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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Fallimento o salvataggio, il futuro dei lavoratori del settore dell’auto è drammatico. A meno che...

Già in una situazione critica, la crisi finanziaria ha condotto l’industria dell’auto degli Usa sull’orlo del precipizio. Nel Congresso e nelle alte sfere di Wall Street si confrontano due "cure".

Da un lato, c’è chi dice: "Lasciamo fallire le case automobilistiche Usa"(1). Per farle scomparire e lasciare il campo libero alle multinazionali giapponesi ed europee? Neanche per sogno. I tre giganti di Detroit vanno lasciati alla corrente verso la bancarotta (verso il cosiddetto chapter 11), per rendere possibile l’azzeramento (contemplato in tal caso dalla normativa) dei contratti di lavoro oggi esistenti (considerati dal management troppo onerosi per i dividendi aziendali) e la riapertura delle fabbriche, ristrutturate o nuove di zecca, con contratti di lavoro di nuovo tipo, basati sulla fine della conflittualità tra "management and labor" e scaricati dal peso degli oneri sociali! E poiché negli Usa il welfare è aziendale, il taglio del welfare aziendale è il taglio del welfare tout court.

Dall’alto lato, c’è chi invoca gli aiuti delle istituzioni statali in cambio dell’adozione trasparente da parte delle case automobilistiche di un piano di rilancio delle imprese. Cosa preveda tale piano, lo ha svelato la proposta presentata al Congresso dalla General Motor(2): progressivo passaggio all’auto ad alta efficienza energetica e al motore ibrido, taglio degli stipendi dei dirigenti, ma soprattutto diminuzione drastica della forza lavoro (si parla del 20%), taglio delle coperture sociali di cui godono al momento i lavoratori, allungamento e intensificazione dell’orario di lavoro in modo da portare il costo del lavoro pari a quello registrato nelle fabbriche Toyota. Non bastassero le dichiarazioni dei dirigenti della Gm, della Ford e della Chrisler, chiariscono le idee le parole di Robert Reich, ex-ministro del lavoro di Clinton, sostenitore da "sinistra" di Obama: "In cambio dell’aiuto governativo, i creditori delle Tre Big, gli azionisti e i manager dovrebbero accettare rinunce non meno pesanti di quelle previste dal chapter 11 e l’Uaw dovrebbe acconsentire a un taglio generalizzato dei salari e dei benefici previdenziali e sanitari [s.n.]" (dal sito di R. Reich, 11 novembre 2008).

Bancarotta o salvataggio, quindi, il futuro riservato dal corso del capitalismo ai lavoratori della Gm, della Ford e della Chrisler è segnato. È quello toccato in sorte ai lavoratori della Ford degli impianti di Dearborn e di Lima (Ohio) e, in prospettiva, ai lavoratori della Delphi.

" Per evitare la bancarotta [della Ford], il sindacato ha dovuto ingoiare parecchi bocconi amari negli ultimi anni. Nel nuovo stabilimento di Dearborn, costruito sulle ceneri di uno storico impianto del gruppo, i lavoratori hanno accettato salari e benefici più bassi che in altre fabbriche, lavorando anche la domenica e facendo straordinari non pagati. Per la prima volta, inoltre, sono stati ammessi a lavorare in mansioni poco specializzate operai non iscritti all’Uaw, pagati la metà di quelli sindacalizzati. Anche nello stabilimento di Lima, la federazione Uaw è venuta a patti con la direzione aziendale per evitare che l’impianto fosse chiuso e trasferito in Messico. Per coinvolgere gli addetti in un piano mirato all’incremento della produttività, infatti, sono ora i dirigenti sindacali, e non i quadri aziendali, a calcolare i tempi e i ritmi di lavoro nelle linee di assemblaggio dei motori, organizzate sul modello giapponese. Tutto questo non è però bastato a evitare alla fine del 2006 il licenziamento di 14mila dipendenti. Per ora [siamo nel 2007, n.] rimangono salvaguardati i benefici di cui godono a livello nazionale gli iscritti al sindacato per quanto riguarda l’assicurazione sanitaria e le pensioni, grazie ai quali un lavoratore della Ford guadagna il 50% in più di quelli che negli Usa sono alle dipendenze di società automobilistiche straniere come Toyota o Honda. (...) La direzione Gm non nasconde la sua intenzione di convincere l’Uaw a seguire la «via Ford» anche nel suo gruppo" (dall’articolo "Ombre giapponesi" pubblicato sul n. 17 del 2007 di Rassegna Sindacale).

Il gruppo Delphi è nato nel 1999 da una costola della Gm comprendente le fabbriche dei componenti per auto. La direzione della Gm l’ha distaccata per rendere possibile la vendita delle merci anche alle fabbriche delle altre case e, soprattutto, per abbassare i costi di produzione attraverso il drastico peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro di questo settore operaio. Il colpo è arrivato nel 2005, quando la nuova direzione aziendale ha posto i lavoratori davanti a un brutale ricatto: o il fallimento e la riapertura delle fabbriche con operai neo-assunti alle condizioni vigenti nelle fabbriche giapponesi, oppure la rinuncia al contratto di lavoratori ereditato dalla Gm, il passaggio secco da 27 a 12,5 dollari di paga oraria netta (da 65 a 21 dollari conteggiando i benefit sociali), l’intensificazione dei ritmi di lavoro e il licenziamento dei due terzi dei dipendenti impiegati entro i confini degli Usa.(3)

Il futuro Ford o quello Delphi è, comunque, solo un intermezzo. La situazione "ottimale" cui tendono le direzioni delle imprese automobilistiche è quella Wal Mart. Ha parlato per tutti Marchionne!

1) V. "Let Detroit Go Bankrupt" di Mitt Romney, ex-governatore del Michigan, su The New York Times, 19 novembre 2008.

2) V. The New York Times, 3 dicembre 2008

3) Sull’attacco padronale ai lavoratori del gruppo Delphi e agli sviluppi della vertenza si veda gli articoli, ben documentati, pubblicati sul sito "www.alencontre.fr". Ne citiamo un passaggio estratto da un articolo pubblicato da S Freeeman su The Washingotn Post il 12 novembre 2005: "I padroni dell’industria dicono che il problema è semplice: a causa della concorrenza globale, i fabbricanti di auto statunitensi non possono più permettersi di pagare i salari, le pensioni e le coperture sanitarie che i lavoratori hanno ottenuto nel corso di decenni di lotte sindacali e di successi al tavolo negoziale di Detroit. Per ridurre i costi, i fornitori di componenti automobilistici hanno accelerato i loro sforzi per ridurre gli impianti negli Usa e in Europa occidentale e per perseguire l’espansione in Messico, in Honduras, nelle Filippine, in India, in Thailandia, in Cina e nei paesi dell’Europa dell’Est"

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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