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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Con Putin&C. la Russia capitalista si è rialzata in piedi.

Riuscirà l’Occidente a farla inginocchiare?

Un episodio in sé limitato come la guerra in Georgia è stato il rivelatore dei profondi mutamenti in atto nelle relazioni internazionali tra gli stati capitalistici e tra il capitale e il lavoro salariato. Essa ha mostrato che tra gli ingredienti della crisi del "progetto neo-cons" vi è stato il rilancio del capitalismo russo.

I capitalisti occidentali sono impegnati a azzopparlo e, su tale base, a inserire la Russia, una Russia ridotta a più miti pretese, entro le maglie dell’alleanza euro-atlantica in funzione anti-islamica e anti-cinese. Il governo Berlusconi tenta di fare la sua parte, con la consumata arte doppio e triplo-giochista da sempre caratteristica dei valzer internazionali della borghesia italiana.

I lavoratori occidentali hanno interesse ad opporsi a tale indirizzo politico, in ogni sua sfumatura. Per sostenere Putin in funzione anti-Usa e anti-plutocratica, come indicano alcune voci dell’estrema sinistra europea? No. Bensì per puntare, come lavoratori, sul proprio "cavallo" in pista in Russia: i lavoratori della Russia. Nessuno ne parla. Eppure sono i protagonisti "silenziosi" della rinascita della potenza capitalistica russa. Capire dove sono e attraverso quale lavoro politico si può stabilire un collegamento con essi è il fine dell’articolo che segue.

La Russia alle prese con gli artigli dell’imperialismo

Quando nel 1991 l’Urss crolla, i capitalisti occidentali credono arrivato il momento per realizzare un loro sogno: mettere le mani sulle immense risorse minerarie e agricole dell’Unione Sovietica e inglobare a salari stracciati nella propria macchina di sfruttamento le decine di milioni di proletari qualificati dell’ex-Urss (80 milioni di operai, il 25% di quelli mondiali di quegli anni). La terapia shock varata agli inizi del 1992 dal governo Gaidar-Eltsin (1) sotto il controllo del rappresentante del capitale finanziario occidentale, il Fmi, sembra il primo atto di una marcia trionfale scontata.

Non sarà così.

Già nel corso del 1992 i piani del Fmi intoppano in una serie di "ostacoli" sia da parte della tecnocrazia alla testa delle imprese russe che da parte dei lavoratori. Il braccio di ferro va avanti, con alterne vicende, fino alla fine degli anni novanta, quando l’imperialismo è costretto a mollare la presa su alcuni asset fondamentali e quando inizia, con il passaggio da Eltsin a Putin, il rilancio della potenza capitalistica russa.

Le ragioni di questo rilancio sono varie. Per comprenderle e delineare le prospettive prevedibili, non si può evitare di tornare indietro, almeno a ciò che era l’Urss alla fine degli anni ottanta e alle cause del crollo del cosiddetto "socialismo reale".

La rivoluzione borghese operata dallo stalinismo

Alla fine degli anni ottanta la Russia è il nocciolo di uno stato, l’Unione Sovietica, che ha realizzato entro i suoi confini un ciclo industriale completo su basi capitalistiche.(2) Tale ciclo è integrato dalle relazioni economiche stabilite con i membri del Comecon (3) e con alcuni paesi del Sud del mondo. Rispetto al grado di sviluppo dei tempi dello zar, l’immenso territorio ha conosciuto una gigantesca trasformazione sociale. Essa si è avvalsa delle cospicue risorse naturali racchiuse entro i confini della Russia e dell’ex-Urss. Di per sé stesse, però, tali ricchezze non garantivano nulla: il destino riservato spontaneamente all’impero zarista dalle relazioni economiche internazionali dell’epoca imperialista era quello di una colonizzazione più o meno formale, quello -nel migliore dei casi- dello "sviluppo del sottosviluppo" capitalistico ben noto in America Latina. Il territorio compreso nell’impero zarista riuscì a sfuggire a questo destino solo ed esclusivamente per merito del proletariato, il quale, con la rivoluzione dell’Ottobre 1917, tra l’altro, sottrasse il paese al controllo finanziario e militare della Francia, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.

Certo, negli anni successivi la rivoluzione proletaria vittoriosa a Mosca e Pietrogrado non riuscì a dilagare in Germania, nel resto dell’Europa Occidentale e nell’Oriente contadino. L’imperialismo arginò la marea rossa e la Russia rivoluzionaria, economicamente arretrata, si trovò isolata e circondata. Ciò favorì l’avvio di una progressiva degenerazione del partito e dello stato russo, nonché della stessa Internazionale Comunista. La prospettiva della rivoluzione internazionale venne abbandonata e soppiantata dalla teoria della costruzione del "socialismo in un solo paese". Sotto questo vessillo lo stalinismo pugnalò la rivoluzione socialista internazionale, ma al contempo avviò un processo di industrializzazione capitalistica svincolato (4) dai centri del potere capitalistico mondiale.

