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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Le misure anti-crisi degli stati occidentali hanno tutte un preciso bersaglio: i lavoratori.

I governi occidentali e i loro consiglieri sono arrivati alla crisi senza avere la piena percezione, crediamo, che era in arrivo uno tsunami di questa potenza. Se scoprono, giorno dopo giorno, con sorpresa, quanto esso sia devastante, non è solo per recita, per abituare omeopaticamente il proprio "pubblico" al peggio. È perché realmente non mettevano in conto che fosse possibile. Nondimeno, la loro reazione è stata piuttosto pronta. Si è concretizzata anzitutto in "fortissime, coerenti misure anticicliche" in campo monetario, e nel tentativo di coordinarle alla scala mondiale. Poiché però non è stata la scarsità di moneta circolante e di credito a creare questo caos, semmai il contrario, e non sarà la politica monetaria espansiva (che tra l’altro non potrà andare avanti a tempo indefinito) a sanare i mali dell’economia mondiale, è il caso di prestare maggiore attenzione ad altro.

Stato, capitalista collettivo, arma letale dei capitalisti

Anzitutto agli interventi varati dagli stati per salvare e, nello stesso tempo, "controllare" il sistema bancario e la finanza. Separiamo la fuffa dalla sostanza vera. È fuffa la chiacchiera tremontiana sul ritorno all’etica e il mandare in galera i banchieri bancarottieri (anche se negli Usa a due-tre di loro è capitato). Non lo è affatto, invece, la necessità dello stato, in quanto capitalista collettivo, di porre in essere misure tanto di salvataggio quanto di regolazione del mondo della finanza. Intorno al rapporto tra questi due compiti dello stato, entrambi essenziali in una catastrofe finanziaria e produttiva quale l’attuale, si è svolto e si sta svolgendo un braccio di ferro tra ipotesi differenti. Ben esemplificato da quanto è accaduto negli Stati Uniti.

Il primitivo "piano Paulson" incarnava come meglio non si potrebbe l’ipotesi di uno stato posto in modo incondizionato a servizio del capitale finanziario. Prevedeva infatti che il governo acquistasse dalle banche i "derivati tossici" senza porre ad esse la minima condizione, neppure la sostituzione dei managers implicati nella creazione e nello spaccio dei titoli-spazzatura. Un vero e proprio regalo da 700 miliardi di dollari ai suoi "amiconi di Wall Street", che preludeva ad ulteriori maggiori regali perché si dà per certo che i buchi di bilancio delle massime istituzioni finanziarie statunitensi siano di molto superiori a tale cifra, come del resto ha provato il salvataggio di Citigroup, costato al bilancio statunitense oltre 300 miliardi di dollari. Il piano non è passato per la sua impopolarità (è un momento in cui gli squali di borsa non godono il favore del pubblico…), ed è stato sostituito da una soluzione meno sbilanciata: l’ingresso dello stato nel capitale di alcune grandi banche (Bank of America, Merril Lynch, Citigroup, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Wells Fargo, JP Morgan Chase, State Street, Mellon). Non si tratta né di nazionalizzazione, né di seminazionalizzazione poiché l’acquisto di pacchetti azionari da parte dello stato non è di tale entità da fargli prendere in mano questi istituti finanziari, e perché le azioni acquistate (temporaneamente) dal Tesoro non hanno diritto di voto. Nondimeno il recalcitrante Paulson ha dovuto mettere due condizioni sgradite al management (e da vendere al pubblico): niente aumento dei dividendi nei prossimi anni, vincoli alle paghe e alle liquidazioni dei dirigenti (che non finiranno comunque sotto i ponti).

