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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Il "sogno americano" is over. Nessun Obama potrà risuscitarlo.

Anche noi comunisti salutiamo la sconfitta elettorale di McCain. Per il significato politico che essa esprime: la crisi del progetto neo-cons che McCain intendeva continuare a portare avanti, sul piano interno e su quello internazionale. E, soprattutto, per la causa sociale di tale battuta d’arresto: l’indisponibilità del proletariato mondiale ad accettare la schiavizzazione o gli arretramenti richiesti dalla vittoria ricercata da Bush, Wolfowitz, Rumsfeld, Cheney, ecc.

Ne discutiamo ampiamente nell’articolo sulla crisi economica internazionale. Ci limitiamo qui a sottolineare il fatto che l’impossibilità per i terroristi alla testa della Casa Bianca, del Pentagono e di Wall Street di stabilire il pieno controllo sull’area dei "Balcani dell’Asia" (il forziere degli idrocarburi del pianeta e la torre di guardia per il dominio del continente), di riportare ordine nel cortile di casa latinoamericano (con il fallimento, ad esempio, dei golpe organizzati in Venezuela), di mantenere gli operai della Cina sotto il giogo walmartiano ha impedito loro di normalizzare il fronte interno. L’imperialismo Usa non è riuscito a mettere le mani sul bottino neo-coloniale che gli avrebbe permesso di ripianare i debiti accumulati per finanziare la "guerra dei trent’anni", di tacitare le crepe sociali emerse con Seattle nel 1999 e di carburare il rilancio dell’accumulazione capitalistica mondiale avviato alla fine del XX secolo.

Ne ha risentito il morale dei marines, depressi dalla resistenza e dall’odio incontrati in Iraq e in Afghanistan, al punto che è diventato difficile per le forze armate reclutarne un sufficiente numero, soprattutto nel tradizionale vivaio della comunità afro-americana, pur in presenza di un abbassamento dei requisiti richiesti. Ne ha risentito il morale dei latinos immigrati negli Usa, incoraggiati a far valere l’aspettativa di progresso sociale che li aveva spinti a lasciare i loro paesi e ad organizzare lo sciopero generale del 1° maggio 2006. Ne ha risentito il morale di una parte della stessa classe operaia bianca privilegiata, incapace di continuare a conservare il tradizionale livello dei consumi mediante il crescente indebitamento e, in ultima istanza, mediante l’allungamento e l’appesantimento della giornata di lavoro richiesti dal rimborso delle rate.

Il crollo di Wall Street ha spinto questi settori sociali a disfarsi del timoniere che minacciava di lasciarli in balìa dell’uragano economico in arrivo, come li aveva lasciati indifesi davanti a Katrina (1400 morti!).

È vero che questa parte del mondo del lavoro salariato non ha fatto i conti con Bush e McCain con uno sciopero generale, con una lotta generale. Che si è limitato ad una mobilitazione elettorale. Ma tale mobilitazione può rappresentare un passo in avanti rispetto all’atonia e all’indifferenza politica in cui si trovava il proletariato degli Usa. A promuoverla non è stata solo l’iniziativa dei dirigenti e dei quadri dei sindacati degli Usa, ma anche una genuina spinta dal basso, soprattutto da parte della nuova generazione. Ed essa ha favorito la convergenza tra sfruttati finora psicologicamente distanti, se non contrapposti, tra loro: gli afro-americani, i latinos, una parte degli operai e delle donne della popolazione lavoratrice bianca, soprattutto quelli della fascia più giovane. [Tabella con i dati sulle scelte elettorali dei vari settori]