Il risultato fu l’eliminazione completa dei rapporti sociali pre-capitalistici nell’immenso territorio dell’ex-Urss, la formazione di un mercato nazionale, la creazione di un ciclo industriale completo, la costituzione di una moderna, per quanto arretrata, società capitalistica. Alla base di tale trasformazione rivoluzionaria vi fu l’accentramento forzato nelle città e nelle fabbriche, sotto la guida dello stato, di gigantesche masse di contadini e la loro trasformazione in proletari. Il proletariato passò da meno di 2 milioni nel 1923 a 24 milioni nel 1940 a 61 milioni nel 1982. Il suo lavoro (a bassa intensità) permise la costruzione delle miniere, delle industrie, delle infrastrutture, delle città che proliferarono sul suolo dell’Unione Sovietica. Fu la fonte del plusvalore che, reinvestito, consentì l’incremento della produzione industriale a ritmi "cinesi".

Il proletariato dell’ex-Urss ha sostenuto questo processo, retrocedendo dalla sua missione storica, in cambio della conquista di tutele materiali che segnarono un netto progresso sociale rispetto alla condizione (proletaria o contadina) precedente: la sicurezza dell’occupazione, una giornata lavorativa limitata alle otto ore e meno intensa di quella dei proletari occidentali, una relativa copertura welfarista e una ultra-limitata ma non assente possibilità di ascesa sociale. Fu la versione "socialista reale" e un anello della corporativizzazione-statizzazione del proletariato internazionale avvenuta nel corso del XX secolo.

Dalla riproduzione estensiva a quella intensiva

Negli anni ottanta del XX secolo questo modello capitalistico (anello del capitalismo mondiale) era giunto al limite delle sue possibilità di sviluppo. A tarpargli le ali era, in ultima istanza, l’insufficiente crescita della massa del plusvalore, a sua volta dipendente dall’insufficiente crescita sia della sorgente di esso, il numero dei proletari, che soprattutto del grado di sfruttamento a cui i lavoratori dell’Urss erano sottoposti.(5) La soluzione (capitalista) del problema poteva venire solo da un poderoso aumento dello sfruttamento dei lavoratori. Da realizzare, come da manuale (marxista), con l’introduzione di nuovi macchinari produttivi e le conseguenze da essi rese possibili: l’aumento della produttività del lavoro, la riduzione della quota di lavoratori occupati per unità di capitale investito, la corrispondente formazione di un esercito industriale di riserva con cui ricattare i lavoratori occupati per imporre loro l’aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro e per tenerne basse le pretese sulla ricchezza liberata dall’aumento della produttività. Un anello di questa trasformazione era costituito dall’ammodernamento dell’agricoltura, incapace di produrre gli alimenti di cui la popolazione sovietica aveva bisogno (pur in presenza di un territorio coltivabile di prima grandezza) e responsabile dell’impiego nell’attività agricola di una percentuale troppo grande, rispetto a quella dei paesi capitalisti avanzati, della popolazione lavoratrice, da riversare invece in gran parte nel costituendo esercito industriale di riserva.

Nel compiere questo salto, il capitale dell’Unione Sovietica si trovava di fronte alcuni ostacoli. Per dotarsi degli apparati produttivi più avanzati, doveva acquistarli da coloro che ne detenevano monopolisticamente la proprietà: i paesi occidentali. Come pagare tali apparati produttivi senza far diventare la loro importazione veicolo di quella sottomissione alle potenze occidentali a cui si era sfuggiti per decenni? L’Unione Sovietica poteva contare sulle entrate ricavate dall’esportazione di alcune materie prime. Ma tali entrate, da sole, non garantivano e non garantiscono dal rischio della colonizzazione finanziaria, come testimonia la storia di tanti paesi del Sud del mondo esportatori di materie prime.

Il problema avrebbe potuto essere affrontato con minori difficoltà, se l’Unione Sovietica avesse avuto a disposizione capitali liquidi tratti dal saccheggio dei paesi compresi nella sua zona di influenza. Non si poteva certo parlare di cooperazione socialista per le relazioni tra l’Urss e i paesi del Comecom, Cuba, la Siria, ecc. Ma non eravamo neanche al rapporto esistente, tanto per dire, tra gli Usa e la Cuba di Batista. Più che nell’estrazione dei super-profitti, il vantaggio fondamentale tratto da Mosca, anche al prezzo di perdite economiche immediate, dalla rete di relazioni stabilite con i paesi alleati consisteva nella barriera così eretta contro l’invadenza dell’imperialismo. La trasformazione che l’Urss aveva l’esigenza di compiere, richiedeva, quindi, di scompaginare, oltre agli equilibri interni, anche la "solidarietà internazionalistica": essa andava trasformata in rapporto neo-coloniale, anche per attutire, con le risorse così drenate, il conflitto di classe all’interno del paese.

