rispondere come singole sub-nazionalità divise o, peggio, in guerra tra loro. Vi si può rispondere solo con il rilancio del processo di unificazione pan-jugoslavo, che nel 1941-45 riuscì ad unire (fino ad un certo punto, almeno) i lavoratori di tutti i Balcani (inclusi gli albanesi), e che oggi va centrato ancor più di ieri sull’enorme massa degli sfruttati che vive all’interno dei Balcani o è sparsa in tutto il mondo, a stretto contatto con i lavoratori dei paesi occidentali. Il rilancio di una lotta unitaria delle masse dell’area oltre e contro le divisioni e gli odi nazionali che hanno portato tutti al disastro, deve incorporare in sé l’appello ai lavoratori e alle masse povere del Kosovo; un appello che sappia capitalizzare la crescente distanza di queste masse dalla politica ufficiale dei propri “partiti” e la loro consapevolezza che non sarà certo l’indipendenza formale del loro “paese”, in tutto e per tutto sotto il controllo occidentale, a portare ad un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Se ci sarà questo rilancio, esso potrà contare di sicuro sul più generale risveglio delle lotte che sta avvenendo nei paesi dell’Europa dell’Est. In Slovenia, proprio nel paese da cui è partita la catena di secessioni dalla Repubblica Jugoslava, nel novembre del 2007 settantamila lavoratori sono scesi per le strade di Lubiana per protestare contro le condizioni di estremo sfruttamento loro imposte. Il “Sole 24 ore” del 29 maggio 2007 ha parlato provocatoriamente del “caro salari”, di una corsa al rialzo del costo del lavoro estesa a tutti i paesi dell’Europa dell’Est, sia nell’industria che nei servizi, frutto delle lotte dei lavoratori contro le condizioni di iper-sfruttamento loro imposte. In Ucraina e in Georgia si sono manifestate delle resistenze alla partecipazione alla Nato, mentre nella Repubblica Ceca e in Polonia ci sono state delle manifestazioni contro la costruzione dello scudo missilistico statunitense.
In questo processo di unificazione delle masse lavoratrici dei Balcani di centrale importanza sarà il ruolo dei lavoratori occidentali, che possono e devono oggi, dopo quasi vent’anni dall’inizio della disgregazione dell’ex-Jugoslavia, trarre finalmente un bilancio delle conseguenze di questo processo sulle proprie condizioni di lavoro e di vita. E’ tardi, ma non è mai troppo tardi per capire che l’attacco contro i lavoratori dei Balcani ha avuto e avrà pesanti ripercussioni negative sui lavoratori occidentali. E regolarsi di conseguenza.
 

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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