Salutare, per queste ragioni, la sconfitta di McCain non significa appoggiare, anche solo in modo critico, Obama. Non perché temiamo che egli sarà incoerente con le sue promesse. Per l’esatto contrario: perché il progetto politico complessivo che egli coerentemente porterà avanti, è in rotta di collisione con gli interessi dei lavoratori che lo hanno votato, di quelli che hanno scelto McCain e di quelli del mondo intero. Obama potrebbe anche realizzare alcune delle sue promesse elettorali: la riduzione del prelievo fiscale sui redditi più bassi, l’introduzione di una parziale copertura sanitaria universale, la "creazione" di alcuni milioni di posti di lavoro attraverso il varo di un vasto piano di rinnovamento, ambientalmente compatibile, delle disastrate infrastrutture del paese, la promozione di un’industria dell’auto ecologica (finanche all’idrogeno), l’aumento della tassazione sui redditi più alti per finanziare tali spese. Lasciamo stare il fatto, per ora, che è altamente improbabile l’attuazione di simili misure senza una mobilitazione dei lavoratori che passi dal piano elettorale a quello dello scontro di classe effettivo. Chiediamoci: quale scenario mondiale è richiesto dalla realizzazione di un simile rilancio del "sogno statunitense"? Non certo quello latte e miele, di fraterna e benefica concorrenza reciproca tra stati e continenti, promesso da Obama e dal suo dream team: è richiesto lo schiacciamento della popolazione lavoratrice dell’Asia, della Cina in primo luogo, e del progetto di ascesa nazionale borghese cinese. Da dove, sennò, saranno tratte le risorse per far rinascere l’American Dream? Non certo solo dall’aumento del prelievo fiscale sui super-ricchi statunitensi.

L’obiettivo strategico di Obama non è, quindi, diverso da quello dei neo-cons. Tant’è che egli, non diversamente da questi ultimi, ripete incessantemente: "America, America!". Tale obiettivo vuol, però, essere perseguito attraverso un’altra via. Non in modo unilaterale, contro tutti, persino contro gli alleati euro-atlantici e gli stati collaborazionisti in America Latina e in Medioriente. È finito il tempo in cui una minoranza di bianchi super-armata poteva dominare il mondo. Oggi la popolazione del Sud e dell’Est del mondo non è più dispersa nelle campagne e, le due cose sono legate, non è più disposta ad accettare passivamente la sorte riservatale dal destino imperialistico. Come si debba procedere lo spiega lucidamente uno dei cervelli della squadra di Obama, Brzezinski (v. riquadro).

Nel suo libro L’ultima chance (2007), egli parte dalla constatazione che gli Usa si trovano isolati e odiati in un mondo segnato dal "risveglio politico globale", che essi sono fratturati all’interno da diseguaglianze così profonde da trovare antecedenti solo nell’Egitto dei faraoni, che questa inedita combinazione rappresenta un rischio epocale non solo per la conservazione del dominio mondiale degli Usa ma per la conservazione dell’intero ordine capitalistico internazionale.

Per rispondere a questa situazione critica, gli Usa, sostiene Brzezinski, hanno bisogno di saldare a sé, oltre all’Europa occidentale, alcuni degli stati capitalistici emergenti, in Estremo Oriente, Medioriente, America Latina e Africa, e le loro "opinioni pubbliche", per isolare il concorrente strategico, la Cina, mettere sotto scacco le "pretese" della borghesia e quelle del proletariato di questo paese, incassare il bottino ambìto dagli assatanati capitalisti occidentali, alleggerire, grazie a ciò, il fardello che dovrà essere caricato in ogni caso sulle spalle del proletariato euro-atlantico e provare ad assicurarsene il consenso. La potenza finanziaria, tecnologico-scientifica e militare (tutt’altro che distrutta) degli Usa ha bisogno di essere coadiuvata da una serie di feudatari non limitati a semplici èlites etero-dirette ma sostenuti da ampie fasce della popolazione lavoratrice locale. In America Latina e in Africa, innanzitutto, stracciando la paziente tela che la Cina vi sta tessendo. Nell’Asia orientale, contrapponendo alla Cina l’India e altri paesi dell’area. Fa parte di questo gioco il tentativo di recuperare il rapporto con l’Iran e, attraverso questo goal, quello con una Russia ridotta a più miti consigli, anche per il ridimensionamento del monopolio detenuto dalla Russia delle vie di trasporto degli idrocarburi dell’Asia centrale verso l’Estremo Oriente e verso l’Occidente.

Ma come è possibile incollare le tessere di questo schieramento internazionale di guerra senza un fronte interno ritornato compatto? Senza allargare ai latinos e agli afro-americani la base sociale proletaria a cui rivolgere il patto? Senza che il modello sociale interno statunitense torni ad essere attraente per i popoli del mondo intero? E come è possibile l’una e l’altra cosa, se il grande capitale Usa non si impone una qualche "auto-regolazione"? Ecco il senso delle promesse e delle eventuali realizzazioni "sociali" di Obama. Ecco il senso della scelta da parte del partito democratico del candidato afro-americano al posto di Hillary Clinton. Ed ecco perché Obama è stato massicciamente votato, e prima ancora sostenuto a suon di dollari e di pubblicità, dall’altra forza sociale che ha permesso la vittoria del candidato democratico: il grande capitale statunitense, fino a ieri ben coperto dietro la doppia presidenza Bush.