Gorbaciov espresse il tentativo di guidare questo passaggio senza far deragliare il treno per effetto delle contraddizioni di classe interne all’Urss e senza far cadere il paese nella dipendenza dall’imperialismo. Tale tentativo fallì perché non si svolse nel vuoto pneumatico ma sotto la pressione dell’imperialismo, a sua volta alle prese con l’esaurimento del ciclo di sviluppo seguito alla seconda guerra mondiale e con la forsennata ricerca di extra-profitti attraverso lo sfondamento ad Est e a Sud.

La marcia trionfale dell’Occidente segna il passo.

Con la terapia-shock Eltsin-Gaidar-Fmi, esempio da manuale della "liberazione" portata dall’imperialismo ai paesi capitalisti meno avanzati e ai loro lavoratori, l’Occidente vince in Russia una prima mano. Ma non fa "banco". Già a partire dalla primavera del 1992, contro la terapia shock monta la protesta della gente comune e l’opposizione di un settore della nomenclatura (avente il suo punto di forza nel Soviet Supremo e nella Banca Centrale). I lavoratori, in particolare, pur continuando ad essere favorevoli alla riforma in senso occidentalizzante del loro paese, sono contrari alla liberalizzazione dei prezzi e alla selvaggia privatizzazione delle imprese. Essi chiedono, invece, l’adeguamento dei salari ai nuovi prezzi al grido di "Market prices, market salary". La mobilitazione ha l’effetto di far riaprire i cordoni della borsa alla Banca Centrale per immettere liquidità nelle casse delle imprese e dei servizi sociali.

La situazione per l’imperialismo non migliora in modo decisivo con il varo della prima ondata di privatizzazioni (6) e con il cosiddetto "golpe bianco" del 1993, nel quale Eltsin si libera dell’opposizione parlamentare, vara (tra gli applausi dei suoi protettori occidentali) una riforma istituzionale di stampo presidenzialista (quella ancora in vigore) e normalizza il sindacato ufficiale che, all’inizio del 1992, lo aveva sostenuto e che poi era passato all’organizzazione delle mobilitazioni dei lavoratori. Ad ostruire la strada agli avvoltoi imperialisti sono due ceppi.

Da un lato, il capitale occidentale non riesce ad imporre la chiusura o il drastico ridimensionamento delle imprese russe e la conseguente formazione di una vasta disoccupazione di massa. Uno studio della Luiss di Roma scrive che "la rapida de-statalizzazione non è stata una condizione sufficiente per una crescita sana e immediata [cioè funzionale all’accumulazione dei pescecani occidentali sulla pelle dei lavoratori della Russia, n.] per un concorso di fattori, tra cui la difesa dell’occupazione imposta dalle autorità regionali a fini di stabilità sociale (il calo dell’occupazione fu pari solo ["solo"!!] a un quinto rispetto a quello del pil) e le sovvenzioni indirettamente concesse attraverso il mancato pagamento di imposte e la concessione di tariffe energetiche agevolate" (7). Dall’altro lato, i pezzi fondamentali dell’apparato industriale passano nelle mani di quadri e di dirigenti dell’apparato statale e industriale russo oppure rimangono in mano allo stato, e sia nell’uno che nell’altro caso sono dirette da personaggi che intendono farne imprese competitive sul mercato mondiale e non vittime sacrificali da offrire in pasto ai "benefattori" occidentali. Per il momento, essi realizzano il miglioramento della produttività attraverso l’aumento dell’intensità della prestazione lavorativa piuttosto che attraverso la modernizzazione del macchinario, ma è un passo in avanti. A rappresentare gli interessi di questo settore del management delle imprese russe vi è il nuovo primo ministro Cernomyrdim, direttore di Gazprom, e l’associazione degli industriali di Volskij.

I lavoratori e il sindacato maggioritario, l’Fnpr, appoggiano lo sforzo di Volskij-Cernomyrdim, anche loro convinti, come i lavoratori dell’Occidente, che il proprio futuro dipenda da quello delle proprie aziende e del proprio territorio(8). Non accettano di rimanere senza salario, di non incamerare qualcosa dell’intensificazione della prestazione lavorativa, ma sono convinti che queste rivendicazioni, che supportano anche con scioperi, richiedano il rilancio della loro azienda. La classe operaia russa si aziendalizza: stringe un’alleanza con i capitalisti e i manager alla testa delle imprese in cui lavora per premere insieme sullo stato affinché conceda i finanziamenti necessari per l’ammodernamento, permetta la moratoria del pagamento delle tasse per evitare di inaridire le ristrette liquidità in mano alle imprese, continui a fornire energia a tariffe agevolate.