Anche in Europa la crisi globale ha chiamato in causa governi e stati, incoronati per acclamazione come i soli enti di "fiducia" dopo decenni di loro vera e propria demonizzazione – attenti, però, non in quanto capitalisti collettivi, bensì in quanto welfare state, cioè in quanto restituiscono ai salariati, sotto forma di salario sociale o indiretto, una quota della ricchezza prodotta dagli stessi. La fiducia loro accordata riguarda la loro capacità di proteggere il sistema bancario e le imprese dal tracollo planetario. Come? Tre "modelli" di intervento si sono confrontati e scontrati tra loro. Il primo, detto svedese, varato dalla socialdemocrazia scandinava negli anni ’90, attribuisce ai "contribuenti", cioè al potere statale, un diritto di proprietà sulle banche oggetto di salvataggio. Gordon Brown ne ha adottato una versione all’inglese, dopo avere integralmente nazionalizzato la Northern Rock. Il secondo, detto Sarkozy dal nome del finto spadaccino anti-squali che siede all’Eliseo, prevede che le banche possano finanziarsi vendendo proprie obbligazioni (non azioni) ad una agenzia pubblica creata ad hoc con fondi statali: si tratta, evidentemente, di un intervento assai meno "invasivo" rispetto al governo e all’azionariato degli istituti di credito. Tremonti aveva in mente, sembra, un terzo modello, che gli è stato stoppato dal suo "datore di lavoro" perché il Cavaliere lo giudicava troppo dirigista, troppo sbilanciato a favore dello stato capitalista collettivo. Esso prevedeva che il Tesoro acquisisse pacchetti di azioni privilegiate degli istituti sovvenzionati e potesse procedere alla sostituzione del loro management, blindando questo nuovo, grande potere del Tesoro sul sistema bancario con la trasformazione della Cassa depositi e prestiti in una super-holding immobiliare e finanziaria dal vertiginoso patrimonio di partenza di 1.600 miliardi di euro.

Poiché, a stare ad Obama e a molti commentatori, il peggio della crisi, forse della stessa crisi della finanza, deve ancora venire, è più che probabile che il dibattito e lo scontro all’interno della classe sfruttatrice intorno al ruolo che deve avere lo stato nel porre regole ai mercati finanziari torni ad accendersi. Finora di misure effettivamente radicali contro i poteri forti della finanza non se ne sono viste. In Italia, ad esempio, si è avuta una certa esitazione perfino a vietare le vendite allo scoperto, e cioè a far soldi con le vendite di titoli che non si posseggono (pensate se a farlo fosse un comune mortale…). Di toccare i paradisi fiscali non se ne è neppure parlato. Né di vietare per il futuro i derivati ed altre diavolerie del genere. Anzi da qualche parte si è sentito perfino proporre di aprire le porte al "hegde fund low cost".

Insomma la grande promessa dei giorni più drammatici del crack: "basta con la finanza, torniamo alla produzione", non solo non è stata onorata dai "pubblici" poteri, ma non può assolutamente esserlo. Non può darsi capitalismo globalizzato, non può darsi neppure capitalismo senza finanza, senza credito, senza moneta pubblica e privata. Lo sanno bene pure i governanti "comunisti" della Cina che hanno sguinzagliato i loro talent scout negli States alla ricerca di maghi della finanza disoccupati da assumere a prezzi di saldo (auguri vivissimi!). Non si può affatto escludere, però, che dinanzi ad un ulteriore approfondimento della crisi (per il cedimento dei fondi pensione statunitensi, ad esempio, o del sistema delle carte di credito) e, soprattutto, delle sue devastanti conseguenze sui lavoratori, vengano assunte misure di "regolazione", di "razionalizzazione" molto più drastiche. Anzi, dobbiamo prevederlo. E prevedere il rancido condimento di demagogia "anti-capitalista" che le accompagnerà. In tempi di crisi storiche, quando si tratta di salvare la pellaccia del sistema, i più lucidi

                                                                   

strateghi del capitale mettono in conto di dover mandare in rovina singoli capitalisti, e anche di dover porre a tutti i singoli capitalisti regole e controlli sgraditi che mettano un freno al loro anarchico movimento, che subordinino, proprio così, gli interessi dei singoli pescecani a quello della collettività dei pescecani. Regole che rispondano ad un "piano" di "rigenerazione" e di riorganizzazione del sistema dell’economia di mercato in un’ottica di "razionalità" dell’insieme. E ne rilancino, se possibile, la legittimità cercando di "integrare" i lavoratori nei lacci di una nuova (nuova?) (1) "economia sociale di mercato".

