Jugoslavia: 
una polveriera al crocevia dell’Europa

Negli ultimi anni, e in particolare in questi ultimi mesi, la Jugoslavia non ha cessato per un attimo di occupare le pagine della stampa nostra . Ce n'è ben donde. Questo paese, nato praticamente come unità statale nel '45, sull'onda della "rivoluzione antifascista" guidata da Tito , rappresenta un delicatissimo cuscinetto tra Est ed Ovest, e relativi equilibri interimperialistici, oggi messo profondamente in crisi, tanto da far presagire ad un suo non lontano laceramento.

Per la sua situazione geopolitica e per tutta la sua storia la Jugoslavia rappresenta un elemento strategico di primissima grandezza tanto per la "risistemazione" degli equilibri imperialistici (sempre più disequilibrati) quanto per le sorti della rivoluzione proletaria e i casi che oggi la squassano risultano, sotto questo aspetto, molto più importanti che non quelli succedutisi nel tempo in Ungheria e Polonia (fa eccezione il '5 3 di Berlino Est, "provvidenzialmente" bloccato da Est e da Ovest, in commovente unità d'intenti controrivoluzionari). Non abbiamo esitazioni nel dire che il caso jugoslavo è quello attorno al quale si giocheranno più drammaticamente le sorti di uno scontro profondo tra le forze dell'imperialismo e tra le classi sociali in Europa (e nel mondo). Come nella guerra del '14-'18, i Balcani ritornano in avanscena come "protagonisti" della deflagrazione mondiale che si prepara. Di qui l'importanza che i comunisti rivoluzionari devono annettere al "caso Jugoslavia", come questione non solo e non tanto "interna", ma elemento essenziale della rottura degli equilibri attuali nei rapporti tra stati e tra classi.

Giova ricordare ai nostri lettori, soprattutto ai giovani, alcuni elementi di storia passata per capire il presente, e il futuro.

Dalla "rivoluzione antifascista" alla crisi

La "rivoluzione antifascista" titina era stata concepita da Stalin, padrino del PCJ (sanguinosamente epurato da ogni elemento "trotzkista", cioè internazionalista) nel quadro della guerra contro l'asse Roma-Berlino-Tokyo, non diversamente dalla "resistenza" italiana, come merce di scambio tra le superpotenze USA-Inghilterra-URSS, ai fini di una risistemazione imperialistica che assegnasse all'URSS il controllo dell'attuale fascia Est. I proletari e contadini "resistenti" jugoslavi dovevano servire da merce di scambio, restando stabilito che la Jugoslavia sarebbe rimasta nel campo occidentale o in una qualche sorta di mezzadria tra Est ed Ovest. Invece, grazie alla lotta spinta all'estremo sacrificio delle masse popolari jugoslave, in assenza di una direzione "antifascista" borghese efficiente o in presenza di direzioni borghesi coinvolte, per i loro giochi nazionalistici particolari, nell'appoggio alla causa fascista (come nel resto della Croazia), i partigiani di Tito riuscirono, in barba ai piani Churchill-Stalin, ad assicurare la formazione di un paese unito e "socialista". Tanto unito, però, da rifiutarsi di accedere alle richieste successive di servaggio da parte dell'URSS, sino ad arrivare, nel '48, alla traumatica rottura con il Kominform, che sanzionava la condanna del "titofascismo" (nelle cui fila avevano militato fior fiore di "resistenti" picisti italiani). La nuova Jugoslavia, che (con l'approvazione di buona parte dei "comunisti" italiani), aveva accampato al culmine della sua "lotta di liberazione nazionale", pretese territoriali comprendenti Trieste e una fetta notevole del Friuli, diventava nel '48 oggetto delle recriminazioni nazional-comuniste del PCUS, del PCI (e, massimamente, del PCTLT vidaliano). Inizialmente la propaganda titina parlò non "da destra", ma "da sinistra", in nome del "vero" internazionalismo, dei "veri" interessi proletari, tanto da attirare l'attenzione dei trotzkisti, che arrivarono a proporre la designazione di Tito (massacratore di comunisti internazionalisti!) quale membro onorario della IV Internazionale e ad inviare in Jugoslavia squadre di volontari per la "costruzione del socialismo" (come oggi fanno con il Nicaragua sandinista, "trotzkista", forse, suo malgrado).