Capitalismo classico, quindi, ma capitalismo non calibrato secondo i desideri dell’imperialismo. Che, pazientemente, si siede sulla riva del fiume e aspetta. Aspetta che la crescita del debito estero connessa con la continuazione del finanziamento centrale delle imprese e dei servizi sociali arrivi a livelli critici. Aspetta che a questo risultato cooperi la discesa del prezzo del petrolio e del gas iniziato a metà degli anni novanta, anche grazie all’aggressione imperialista al mondo arabo-islamico (dietro il vessillo del terroristico embargo onuista all’Iraq). Aspetta di poter mettere le mani, attraverso i suoi faccendieri russi, sui gioielli dell’economia russa (soprattutto quelli legati allo sfruttamento delle materie prime) e di avviare una seconda ondata di privatizzazione. L’imperialismo riesce, in parte, in questa impresa: la Sibneft, l’Aeroflot, la LogoVAZ passano nelle mani di Berezovskij-Abramovic, la Yukos in quelle di Khodorkhovski, con la soddisfazione dei loro tutori occidentali.

Nel 1998 si arriva alla resa dei conti. Vi si arriva, innanzitutto, perché dal 1997 è in crescita la mobilitazione dei lavoratori per il pagamento degli stipendi che le aziende, per scarsità di liquidi e sete di profitti da accumulare, non pagano da mesi. Inizialmente spontanea e localistica, l’iniziativa viene assunta dall’ala "nazional-comunista" del parlamento e dal sindacato ufficiale. Nella primavera del 1998 cominciano i preparativi per uno sciopero generale pan-russo. I borghesi nazionali russi si rendono definitivamente conto che o tentano un colpo di reni, e a tal fine occorre evitare che sfugga di mano il cruciale settore degli idrocarburi in procinto di essere incamerato dalle multinazionali anglosassoni, oppure rischiano il dissolvimento per effetto congiunto della pressione dall’alto dell’imperialismo e dal basso del conflitto di classe. Lo scontro va avanti per tutto il 1998, porta all’alternarsi di ben quatto governi nell’arco dell’anno, al crollo del rublo e alla moratoria nel pagamento del debito estero.

Nell’autunno del 1998 comincia a delinearsi l’esito della partita. L’affondo del Fmi non è riuscito. La Russia deve accettare un duro piano di rimborso del debito (che tuttavia non è quello inizialmente messo sul piatto dal Fmi) ma contemporaneamente le rimane lo spazio per il rilancio delle spese militari e del settore militar-industriale, uno dei gioielli dell’industria dell’ex-Urss. Il rilancio di tale settore, incoraggiato dalle spese statali, permette di incamerare valuta pregiata e di riavviare un volano per l’intero apparato economico. Nell’autunno-inverno 1998-1999, c’è poi la cristallizzazione partitica della tendenza borghese nazionale in fase di consolidamento nell’apparato economico e statale: nasce il partito Ovr ("Patria-Tutta la Russia"). L’aggressione occidentale contro la mini-Jugoslavia della primavera del 1999 (che è in relazione anche con il parziale stop subito dall’Occidente in Russia) rafforza la convinzione dei capitalisti e dei dirigenti statali russi che occorre fare presto. L’elezione di Putin rappresenta, in una forma ancora immatura, questa esigenza. È vero che Putin si è presentato come il candidato ufficiale del partito di Eltsin ma Putin ha ottenuto l’appoggio di una parte delle forze raggruppate nell’Ovr e nei sindacati.

Con Putin inizia un nuovo periodo.

Putin: la rinascita della potenza capitalistica russa e le sue fragilità

L’era Putin è quella della rinascita della potenza statuale ed economica della Russia. Essa sarebbe stata impossibile senza il periodo di crescita economica mondiale del 2002-2007 trainata dallo sviluppo della Cina, dell’India, di alcune aree dell’America Latina. Tale periodo ha fatto lievitare il prezzo degli idrocarburi e permesso alla Russia di disporre di ingenti capitali liquidi con cui procedere al rilancio del proprio apparato industriale. Ha, inoltre, offerto alla Russia l’opportunità di vendere crescenti quantitativi di armi alla Cina, all’India e ad altri paesi emergenti e, attraverso ciò, di trovare un volano per i settori economici di base (metallurgia, meccanica, elettronica): "Con il 32% delle vendite mondiali messo a segno fra il 2001 e il 2004, la Russia è ritornata ad essere il primo paese esportatore mondiale di armi convenzionali, superando persino gli Stati Uniti (31%)" (F. Benaroya, L’economia della Russia, Il Mulino, Bologna, 2007). L’altro carburante della ripresa capitalistica russa è arrivato dai bassi salari (drasticamente ridotti negli anni novanta), dalla pressione esercitata su di essi dalla discesa del 40% della popolazione sotto la soglia di povertà e dalla legislazione anti-sindacale varata da Putin all’inizio del nuovo millennio. (8)

