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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Contro le aggressioni fisiche bisogna contare sulle proprie forze.

In queste righe vogliamo telegraficamente dare conto di un piccolissimo, ma significativo episodio avvenuto la scorsa primavera a Roma.

Ne vogliamo parlare non tanto perché ha visto la presenza attiva della nostra organizzazione, ma perché permette di affrontare un tema di estrema rilevanza: quello dell’autodifesa militante degli immigrati e del rapporto con quei settori giovanili e proletari da cui spesso nascono i raid a sfondo In primavera, nell’estrema periferia capitolina, un pakistano viene ridotto in fin di vita a colpi di spranga. Di fronte a questa, che è soltanto "l’ultima" delle tante aggressioni razziste che da anni si susseguono nella capitale, le associazioni più combattive degli immigrati decidono (anche col nostro contributo) di dar vita ad un corteo da tenersi proprio nel luogo del pestaggio: Tor Bella Monaca, un quartiere in cui regnano precarietà e sotto-occupazione, e la gente è costretta a subire e a convivere con il degrado. Terreno ideale, insomma, affinché possa, in assenza di lotte, prendere piede quella forma di razzismo "popolare" che è costantemente attizzato dai grandi poteri istituzionali ed economici. Qui, infatti, l’immigrato è "naturalmente" percepito come un concorrente venuto a contendere quel poco di lavoro e quel poco di servizi sociali di cui si dispone. Il corteo ha visto la partecipazione, per nulla scontata, di alcune centinaia di persone (per metà immigrati) ed ha attraversato in modo compatto e combattivo le principali vie della borgata.

Il messaggio di fondo che si è tentato di inviare tramite volantini, comizi e il modo stesso di stare in piazza è stato il seguente.

Uno: Siamo immigrati, abbiamo tante difficoltà, ma oggi con questa nostra presenza diciamo che non siamo più disposti a subire passivamente aggressioni di alcun genere. D’ora in poi, se potremo, risponderemo per le rime.

Due: La stampa e le istituzioni prima aizzano voi, abitanti delle periferie, contro noi immigrati raccontandovi in continuazione che se manca il lavoro, la casa o quant’altro è per colpa nostra. Poi, quando fa loro comodo, vi attaccano dipingendovi ipocritamente come delinquenti e razzisti nati.

Tre: Noi non crediamo che sia così e vi invitiamo a lottare insieme per migliorare la vostra e la nostra condizione e per strappare dal degrado queste zone dove voi e noi abitiamo gli uni vicino agli altri.

Bisogna sempre stare coi piedi per terra, e noi ci sforziamo di farlo. Sappiamo, è bene ripeterlo, che si è trattato di un (microscopico se si vuole) episodio in cui si sono espresse tendenze e riflessioni per nulla consolidate neanche in una minoranza degli immigrati. Quello dell’auto organizzazione  e dell’auto-difesa è comprensibilmente un "tema" tra i più difficili. Ciò non toglie, però, che la strada da perseguire sia proprio quella che per un momento si è intravista nell’occasione di cui sopra: mettere da parte la fiducia nelle istituzioni, "parlare" chiaro "agli italiani" e contare solo sulle proprie forze.

Questa è l’unica via utile per poter salvaguardare davvero la propria incolumità fisica e la propria libertà di organizzazione. Ma è anche (e in un certo senso soprattutto) il miglior modo per lanciare efficacemente un messaggio di unità ai lavoratori e ai giovani proletari di "casa nostra" e per combattere quel virus razzista che i massimi centri capitalistici spargono quotidianamente e a piene mani.

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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