Più perspicui dei "trotzkisti", gli imperialisti occidentali compresero allora che si trattava di una grossa ed inattesa occasione: sbaraccate le truppe di Michailov (rappresentante della borghesia legittimata a Londra e Mosca), ecco che le truppe di Tito venivano inopinatamente in soccorso degli occidentali, offrendo su un piatto d'argento quanto precedentemente progettato contro Tito e contro le masse proletarie e contadine che, dietro le sue insegne, si erano eroicamente mobilitate contro gli occupanti nazifascisti. I capitali occidentali vennero allora in soccorso della "originale via nuova" al "socialismo" proclamata dai titoisti tra gli anatemi dei vecchi ruderi stalinisti alla Vidali (e ricordiamo, en passant, che la contesa jugoslava costò al proletario triestino non solo diatribe, ma lacerazioni e non pochi morti proletari negli opposti schieramenti antiproletari degli interessi MoscaOccidente via Jugoslavia). Come primo ringraziamento, Tito non fece mancare all'Occidente il regalo del sabotaggio della lotta post-resistenziale accesasi in Grecia, grazie alla quale questo paese fu definitivamente riconsegnato al controllo dell'imperialismo occidentale.

Cessata l'ondata "rivoluzionaria internazionalista", rimasta senza seguito nel proletariato occidentale e tanto più nell'Est, dato il controllo totalitario su di esso esercitato allora dallo stalinismo, il titoismo rientrò rapidamente nella cornice della costruzione del "socialisino nazionale", lasciando a bocca asciutta i poveri "trotzkisti" e le loro squadre di volontari. Sciolto dal vincolo stalinista, esso lanciò la formula dell’ "autogestione", che significava -nelle sue formulazioni teoriche - il controllo operaio e contadino sui processi produttivi, ovvero - letto alla marxista - l'ulteriore assoggettamento delle masse lavoratrici agli interessi dello sviluppo capitalista in qualità di "cointeressati", di "azionisti". Nelle terribili condizioni economiche del secondo dopoguerra, la via dell'autogestione valse come espediente ottimale per dar corso ad un’"accumulazione originaria", a sfoltire le campagne ed a mettere in piedi una larva di moderna industria. Una strada "naturale" rispetto al tipo di pianificazione forzata dal centro stalinista favorita (e qui siamo un po' meno nella "natura" spontanea delle cose) dall'affiusso di "aiuti" occidentali per aprire la Jugoslavia di Tito al mercato occidentale, di merci ed "ideali".

Gli anni di relativo sviluppo rapido, congiunti al ricordo della "lotta di liberazione" prima ed alla lotta contro Stalin poi, misero la sordina per un certo periodo ai problemi nazionali agitantisi sotto le ceneri. La sistemazione federativa del mosaico jugoslavo poteva funzionare ancora. Ma saranno proprio gli anni della "distensione" a reinvertire il corso. L'apertura tanto ad Est che ad Ovest, sia sul piano economico che su quello politico, avevano strappato -con lo sviluppo- la Jugoslavia dallo "stato di assedio" e sul piano politico poteva sembrare addirittura che essa potesse assumersi un ruolo internazionale di leadership dei "non allineati" (una vasta fascia di paesi di tutti i continenti stava sotto questa bandiera, di cui Tito era il massimo esponente, con velleità di garanzia della pacifica coesistenza e di un riequilibrio dei rapporti mondiali Nord-Sud). Senonché, col suo pur primordiale sviluppo di tipo capitalistico semi-statale e semi-liberista la Jugoslavia si era nel frattempo profondamente stratificata dal punto di vista economico-sociale, a livello tanto di classi che di "nazioni "-stato: accanto ad un crescente numero di miliardari venivano a contrapporsi le fasce di povertà, di disoccupati, di emigrati; accanto alle repubbliche affluenti ecco che si approfondiva il solco con quelle condannate al sottosviluppo. Con l'affacciarsi della crisi capitalistica mondiale tutte queste condizioni si aggravavano e, sul piano politico, andava per primo a farsi benedire il preteso ruolo del non-allineamento. La crisi allinea obbligatoriamente tutti: stati e classi sociali. Il "dopo-Tito" ha sperimentato a precipizio questo percorso, come abbiamo documentato sommariamente nel "Che fare" n. 4.

Movimento degli scioperi e lotta per il potere

Oggi, rispetto a quanto scrivevamo allora, c'è da registrare qualche novità in più, che perfettamente integra in rebus l'analisi di prospettiva che avevamo tracciata.