Cointeressare i lavoratori alla rinascita russa

In una prima fase, fino al 2003, al centro della rinascita russa vi è il consolidamento delle due leve "extra-economiche" vitali per lo svolgimento dell’accumulazione capitalistica: quella dell’apparato statale e quella dello strumento necessario al maneggio dell’arnese statale, un adeguato partito borghese. Su questa base, il presidente russo trova la forza per consolidare l’ancora asfittica ripresa sul piano strettamente economico e per rispondere in solido alla pressione dei lavoratori, tornata a farsi sentire con alcune manifestazioni di piazza animate dall’obiettivo di partecipare ai benefici della crescita. Come spiega lo stesso Putin in un discorso alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2003, affrontare i nodi strutturali che tarpano le ali all’industria russa, mantenere la pace sociale ed oliare la ripresa economica con l’allargamento della domanda interna sono elementi strettamente legati tra loro.

L’economia del paese, dice Putin, è troppo dipendente dalla vendita delle materie prime (gli idrocarburi sono il 60% delle esportazioni, con i metalli si arriva all’80%) e la sua popolazione lavoratrice, immiserita e in decrescita, non è motivata a contribuire alla ripresa. Per consolidare la rinascita della potenza russa, occorre diversificare l’economia e aumentarne la produttività. Ciò richiede, vecchio assillo del capitalismo russo, enormi investimenti in macchinari moderni. Ma ciò non basta, aggiunge Putin. Occorre a questo punto (e dopo gli schiaffi distribuiti) contare anche sulla partecipazione della popolazione lavoratrice, sulla disponibilità di essa a sostenere ritmi produttivi più intensi e a curare la qualità delle merci sfornate. Per la quale cosa, è importante che vengano aumentati i salari, affrontato il problema del sistema sanitario e della salute nazionale minata dall’alcool, ammodernate le case. Senza questo miglioramento generale anche la decrescita demografica, avverte Putin, non potrà essere invertita.

La politica presidenziale del 2003-2007 cerca di tradurre in atto tali intenzioni, contando anche sull’appoggio, oltre che dei centri direttivi del capitale nazionale, delle piccole-medie imprese. La Gazprom, ad esempio, cerca di inserirsi nelle fasi del ciclo energetico che concentrano la gran parte del valore aggiunto: quella della produzione e della fornitura finale di elettricità. Viene varato un regime fiscale che permette al governo di drenare verso le casse statali la manna petrolifera, così da finanziare la restituzione del debito estero e la costituzione di un consistente fondo di riserva. Si favorisce l’investimento delle multinazionali dell’auto, la creazione di zone economiche speciali ad alto contenuto tecnologico e scientifico. Si ammodernano le infrastrutture, tra cui la ferrovia transiberiana e i porti.

Gli interventi in politica interna sono accompagnati da un’accorta politica estera, che avvia e consolida relazioni di cooperazione economica e, in taluni casi, militare con una serie di paesi dell’Asia (a partire dalle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale), del Medioriente Oriente (con l’Iran e la Siria) e dell’America Latina (Venezuela di Chavez in primis).

Le linee di frattura non sono saldate completamente.

Agli inizi del 2008 i successi sono innegabili e il pil russo risale al livello del 1990. Le linee di frattura indicate da Putin non sono, tuttavia, completamente sanate. Lo rivelano alcuni elementi.

Dopo una serie di investimenti e acquisizioni in aziende europee, statunitensi, mediorientali, latinoamericane e africane nel campo dell’acciaio, della metallurgia, dell’aerospaziale e delle telecomunicazioni (9), nel 2007 c’è la battuta d’arresto della mancata acquisizione della Arcelor da parte della Severstal (10), incapace di reggere l’onda d’urto finanziaria del gruppo anglosassone-indiano della Mittal. Continua a pesare, in secondo luogo, la perdurante arretratezza delle tecniche di estrazione del petrolio utilizzate dalle imprese russe e l’aumento della quota dei macchinari aventi più di 5 anni di vita fino ad oltre il 90%.