Naturalmente Brzezinski e Obama si guardano bene dal chiarire che il rilancio della potenza Usa che auspicano, non può portare all’avvio di un’era di prosperità e di pace. Essi promettono un nuovo capitalismo, socialmente giusto, ecologico, multirazziale. C’è chi, come T. Negri, ci crede e invita a crederci. Noi crediamo, invece, che il bicchiere che si vuol far trangugiare ai proletari e che i proletari da parte loro ritengono inevitabile o benefico trangugiare sia pieno di veleni e di fiele. Per due ragioni fondamentali.

Primo. Non sarà possibile realizzare in modo pacifico l’obiettivo strategico che sottostà, implicitamente, al ragionamento di Brzezinski e al sogno di Obama: lo schiacciamento del proletariato dell’Asia Orientale e dei "Balcani dell’Asia". Togliamoci dalla testa l’idea che a piegarlo possano bastare le guerre "locali" che verranno attizzate in Asia orientale sul modello sperimentato nella "ex"-Jugoslavia. Che a fornire la carne di cannone saranno solo i popoli filo euro-atlantici dell’Asia o dell’Africa, come in parte sta già succedendo in Sudan e nella repubblica del Congo. Dovranno darsi da fare, in massa, anche i proletari Usa (e dei paesi euro-atlantici). E proprio per le ragioni per le quali, secondo Brzezinski, è arrivato ad un limite storico l’ordine capitalistico fondato sull’egemonia Usa. Per il "risveglio politico globale" che egli coglie così acutamente. Per la situazione strutturale di cui tale risveglio è un riflesso: l’avvicinamento all’insostenibilità dei prezzi sociali e ambientali globali richiesti dalla conservazione del sistema capitalistico.

Ma non c’è solo questo: il problema sta anche nel tipo di quotidianetà per la quale i lavoratori degli Usa dovrebbero sacrificare la loro vita. Scaraventare miliardi di altri proletari e contadini poveri nel baratro, non permetterebbe di rendere accettabile l’esistenza proletaria neanche negli Usa. Prendiamo, ad esempio, uno dei motivetti più accattivanti suonati dal flauto magico di Obama: la ristrutturazione in senso ecologico dell’industria automobilistica negli Usa e nei paesi capitalistici avanzati. È vero che essa potrebbe portare alla diffusione di un’automobile meno inquinante, ma al prezzo di rendere più "gsporca", più irrespirabile la vita lavorativa e sociale dei proletari. Una posizione pregiudizievole? Riflettiamo, allora, sulla rivoluzione micro-elettronica degli ultimi trent’anni.

I sostenitori del mercato e della democrazia non dicevano che le tecnologie informatiche ed elettroniche avrebbero reso il lavoro più leggero e più umane le relazioni tra le persone? E a cosa hanno portato? Il lavoro è diventato più snervante, alienante, come dimostra, in piccolo, l’inchiesta della Fiom recensita a p. ? La gran parte dei lavoratori è fornita di telefonino, una quota non piccola naviga in rete, ma le relazioni umane sono diventate più barbare, si è più soli, i mezzi di comunicazione stanno diventando mezzi di compensazione e di riproduzione dell’isolamento sociale. Vogliamo con ciò negare le potenzialità racchiuse in tali strumentazioni ai fini della liberazione dell’umanità? Certo che no, ma esse rimangono virtualità perché nella società attuale le tecnologie micro-elettroniche, informatiche e satellitari sono state e sono promosse e utilizzate al solo fine di incrementare il profitto e la sua sorgente, lo sfruttamento dei lavoratori. Qualcosa di simile vale anche per l’auto "pulita".