Questo ritorno in primo piano dell’intervento dello stato in economia non promette assolutamente nulla di buono per la classe lavoratrice. Tutto al contrario è la premessa necessaria per poter mettere in atto la cura da cavallo che i capitalisti hanno in mente per traguardare questa loro terribile crisi. La si può condensare in tre comandamenti:

1) Statizzare, cioè socializzare, le perdite.

Da dove pensate, infatti, che verranno prelevati i 700 miliardi di dollari del piano Paulson, i 1.500 miliardi di dollari stimati da Obama, i 1.800 miliardi di euro degli interventi statali europei? Da quali tasche dovranno uscire i "mezzi illimitati" messi a disposizione delle imprese e delle banche dal decreto anti-crisi del governo Berlusconi? Si tratta di interventi di spesa stratosferici, i massimi della storia del capitalismo. Per gli Stati Uniti si parla, come minimo, di interventi pari al 16% del pil; il primo stanziamento per l’Italia è stato pari al 3% del pil, ma se il Tesoro si è sentito in dovere di smentire che l’Italia possa fare la fine dell’Argentina, e se è vero, ed è vero, che su un possibile default (auto-dichiarazione di insolvenza) dell’Italia sono stati fatti ingentissimi investimenti, potete dare per certo che questa cifra lieviterà. Si tratta, in breve, di miliardi di ore di lavoro non pagato che dovranno essere rapinate ai lavoratori per ripianare i buchi di bilancio delle società di borsa, banche, imprese, di quella "avida finanza" universalmente biasimata, e altrettanto universalmente protetta e foraggiata. Nessuno penserà che si possa semplicemente stampare moneta (2) a go-go senza nessun corrispettivo reale di produzione, vero? Questo, però, è solo il primo, sebbene durissimo (per chi dovrà pagarlo), passo di tamponamento. La medicina delle medicine è un’altra:

2) Torchiare a sangue i lavoratori, e scagliarli gli uni contro gli altri.

Infatti, se la crisi finanziaria è stata generata, in ultima analisi, dalla crisi produttiva; e se questa è stata determinata, in ultima analisi, dalla scarsità dei profitti che i capitalisti sono riusciti ad estrarre dal lavoro dei proletari ("un oceano di profitti, ma non è bastato": incredibile, ma vero, questo è il capitale), è chiaro dove i poteri capitalistici privati e "pubblici" dovranno picchiare selvaggiamente. Sentite la direttiva di un fondo statunitense di investimento, il Sequoia Capital, ai suoi clienti (per lo più imprese): "tagliate i costi, spendete ogni dollaro come se fosse l’ultimo a vostra disposizione". Più che un consiglio, è un editto: spillate energia, succhiate la vita dai vostri salariati fino all’ultima goccia, come se proprio e solo da quella ultima goccia dipendesse il vostro successo nel mondo.