A ciò si aggiunge la difficoltà della Russia a diventare un polo di attrazione degli investimenti esteri diretti mondiali, con tutto ciò che una cosa del genere implica in termini di mancato ammodernamento dell’apparato produttivo. "A frenare gli investitori è il contesto degli affari", scrive Benaroya. È cioè il fatto che lo stato e il partito di Putin portano avanti una politica che alle multinazionali e ai centri finanziari occidentali non va affatto a genio: da un lato, perché obbliga a lasciare nelle mani della borghesia russa una quota troppo grande dei profitti estratti dal sudore dei lavoratori russi; dall’altro lato, perché non li aiuta a sottoporre i lavoratori al livello di sfruttamento desiderato dagli avvoltoi occidentali.

Lo confessa lo studio citato della Luiss: "Il governo sembra puntare all’obiettivo della diversificazione del tessuto produttivo, avendo pianificato investimenti in infrastrutture di 8 miliardi di rubli (28 milioni di dollari) nelle zone economiche speciali per il solo 2006. (...) Allo scopo di definire una chiara strategia di sviluppo, è stato istituito presso la presidenza della federazione «il consiglio per la realizzazione di progetti nazionali prioritari». A scapito di ogni considerazione di politica industriale, tuttavia, l’organo ha finora individuato progetti a carattere prevalentemente sociale (…) che nel loro complesso prevedono stanziamenti per 180 miliardi di dollari volti a sostenere il tenore di vita delle fasce sociali maggiormente colpite dai tagli alle spese degli anni novanta. (…) Dopo anni di stallo, nel 2005 il settore dei servizi pubblici e sociali ha fatto registrare una crescita del 2,8% a fronte del -0,5% del 2003, senza pregiudicare gli equilibri di bilancio" (pp. 20-21).

Queste fragilità della potenza capitalistica russa sono venute a galla, subito dopo la vittoria in Georgia, con la crisi finanziaria degli ultimi mesi. Come spieghiamo negli altri articoli del dossier, tale crisi è generata anche dalla ripresa della Russia, dall’incapacità statunitense di mettere la museruola al capitale e al proletariato russi. Ma essa è stata ed è utilizzata e gestita dagli Usa, dalla Gb per azzoppare la ripresa russa con il ritiro dei capitali investiti alla borsa di Mosca e il ribasso del prezzo del petrolio. Anche l’Ue, che dipende dalla Russia per una quota consistente delle forniture di gas e di petrolio, sta facendo la sua parte. Ha, ad esempio, promosso un consorzio tra Eni, E.on e Gaz de France per imporre una trattativa comune per l’acquisto del gas dal Caspio e per avviare nell’area prospezioni autonome così da limitare il condizionamento del nascente Opec del gas tra la Russia, l’Iran e il Qatar (11).

Cosa riserverà il futuro?

La partita è aperta e probabilmente la collisione tra la Russia e l’Occidente ruoterà attorno al prezzo da pagare per inserire Mosca nel gruppo dominante delle potenze capitalistiche alleate degli Usa e dell’Ue. In un suo documento riportato su Limes, il direttore di Moscow News ha scritto: "Quando la rinascita russa avrà raggiunto un sufficiente grado di maturazione, tale da non poter più essere ignorata neanche dai politici e dagli esperti più testardi dell’Occidente, inevitabilmente la Russia proporrà all’Unione Europea e agli Stati Uniti di formare un’alleanza politico-militare. E forse di fondare una confederazione euro-atlantica, con un parlamento e un governo comuni. In ogni modo, è solo in tale prospettiva che io vedo la possibilità di conservare l’integrità e l’incolumità della nostra comune civiltà euro-atlantica. Tanto più se noi vogliamo mantenere la sua leadership mondiale nel corso del nostro secolo".

In teoria, è aperta anche un’altra strada. La Russia potrebbe convergere con la Cina in chiave anti-occidentale e revisionista dell’ordine capitalistico mondiale. Su questo versante, negli ultimi dieci anni, sono cresciuti l’interscambio e la complementarietà tra le economie dei due paesi. La Russia e la Cina avrebbero anche interesse a stabilire una cooperazione strategica per sviluppare l’immenso territorio spopolato e in via di spopolamento della Siberia, in grado di offrire una terra di colonizzazione ad una Cina sovrappopolata e carica di conflitti sociali.(12) Ma proprio questa prospettiva preoccupa non poco la borghesia russa, timorosa di essere bastonata dall’Occidente o di veder ridimensionati i suoi sogni da parte della Cina. Sintomatici i risultati del recente (novembre 2008) viaggio di Medvedev in America Latina (13): in confronto agli accordi firmati da Hu in Brasile, Cuba e Perù nel tour condotto parallelamente a quello di Medeved, il presidente russo ha raccolto ben poco. Anche laddove, come in Venezuela e in Nicaragua, il legame di amicizia si è consolidato, i grandi progetti (un canale rivale a quello di Panama e una pipeline continentale) hanno dovuto segnare il passo per scarsità di mezzi finanziari.