I servizi sui mezzi di informazione di queste settimane abbondano di particolari sulle caratteristiche del motore ibrido. Ma chiediamoci: come lavoreranno gli operai nelle fabbriche in cui esso verrà prodotto? Dovrebbe dirci qualcosa le "cure" allo studio nei piani alti di Detroit e nel Congresso per salvare l’industria automobilistica statunitense. Pur diverse tra loro, esse si basano tutte sullo stesso "principio attivo": ristrutturazione totale dei rapporti tra capitale e lavoro, con il taglio delle tutele eccessive dei lavoratori e del loro potere di interdizione sull’applicazione spietata dello sfruttamento capitalistico. Modello Wal Mart a scala globale. Servirà, poi, l’auto "pulita" a superare l’attuale morboso sistema dei trasporti fondato sulla mobilità individuale, su tempi di trasporto casa-lavoro sempre più lunghi a favore di un sistema pubblico? Neanche per sogno: servirà a riproporlo all’ennesima potenza. E servirà, infine, a schiacciare una fetta consistente dei lavoratori del Sud e dell’Est del mondo e a preparare lo schieramento di guerra di cui sopra: l’auto "ecologica", infatti, sarebbe (è già) un’arma dei paesi imperialisti per mettere in difficoltà le politiche di sviluppo capitalistico nazionale della Cina e degli altri paesi emergenti, che non sono in grado, al momento, di reggere botta sul piano tecnologico e finanziario per competere nel rispetto delle clausole ecologiche.

Può darsi che Obama e i suoi consiglieri siano effettivamente convinti della bontà del "mondo nuovo" che intendono tenere a battesimo. Ma ciò che conta è l’insieme delle inevitabili conseguenze delle loro azioni, dei loro programmi. Gli interessi dei due soggetti sociali, Wall Street e Main Street, che hanno permesso la vittoria di Obama sono destinati ad entrare in rotta di collisione. La delusione registrata dalle maggiori organizzazioni sindacali degli Usa per i membri nominati da Obama nel suo "economy team" e per il ritardo nella nomina del ministro del lavoro è una prima crepa. Essa va messa in relazione con il lungo periodo storico in cui il proletariato degli Usa si è identificato con la propria nazione, la propria borghesia, e con la lenta corrosione di questa collocazione iniziata vent’anni fa. Ne abbiamo scritto sul che fare sin dai primi numeri, guardando e puntando, come dicevamo in apertura, sull’"altra America".

Dalla seconda metà degli anni ottanta, abbiamo scrutato all’orizzonte i primi tentativi dei lavoratori degli Usa di re-imparare a condurre le lotte sindacali, le prove iniziali per prendere una posizione diversa da quella della Casa Bianca e Wall Strett non solo sulle rivendicazioni immediate ma anche sui temi di politica internazionale (a partire dalla guerra contro l’Iraq), i primi passi dei lavoratori afro-americani e latinos per sollevarsi dall’atomizzazione, il degrado e il super-sfruttamento cui li condanna la democrazia statunitense. Nell’epoca che si sta aprendo, i lavoratori degli Usa saranno chiamati a prove più concentrate ed impegnative.

Ci aspettiamo che queste prove, il collegamento da esse suscitato con la tradizione di lotta proletaria e socialista del movimento proletario Usa e mondiale, la proiezione verso i lavoratori degli altri continenti permettano alla classe lavoratrice degli Usa di respingere i ricatti e le esche lanciati dalla borghesia yankee, di proseguire l’avvicinamento registrato nel corso della campagna elettorale tra lavoratori bianchi, afro-americani e latinos, di conquistare un totale sganciamento della difesa dei propri interessi da quella del carro del proprio imperialismo. Per l’immediato si tratterà di mettere alla prova le decisioni del governo Obama su cui molti lavoratori hanno investito le loro aspettative, di saggiarne la natura di classe, di resistere al tentativo delle direzioni aziendali e del governo di giocare sulla concorrenza rinfocolata dalla recessione tra lavoratori di diverse nazionalità per spingere tutti all’indietro e per bloccare la molecolare riorganizzazione sindacale in corso, ripartendo dall’abisso, nei posti di lavoro del paese (1)

In questo scontro i lavoratori non potranno contare neanche nelle organizzazioni sindacali ufficiali, che pure nel corso della campagna elettorale hanno agitato l’esigenza di far valere la "working family agenda" di fronte alla voracità senza limiti della "corporate agenda". [Riportare in nota il documento?] La disponibilità dell’Uaw a trattare sulla base del piano di ristrutturazione presentato dalla direzione Gm è tutto un programma. Certamente non promette niente di buono per i lavoratori che dovranno fornirsi di un proprio programma, di una propria prospettiva di lotta.

1) Secondo le statistiche  pubblicate dal Buereau of Labour Statistiche, per la prima volta dal 1983 nel 2007 il tasso di sindacalizzazione negli Stati Uniti ha cominciato a crescere (da Rassegna Sindacale 6 febbraio 2008).

                                

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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