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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Un coordinamento universale tra tutti i capitalisti o una guerra di tutti contro tutti?

Abbiamo posto volutamente la domanda in questo modo, ma è mal posta. Perché ciò che ci si deve aspettare, come lavoratori, è che i poteri capitalistici nazionali e le imprese si coordinino tra loro contro coloro di cui vogliono conciare la pelle, i proletari di tutte le razze e di tutti i colori, e (non: o) si facciano contemporaneamente una guerra spietata tra di loro. E viceversa: che anche nel vivo delle più accese guerre inter-capitalistiche c’è e ci sarà anche in futuro il massimo sforzo di intesa tra gli schiavizzatori del lavoro per strangolare la lotta di liberazione degli sfruttati.

Avendo detto già altrove delle ricette anti-proletarie messe in opera o in cantiere dai governi e dalla finanza, ci concentriamo qui sui rapporti tra i grandi stati e le grandi imprese. Notando subito che vi è stato più di un tentativo di coordinare le politiche anti-crisi a livello mondiale, ma che esso (se si eccettua l’obbligato calo generale dei tassi di interesse) non ha portato sinora ad accordi generali reali. Si notano già, piuttosto, diversi segnali di una guerra di concorrenza acuita di tutti contro tutti, anche se, ovviamente, non sarà in ordine sparso, ma specie gli stati più potenti, a cominciare dal superstato imperialista yankee, cercheranno di tessere intorno a sé opportune reti di alleanze.

Una nuova Bretton Woods?

Si erano accesi i riflettori sull’incontro del G-20 tenutosi a Washington il 15 novembre e si era detto: sarà una seconda Bretton Woods, o la premessa di una seconda Bretton Woods. Forse. Ma era evidentissimo anche ai ciechi che un miracolo del genere non poteva riuscire neanche a san Obama. Che si tenne, infatti, prudentemente alla larga dal convegno che in sei ore (6) e venti (20) interventi avrebbe dovuto "ridisegnare" il capitalismo mondiale. Mancavano due piccole cose, ha notato Rampini: l’ufficiale pagatore (a quel tempo gli Stati Uniti) e il paese-locomotiva della ripresa (il medesimo). Anzi proprio il padrone di casa e il n. 1 dei venti si presentava superindebitato e reduce da una caduta di quelle che ci rimetti l’osso del collo. Ne mancava una terza, e la ricordiamo noi: una Europa, una Russia, una Jugoslavia, vaste zone dell’Asia e dell’Africa settentrionale distrutte da ricostruire, la manna delle manne per il capitalismo a stelle e strisce e per il capitalismo tutto.

Dunque: nessuna Bretton Woods 2. Neppure per l’immediato futuro. Anche perché da anni sono stati formulati progetti di riforma generale del sistema finanziario mondiale ma non se ne è fatto nulla. Scrive ancora Rampini: "sulle ricette ci sono profondi dissensi di principio, fossati ideologici che neppure la gravità di questa crisi ha fatto superare. L’idea di creare una Organizzazione mondiale della finanza –con poteri analoghi a quelli che il WTO ha per il commercio- continua ad essere osteggiata da lobby che estendono i loro tentacoli da Wall Street ai paradisi fiscali off-shore. Portare sotto uno stringente controllo delle banche centrali gli hedge fund; costringere le banche ad inserire nei loro bilanci anche gli strumenti derivati: queste soluzioni si scontrano con fortissime resistenze soprattutto in America [non solo in America, se permetti!]. Obama darà forse un segnale di cambiamento se sceglierà un segretario al Tesoro che non abbia legami con Wall Street. Per il momento il summit creerà gruppi di studio, per prendere tempo senza decidere nulla di concreto. L’unica novità di oggi è che il G-20 prende il posto del G-8. È un riconoscimento dell’importanza delle potenze emergenti. Ma la Cina, l’India o il Brasile non hanno ancora il know how finanziario per essere gli ispiratori di modelli nuovi di regolazione. E sospettano che li stiamo cooptando nella governance globale per esigere da loro contributi generosi" (la Repubblica, 15 novembre). Molto ben detto. Abbiamo poi visto su chi è caduta la scelta di Obama per il Tesoro, un uomo della Federal Reserve e di Wall Street, e dunque possiamo girare pagina.

Alla pagina seguente c’è scritto: non più G-7, o G-8, da oggi si passa al G-20. Il che significa: nuovi attori capitalistici si sono aggiunti in questi trent’anni alle vecchie potenze imperialiste occidentali, e ora queste debbono, piaccia loro o no e sicuramente non gli piace, farci i conti.

Assalto all’Asia

Li facciamo con piacere, ha scritto qualche commentatore occidentale all’indomani del crack. Per fortuna non siamo più soli al mondo. Nel mercato mondiale ci sono finalmente altri attori, e saranno loro, questa volta, a tirarci fuori dai guai. Davvero? Ne dubitiamo assai, e cerchiamo di spiegare il perché.

La prima ragione è che nessuno di questi paesi ha, nell’economia mondiale, un peso lontanamente paragonabile a quello che avevano gli Stati Uniti al 1945 (oltre il 50% del pil mondiale), e in questi sessanta anni l’economia mondiale si è talmente sviluppata, nonostante tutto, che abbisognerebbe di un centro di comando ancor più potente degli stessi Stati Uniti per dare un "nuovo ordine", una nuova regia, anche militare (non dimentichiamolo), del processo di accumulazione. Questo potere oggi non c’è.