Nel n. 4 del ns. giornale potevamo già annunciare l'affiorare dell'aperta lotta di classe in Jugoslavia, con scioperi, ancora isolati, ma estremamente significativi, in settori centrali quali l'industria cantieristica di Capodistria. Sulla base di un'analisi dello stato di crisi jugoslavo nel quadro dello stato di crisi generale del capitalismo internazionale tracciavamo la prospettiva di un acutizzarsi dello scontro nel quale sarebbero confluiti tutti i motivi possibili ed immaginabili, interni (di classe e nazionali) ed esterni (cozzo degli opposti appetiti imperialistici sulla strategica zona jugoslava). E aggiungevamo: occorre che siano predisposte a tempo le nostre armi perché da questo scontro emerga vigoroso e netto il profilo della rivendicazione proletaria, in Jugoslavia come in tutti i paesi - a cominciare dalla nostra Italia - che vi sono implicati.

I fatti ci danno ragione. Gli scioperi soffocati e vilipesi allora sono oggi riesplosi in forma massiccia (l'Unità parla di centinaia di scioperi, in pressoché tutto il paese, ma soprattutto - e non è una sorpresa - nelle repubbliche più sviluppate, cioè più divaricate dal punto di vista di classe). Con quali caratteristiche? Del tutto "impure", come sempre (e come, necessariamente, di più ancora in una situazione complicata e "spuria" come quella jugoslava), ma con un inequivocabile segno positivo, in avanti.

Nell'ondata di scioperi si sommano aspetti contrastanti. Vediamo di sintetizzare. Innanzi tutto, accanto a rivendicazioni immediate prettamente operaie (salari e norme) esiste il peso di una loro deviazione sul piano nazionalistico (si può così rivendicare che la già relativamente favorita Slovenia non debba pagare per "dispendiosi" aiuti alle repubbliche sottosviluppate: nel che si realizza una provvisoria convergenza tra proletari e classi dirigenti nazionali). In secondo luogo, la rivendicazione economica può far da piedistallo ad una rivendicazione deviata di "potere" (un maggior controllo sulla "propria" azienda, in termini neo-consiliaristi - da "ordinovismo" in lingua slava, potremmo dire -, anche quindi con la possibilità di un intreccio di interessi tra direzioni aziendali e salariati). In terzo luogo, i canali attraverso cui la protesta cerca, all'immediato, di "istituzionalizzarsi" per pesare possono essere quelli di sindacati controllati o rigenerati dal basso, con al massimo uno sforzo di darsi forme di rappresentanza aziendale, ed anche qui può giocare il potere borghese centrale per deviare la protesta dal suo asse centrale, che è quello di una lotta per il potere politico oltreché economico-sociale (o meglio: per esserlo anche qui), cui necessitano soviet e partito indipendenti.

Non diamo affatto per scontato l'esito rivoluzionario "puro", tantomeno all'immediato, della lotta operaia in Jugoslavia: a tale esito sono chiamati a concorrere infiniti fattori, oggettivi e soggettivi, nazionali ed internazionali, di cui tuttora si sente, specie per quanto riguarda quelli soggettivi, un enorme ritardo. Ma siamo marxisticamente convinti che il fatto stesso di un reale movimento di classe rappresenta la migliore precondizione possibile perché a tanto si arrivi. Quando vaste masse proletarie si mettono in moto si trasformano, grazie a questo stesso moto, le stesse situazioni ideologiche e politiche, i campi opposti vanno materialmente a fissarsi e contrapporsi. Una rivoluzione, per dirla con Marx, è necessaria innanzitutto per rivoluzionare i suoi protagonisti, per togliere ad essi di dosso tutto il marciume della società presente, ed è quello che, dopo la Polonia, sta accadendo in Jugoslavia.

