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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Il caos finanziario e le sue radici nell’economia reale

Sulla portata della crisi finanziaria apertasi questo autunno non c’è bisogno di spendere troppe parole. Sono gli stessi portavoce dell’ordine costituito a ricorrere a termini pesanti come il piombo: crisi del secolo, crisi storica, crisi di sistema, lo shock finanziario più forte dal 1929. Siamo d’accordo con loro. Non abbiamo nulla da aggiungere quanto a definizioni. L’accordo, però, finisce qui. Alle mere definizioni generali. Poiché non appena si passa a indicarne le cause di fondo, la divaricazione tra le spiegazioni ufficiali e la nostra è completa.

False spiegazioni

Da dove origina l’immenso caos che ha investito l’economia mondiale?

Esso viene ricondotto quasi sempre all’assenza di regole (per i movimenti del capitale finanziario) e alla scarsa moralità e trasparenza degli attori della "nuova finanza". Perfino un’autentica banda di bucanieri qual è quella di Libero si è lanciata in sermoncini edificanti del seguente tipo: "Questo capitalismo privo di norme e di etica è finito? Chissenefrega. Ne costruiremo uno migliore basato sulla produzione di cose ben fatte e non sull’aria fritta di finanzieri dediti ad acrobazie truffaldine" (18 settembre). Così Feltri. Identico refrain "a sinistra". Per Guido Rossi, uno dei guru del "capitalismo etico" cari al Partito democratico, quello che è andato in malora a/da Wall Street, "non è più capitalismo". Perché laddove "alla finanza è stata lasciata mano libera per agire, ed essa ha preso il sopravvento", lì "del capitalismo non c’è più traccia" (Limes, n. 5/2008, p. 48). E anche in una simile lode delle virtù del capitalismo "vero", la forza che ci salverà sono, va da sé, i capitalisti "produttivi". Una volta messi all’indice (si fa per dire…) gli avidi finanzieri, una volta fatta la tiratina d’orecchie di rito a chi non li ha controllati a dovere, ecco pronta e servita la via d’uscita: capitalismo, ancora capitalismo, il buon vecchio capitalismo "di un tempo". Quello che faceva e produceva "cose ben fatte". Niente patemi d’animo, dunque: per i G. Rossi e la patinata rivista democratica di geo-politica ci si può, ci si deve affidare fiduciosi ai capitalisti "produttivi". Né più né meno come per i Feltri e il fogliaccio della destra bottegaia e razzista.

Sono frottole. Frottole che si leggono anche sulla stampa più a sinistra, vedi il manifesto, e più a destra, vedi il megafono, foglio di agitazione di Forza nuova; o, con linguaggio un po’ sfumato, nel comunicato del G-20 di Washington del 15 novembre. Ad esse opponiamo quanto segue.

Primo. Non c’è mai stata, neppure nell’epoca del capitalismo "dei primordi", produzione di merci senza credito, credito senza banche, banche senza speculazione e usura, potenti prestatori di denaro senza la pretesa, e la forza, di interferire nelle attività produttive. Lo ricordiamo nel riquadro qui accanto, trascrivendo un graffiante passaggio, uno dei tanti, di Marx ne Il capitale. Ci si riferisce a fatti del 1844-’45! Un capitalismo "sanamente produttivo", senza finanza e senza speculazione non è mai esistito in passato (la prima grande bolla speculativa, "la febbre dei tulipani", è addirittura del 1636; la seconda, grandiosa, detta del Mississippi, è del 1719-1720; la terza, la "bolla dei Mari del Sud", è dell’anno seguente…). E non potrà esistere in futuro.