La seconda è che i paesi emergenti –la Cina in primissima fila- sono già nel mirino dei vecchi soci del club imperialista G-7.

Chi immagina un trapasso indolore dall’uno all’altro "club" è fuori dal mondo. La Russia è stata già colpita alle spalle col ritiro dei capitali britannici e statunitensi dalla borsa di Mosca, con la guerra in Ossezia, con la speculazione al ribasso sul prezzo del petrolio e altre minacce "diplomatiche". Il Brasile, la cui borsa ha tremato maledettamente, può essere coinvolto dal tracollo tutt’altro che lontano, sembra, di alcuni paesi sud-americani, nel quale è ben riconoscibile lo zampone dello zio Sam e dei suoi compradores locali. E quanto alla Cina, eh, quanto alla Cina: il Fmi ha pensato bene di ingiungerle, o quasi, di foraggiare a fondo perduto il Fmi per permettergli di venire incontro ai paesi amici degli Usa a rischio bancarotta. Quasi tutti le chiedono di rivalutare la sua moneta, cioè di abbassare il proprio grado di competitività nel mondo. L’avvento di Obama, con le sue inclinazioni protezioniste, non promette altro che tensioni sul fronte dei rapporti commerciali con Washington. Tra i suoi ultimi atti, la defunta amministrazione Bush si è premurata di stringere il più possibile la cooperazione militare con l’India in evidente chiave (tale almeno è la speranza) anti-cinese. Non basta. La pia coppia Sarkozy-Bruni in cerca sempre di luci della ribalta s’è data da fare per provocare Pechino con i salamelecchi a quella bella lana del Dalai Lama. Per il ventesimo anniversario dei fatti della piazza Tien an Men sembra si stiano preparando in tutto l’Occidente grandi celebrazioni dei "diritti umani", dei diritti storici dell’imperialismo a usare a propri scopi gli avvenimenti cinesi per spolpare quanta più carne può dalle masse lavoratrici cinesi. E, a coronamento del tutto, la irrevocabile decisione di spostare alle porte della Cina (in Afghanistan, si dice, ma quella parola si può leggere diversamente) il massimo contingente possibile delle truppe di stanza in Iraq. Non è ancora chiaro quante delle 100.000 imprese che hanno chiuso i battenti in pochi mesi nel Guandong siano a capitale estero, ma un pensierino ci viene… In ogni caso è assai difficile, per dir così, che la Cina "ci" salvi dall’uragano. Più probabile, invece, che per sua stessa natura, per il suo movimento oggettivo e per le decisioni delle grandi potenze occidentali, l’uragano che ha preso corpo nei cieli degli Stati arrivi fino a ingrigire i cieli della Cina. E dell’India, verso la quale la "amicizia" occidentale è disinteressata come quella che le portarono per secoli la Compagnia delle Indie e la corona britannica (avremo modo di parlarne in uno dei prossimi numeri).

I dirigenti cinesi si mostrano ben consapevoli delle intenzioni ben poco amichevoli dei loro partner commerciali occidentali. Ed infatti hanno varato con tempestività un mega-piano di investimenti pubblici (586 miliardi di dollari in un biennio) che è pari ad addirittura il 16% del pil. Con non minore tempestività hanno deciso di non investire più, tramite il fondo sovrano China Investment Corporation controllato dal governo, nelle istituzioni finanziarie occidentali. E di costituire, invece, insieme al Giappone, alla Corea e ad altri stati asiatici un fondo asiatico di sviluppo da 80 miliardi di dollari, proprio quel fondo che Wall Street "vietò" alla Cina di costituite dieci anni fa, in modo da stringere ulteriormente i legami con l’Asia tutta. È improbabile che, d’improvviso, la "simbiosi" tra economia cinese produttrice di manufatti a basso costo e detentrice di oltre 500 miliardi di buoni del tesoro statunitensi ed economia statunitense che abbisogna sia di finanziamenti esteri che di merci a basso costo si spezzi. Ma inesorabile è la crescita delle tensioni.

Giunti a questo livello della mondializzazione del capitalismo, non oggi, bensì in prospettiva, la Cina capitalista resta, come afferma un documento del Pentagono del 2005, il solo possibile competitore strategico degli Stati Uniti, e per tale, sempre più, andrà trattato. Nessun ulteriore, pur minimo, vantaggio potrà essere consentito ad un paese che fin troppo spazio, per i gusti occidentali, ha conquistato nel mondo. Ma la questione in ballo non è solo la Cina, è l’intera Asia. È lì che si concentra ormai la metà della forza-lavoro mondiale da mettere sotto torchio a sangue. È verso l’Asia che l’Occidente in crisi deve assolutamente marciare se vuole riprendere quota dopo questa bruttissima caduta.

Inizia un nuovo assalto all’Asia, ai proletari asiatici, per la spartizione della immensa ricchezza da loro prodotta. Su questo sarà pressoché impossibile l’accordo tra Pechino e Washington. Da questa grande crisi comincia una rotta di collisione tra le due capitali, tra i due paesi. Che segnerà i prossimi decenni. Con chi stiamo? Con i lavoratori cinesi e quelli statunitensi, contro gli imperialisti di Washington e i buro-capitalisti di Pechino!

                              

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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