Possiamo essere ben convinti che la convergenza " nazionalistica" tra classi dirigenti e proletari conosce il suo limite quando un vasto settore proletario si muove, innalzando la bandiera dei suoi interessi immediati. Un proletariato attivo rappresenta una minaccia per le classi dirigenti, anche se l'ideologia immediata che ricopre queste rivendicazioni può essere quella nazionalistica. Così per la questione del "potere aziendale": a misura che esso si afferma, il problema tende a sfuggire dal quadro ristretto della contabilità aziendale e dalla pura e semplice redistribuzione dei profitti (se profitti ci sono) all'interno dei vigenti rapporti di classe. Così per quanto concerne il rapporto con sindacati ed istanze di partito "di base": l'estremista infantile potrà concludere allegramente che l’"appoggio" di questi organi borghesi rappresenta l'ennesima fregatura della lotta; il che sarebbe vero, se si facesse astrazione dal fatto che un tale "appoggio" dipende dall'emergere di una lotta non più contenibile nel quadro della normale amministrazione, dell'operazione "spegnincendio" di focolai isolati e che esso può preludere al suo contrario, cioè al riconoscimento attraverso l'esperienza di lotta che occorre andare più oltre, verso consigli operai e un vero e proprio partito di classe. Il "controllo" statale non è sempre lo stesso ed il modificarsi delle sue forme sta direttamente in relazione con la prospettiva del suo rovesciamento.

Certamente sull'evolvere della situazione in Jugoslavia peseranno i giochi internazionali dell'imperialismo. URSS, Europa e Stati Uniti giocheranno intera la loro parte qui e in senso diverso da quello manifestatosi di fronte al caso Polonia: la Jugoslavia rappresenta una terra di contesa e conquista di spazi; i giochi indiretti non sono possibili. In particolare, una deflagrazione jugoslava metterebbe molto più direttamente in contrasto USA ed Europa per il controllo in proprio di quest'area, ove si rendesse provvidenzialmente libera. (E’ da ricordare di sfuggita che il gen. Angioni, parlando recentemente delle funzioni del "pronto intervento" italiano ha ipotizzato un'applicazione in concerto nel caso di "un paese dell'Est che dovesse cadere in convulsioni", e l'Italia sarebbe certamente il primo stato a "dover fare il suo mestiere" tenendo conto non solo della prossimità geografica, ma della vasta rete di rapporti con Slovenia e Croazia in particolare e dell'esistenza di una comunità italiana in Jugoslavia, mentre da Est premerebbe inevitabilmente l'URSS, o appoggiando correnti ricentralizzatrici - classi o stati - o puntando su separatismi pronti ad aprirsi all'URSS: ricordiamo che portavoce degli ustascia croati all'estero si sono dichiarati disposti ad appoggiarsi anche all'URSS se questa gli garantisse la creazione di una Croazia indipendente). In ogni caso, gli opposti imperialismi verrebbero a toccarsi nell'Adriatico, con complicazioni internazionali ed interne incalcolabili qualora gli USA vi entrassero in prima persona (immaginiamoci come si modificherebbero i rapporti in Italia nel "movimento per la pace" o "anti-NATO" che sia).

Da tutto ciò emerge ancor più nettamente il compito preventivo che spetta ai comunisti di svolgere perché il movimento proletario in Jugoslavia vada avanti per la sua strada e possa saldarsi ad un ritrovato movimento proletario nelle metropoli europee, dell'Ovest e dell'Est. La Jugoslavia costituisce un punto di crisi destinato a sconvolgere profondamente gli equilibri attuali che non è lecito lasciare al domani ed ai suoi "spontanei" svolgimenti. Proprio per questo è necessario che la questione jugoslava sia messa all'attenzione dei militanti e dei compagni con mezzi acconci perché si predisponga un primo tentativo di collegamento con le forze di classe che nel vicino paese balcanico stanno emergendo e che hanno dietro di sé una lunga tradizione storica mai spenta: se nel vicino '68 questo contatto è avvenuto tra "antiautoritari" marcusiani, consiliar-ordinovisti, contropoteristi, oggi si profila netta la possibilità di un contatto tra marxisti rivoluzionari.

A questo dobbiamo mirare. A questo dobbiamo lavorare.

STATISTICA DEGLI SCIOPERI IN JUGOSLAVIA

Anno 

Numero 
Partecipanti

1979 

31 7014

1980 

50 4408

1981 

70 4019

1982 

65 4673

1983 

84 3919

1984 

84 7297

1985 

134 9740

1986 

82 5175

(I dati dell'86 si riferiscono ai primi sei mesi).

Questi dati statistici sono stati pubblicati sul quotidiano zagabrese Viesnik e su quello fiumano Panorama. Va da sé che, come si conviene ad ogni statistica borghese, si deve tener conto di errori di computo - in questo caso in difetto, e se ne comprendono bene le ragioni-