Ad oggi sembra che la carta cinese sia agitata dall’establishment moscovita soprattutto per alzare il proprio prezzo presso Washington e la Ue, ma in futuro gli sviluppi potrebbero essere anche sorprendenti. Comunque, pur non equivalenti fra loro rispetto all’evoluzione dello scontro di classe in Russia e nel mondo intero, l’una e l’altra collocazione internazionale della Russia non riserveranno niente di buono per i lavoratori, della Russia e del mondo intero.

Nel vortice della crisi mondiale,i lavoratori della Russia non possono difendersi a braccetto con i capitalisti russi

Abbiamo visto che in Russia i lavoratori dell’industria non sono scomparsi (erano 20 milioni nel 2002) né si sono limitati ad assistere passivamente agli eventi. Sono intervenuti in tutte le svolte dello scontro politico interno, sin dal 1989, quando appoggiarono nella loro maggioranza la perestrojka gorbacioviana e poi la sua versione eltsiniana. Lo hanno fatto con l’aspettativa di passare dal livello di vita tipico degli operai di un paese capitalistico arretrato a quello dei proletari dei paesi occidentali. Lo hanno fatto, non poteva accadere diversamente visto il corso dello scontro capitale-lavoro a livello mondiale negli anni ottanta e novanta, mettendo in relazione la realizzazione di questa istanza alla ristrutturazione e al rafforzamento delle proprie aziende e poi, con Putin, del proprio capitalismo nazionale.

Con quali conseguenze?

Sul piano materiale hanno ottenuto sensibili miglioramenti rispetto alla condizione disastrosa degli anni novanta. Basti dire che i salari reali medi, dopo la caduta a precipizio degli anni novanta, hanno raggiunto nel 2007 i 400 dollari (l’80% del livello del 1989), che la quota della popolazione compresa nella fascia di povertà è stata dimezzata (dal 40 al 20%), che dal 2001 le spese sanitarie sono triplicate e quelle per la scuola raddoppiate. Anche la speranza di vita, crollata dai 62 anni del 1992 ai 58 del 2004, negli ultimi anni è tornata lentamente a crescere.

Grazie a questi risultati, i lavoratori della Russia hanno consolidato il patto politico con la propria classe borghese. A testimonianza di ciò nelle elezioni del 2007 la percentuale dei votanti è cresciuta dal 50 al 70% soprattutto per l’aumento della partecipazione della componente proletaria della popolazione. La difesa degli interessi immediati e storici dei lavoratori della Russia e del mondo intero richiede, tuttavia, la rottura di questo patto e l’inizio di un percorso di organizzazione politica dei proletari separata da quella delle altre classi sociali.

Innanzitutto c’è da riflettere sul fatto che uno degli ingredienti dello sviluppo capitalistico russo nel periodo 2000-2006 è stato il basso livello dei salari. La raccolta delle risorse da cui attingere per gli aumenti, anche solo parziali, di salario attesi dal proletariato della Russia non esige solo che l’apparato industriale si modernizzi, ma anche che il capitale nazionale entri a far parte dei pescecani che saccheggiano il lavoro dei proletari e dei contadini poveri del Sud e dell’Est del mondo. Parla in questo senso il fatto che il fondo riservato da Mosca al welfare dipenda dai guadagni ottenuti mediante l’investimento sulle piazze finanziarie mondiali del fondo di stabilizzazione costituito da Putin. A parte che i profitti ricavati da simili investimenti sono tutt’altro che sicuri (come mostra l’attuale crisi finanziaria e le perdite subite dai fondi pensioni) rimane il fatto che una politica simile richiede ai lavoratori russi di mettersi su una strada suicida: quella della concorrenza con i lavoratori dei paesi capitalistici più deboli. La contrapposizione con gli immigrati islamici nelle zone europee della Russia è un’avvisaglia di una china disastrosa.

Sfuggire a questo destino per i lavoratori russi non sarà semplice prima di una bruciante esperienza. Gli elementi che possono favorire le migliori condizioni per questa presa di coscienza sono, tuttavia, già presenti nella situazione attuale. Prima di tutto l’inserimento dei lavoratori della Russia nel mercato del lavoro mondiale. Oltre a spingere verso la concorrenza tra proletari, questo comune destino spinge anche, dialetticamente, in direzione opposta. Lo testimonia quello che racconta il delegato della Ford di San Pietroburgo (v. riquadro). Ma a tal fine non ci si può limitare solo all’attività sindacale.