Il turbo-capitalismo globalizzato aveva calpestato milioni e milioni di giovani (e meno giovani) lavoratori in nome del neo-liberismo, mondializzando la precarietà. Il risanamento e il rilancio del capitalismo all’insegna del nuovo protagonismo dello stato farà di peggio: licenziamenti di massa per cominciare. Vedi Citigroup: per avere gli aiuti di stato, 50.000 licenziamenti, tanto per gradire. In Italia, dove a stare al cavaliere nero nessuno avrebbe perso neppure un euro (forse si riferiva beffardamente ai suoi pari), siamo già a 400.000 cassintegrati in più, e da gennaio tutti si attendono che grandini pesante. Ai licenziamenti di massa si affiancherà l’assalto "definitivo" al welfare, che è –come spieghiamo in un altro articolo- una delle più importanti poste in gioco nella vicenda di General Motors, Ford e Chrysler. È anche dall’abbattimento violento delle spese sociali, incluse le più essenziali e irrinunciabili (vedi decreto Gelmini), che dovranno venir fuori i fondi di sostegno a banche e imprese, se no da dove? Attraverso queste due leve e una serie di provvedimenti ad hoc (illustriamo a pag. quelli relativi all’Italia) gli "avidi finanzieri" (perfettamente in sella, in quanto "potenza sociale") e i loro soci in affari dei vari governi democratici puntano alla più completa de-regolamentazione del mercato del lavoro e della prestazione di lavoro. Per riprendersi debbono intensificare lo sfruttamento del lavoro, sono "dannati" a questo. E non indietreggeranno dinanzi a nulla per ottenere lo scopo: del resto, all’Ortomercato di Milano non si lavora per 2,5 euro l’ora? Il balzo in avanti dell’accumulazione di capitale momentaneamente in panne può avvenire solo con un epocale balzo all’indietro della condizione degli operai e dei salariati.

Per conseguirlo la tattica superconsolidata dei nostri nemici di classe è quella di scagliare i proletari gli uni contro gli altri, i residui "stabili" contro la marea dei precari e questa contro quelli, i precari contro gli iper-precari disoccupati e viceversa, gli autoctoni contro gli immigrati, gli immigrati "in regola" contro gli "irregolari", i dipendenti privati contro quelli pubblici e viceversa, e via così "all’infinito" affinché la guerra di sopravvivenza e di accaparramento tra le imprese si trasformi in una guerra fratricida tra proletari. Ma nulla di tutto ciò potrebbe, potrà avvenire senza i più acuti conflitti sociali, senza la riaccensione degli antagonismi di classe che ora sembrano sopiti. Ed ecco quindi l’asso nella manica, o terzo comandamento:

3) Rafforzare lo stato-poliziotto.

È almeno dagli anni ’90 che in tutto l’Occidente si collaudano misure coercitive e repressive di nuovo conio: dal Patriot Act statunitense alle analoghe misure "antiterrorismo" in Inghilterra (con la schedatura del dna di 25.000 giovani incensurati), dalle misure anti-immigrati del "socialista" Zapatero così caro ai "comunisti" de il manifesto, fino alle misure contro i giovani delle banlieues prese da Sarkozy per dare corpo al suo proclama "Nous raménerons l’ordre et la tranquillité". E l’Italia non è certo da meno (v. scheda), anzi si presenta, come ci ha insegnato la storia, come uno dei laboratori privilegiati di sperimentazione.

La tendenza è generale: se negli anni ’80 e ’90 si guardava agli Usa della "tolleranza zero" con una certa qual aria di superiorità da "Europa dei diritti" verso il partner un po’ troppo manesco, ora la filosofia e la prassi della "tolleranza zero" dilaga ovunque. Contro le figure sociali marginali, contro gli immigrati, per ora. Ma nessuno si illuda. Il bersaglio grosso della "tolleranza zero" è il conflitto di classe, la lotta della classe lavoratrice. E gli anni ’90 risulteranno essere stati solo un decennio di allenamento.

Prendiamone nota a dovere.

1) La necessità di "organizzare" attraverso l’intervento dello stato, e di "regolare" con un pizzico di "socialità", le contraddizioni del capitalismo fu espressa per la prima volta nel quarto finale dell’ottocento dal cancelliere tedesco Bismarck e da alcuni esponenti della borghesia francese, guarda caso le due nazioni europee che ebbero necessità, per prime, di fare i conti con un proletariato particolarmente agguerrito e organizzato. Anche la locuzione "economia sociale di mercato" con cui si va pavoneggiando Tremonti è vecchia di almeno cinquanta anni, appartiene al cancelliere tedesco Erhard.

2) La moneta, infatti, è in ogni caso lavoro rappreso, cristallizzato.     

                                                         

 

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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