Anzi, punto secondo: appartiene alla fisiologia del capitalismo senile proprio la crescita "abnorme" e "incontrollata" del capitale finanziario, la sua dominanza sulle altre forme del capitale. Le borse, le banche, i mercati monetari, azionari, finanziari, e i relativi "giochi d’azzardo", hanno conquistato il posto di comando nell’economia, nella politica, nella sfera ideologica e in quella militare, per un processo di evoluzione "naturale" (e necessaria) del capitalismo da una miriade di capitali minori ad un numero ristretto di grandissimi capitali, di capitali "sociali" (di individui direttamente associati tra loro), di capitali finanziari. E per il "naturale", progressivo allargamento della sfera dei rapporti sociali capitalistici ad una scala mondiale sempre più compiuta. Da un secolo e passa tale processo sta fondendo in un tutt’uno mondializzazione, centralizzazione e finanziarizzazione del capitale sotto il segno del crescente potere del capitale finanziario (1). Né i Feltri, né i Rossi, né i Tremonti ci vengano a raccontare, perciò, che si tratta di una novità patologica di questi anni.

Terzo. Il capitale, in tutte le sue forme, conosce, fin da quando era in fasce, una sola etica: l’etica del profitto. L’etica dell’accumulazione crescente e illimitata di profitti. L’etica dell’arricchimento, della propria auto-valorizzazione con ogni mezzo. Sulla pelle e sul sangue del lavoro salariato. Non ha mai conosciuto l’etica del "produrre cose ben fatte" - a meno che non ce ne si potesse aspettare un ritorno monetario, produrre bene per vendere ancor meglio -. Tanto meno l’etica dell’astenersi dalle menzogne e dalle acrobazie truffaldine…

Con i gazzettieri ufficiali si può convenire su un solo dato di fatto molto banale: l’attuale disordine economico globale è scoppiato nei territori frenetici del capitale finanziario di ultima generazione. Dei subprime, dei derivati, degli Hedge Funds, dei Credit Default Swaps, della cartolarizzazione (geniale vendita al pubblico dei debiti contratti dalle banche), delle Obse (società fuori bilancio create nottetempo dalle banche per speculazioni di ogni genere), delle Abcp e di altre diavolerie indecifrabili per gli stessi addetti ai lavori. Constatato ciò, resta da spiegare l’essenziale, ovvero quali sono le cause profonde della crisi finanziaria. Prendersela con l’assenza di controlli e di trasparenza è depistare. Non perché tali controlli oggi invocati come il toccasana, vi fossero. Ma perché proprio le massime autorità "di controllo", le banche centrali, a iniziare dalla Federal Reserve dell’idolatrato Greenspan, hanno incoraggiato questa creazione senza freni di moneta privata e di capitale fittizio fin quasi alla soglia del crash. Altro che assenza di controlli (2)! E lo stesso può dirsi della trasparenza. Che è stata e sta a zero o sottozero non solo tra banche e clienti comuni (i classici polli da spennare, o ignudi da svestire), anche tra banche e banche, tra finanzieri e finanzieri. Ma lo è stata con il pieno assenso delle massime autorità monetarie e bancarie.

(1) Charles André Udry suggerisce di precisare: "Questa centralizzazione e concentrazione del capitale non impedisce affatto, nel contesto di quello che è il regno della proprietà privata, il decentramento strategico delle decisioni di investimento; questo anche in relazione ad una concorrenza volta ad accrescere il controllo dei mega-capitali. E così ci si trova a confronto con l’anarchia propria del capitalismo –perfettamente illustrata ogni giorno in questa crisi quando ogni analista dice: "non si sa dove stiamo andando"- con le sue ripercussioni mortifere sia sugli esseri umani che sull’ambiente".

(2) Forse è il caso di ricordare che uno degli atti giuridici più importanti di questa deregolamentazione, la abolizione del Glass-Steagall Act, la legge varata dopo il crack del ’29 che imponeva di distinguere le banche di investimento da quelle ordinarie (di deposito) per ridurre i rischi del sistema bancario, fu opera dell’amministrazione Clinton, e venne sostenuta con decisione proprio da alcuni degli attuali consiglieri economici (clintoniani) di Obama.

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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