Difesa immediata e lotta politica

Come si può, ad esempio, costituire un’organizzazione sindacale efficace se non si lotta contro le discriminazioni e, talvolta, i pogrom diretti contro i lavoratori musulmani della Russia (30 dei 150 milioni di abitanti del paese) o contro gli immigrati dal Caucaso o contro i contadini proletarizzati trasferiti nelle periferie dei centri industriali del paese? Come si può impedire alle multinazionali di giocare sulla concorrenza tra i lavoratori della Russia e quelli dell’Europa dell’Est (polacchi, ucraini, ungheresi, ecc.) senza stabilire un fronte comune con questi ultimi? Ed è possibile coltivarlo senza rendersi indipendenti dalla politica internazionale dello stato russo, che, dal suo punto di vista coerentemente, è ai ferri corti con Varsavia, con Budapest e con Kiev? La difesa dalle aggressioni, finanziarie e militari, condotte contro la Russia e i lavoratori della Russia dall’imperialismo attraverso i suoi burattini caucasici non significa, inoltre, mettere in un solo mucchio questi burattini con i lavoratori, ad esempio quelli georgiani, che essi pretendono di rappresentare. Un problema analogo si pone con i governi e i lavoratori del continente asiatico, da quelli dell’Estremo Oriente a quelli dell’Asia centrale e del Medioriente.

La borghesia russa sta facendo una cernita dei paesi con cui stabilire alleanze e soprattutto sta trattando con l’Occidente il prezzo per la costituzione di un’alleanza mirante a rilanciare la corsa dell’accumulazione capitalistica globale mediante la schiavizzazione di una parte dell’umanità lavoratrice dell’Asia. La tradizione imperiale dei Romanov a cui la Russia di Putin si richiama per cercare un suggello ideologico a tale indirizzo politico, dovrebbe suonare un altro campanello d’allarme per i lavoratori della Russia: per tale tradizione essi sono semplici bestie da soma, da spremere nelle fabbriche e usare nei campi di battaglia, come insegna l’esperienza della prima guerra mondiale in cui lo zar tentò di realizzare il suo sogno imperiale in alleanza con le potenze capitalistiche democratiche dell’Occidente.

I tempi di ferro che si preparano chiamano i lavoratori della Russia, delle città e delle campagne, a fare i conti con questa somma di questioni mondiali. A cercare anch’essi, sulla scena internazionale, i loro alleati, che stanno nei proletari dell’Occidente, e nei lavoratori e i contadini poveri degli altri continenti. Da questo punto di vista, la battaglia per l’eguaglianza tra i lavoratori entro i confini della Russia, contro le discriminazioni nazionali e religiose così diffuse, è la migliore piattaforma per proiettarsi verso i lavoratori del resto del mondo, a partire da quelli dell’area musulmana che circonda la Russia.

1) V. scheda presente sul nostro sito.

2) L’ex-Urss produceva il 10% circa del pil mondiale.

3) Così si chiamava il "mercato comune", in vita fino alla fine degli anni ’80, dei paesi dell’Europa Orientale imperniato intorno all’Urss.

4) Nell’economia capitalistica nulla è totalmente svincolato dal complesso del sistema a scala internazionale, quindi il termine è da intendersi in modo relativo.

5) Per un’approfondita analisi teorica e storica della questione Urss rimandiamo al nostro quaderno del maggio 1990 "Dove va l’Urss".

6) V. "Dossier sull’economia dell’economia della Russia" del 2006 a cura del Luiss Lab on the European Economics.

7) Una fonte di documentazione preziosa sulle relazioni sindacali in Russia fino al 1999 è rappresentata dall’ampio studio Russian Trade Unions and Industrial Relations in Transition di Sarah Ashwin e Simon Clark (Basingstoke-New York, 2002).

8) Per una schematica ricostruzione dei provvedimenti assunti dalla presidenza di Putin nel periodo 2000-2007 ai fini del rilancio della potenza capitalistica russa v. la scheda presentata sul nostro sito.

9) Vedi l’articolo di P. Sinatti "Il ballo della debuttante. Così Mosca si affaccia sui mercato globali" su Limes n. 6 del 2006.

10) La Severstal è uno dei maggiori gruppi industriali russi. La sua produzione, centrata sull’acciaio, è fortemente integrata in senso verticale e collabora con la Gazprom per la fornitura di moderni tubi per la costruzione di gasdotti.

11) V. le notizie riportate su Libero Mercato del 12 e 15 novembre 2008.

12) Il 75% del territorio russo è situato ad est degli Urali, l’80% della popolazione vive nella parte europea della Russia. Ben il 15% nell’area urbana di Mosca, che da sola genera il 25% del prodotto nazionale lordo. Alcune regioni del Nord e dell’Est della Russia sono segnate al tempo stesso dall’emigrazione e da una speranza di vita tra le più basse nel paese.

13) V. "Flux in Latin America Effects Russia’s Diplomacy" sul New York Times del 22 novembre 2008 e "Economy class tour" su Kommersant del 21 novembre 2008.

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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