Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci


Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Le grandi ambizioni del piano di Obama

Dal suo insediamento ad oggi l’amministrazione Obama ha lavorato a tutto tondo. In politica estera e, come emerge dalla scheda di pag. 12, in politica interna.

Attraverso i provvedimenti varati o messi in cantiere, Obama sta rivolgendo ai lavoratori Usa una promessa epocale: "Il vecchio capitalismo, ha detto loro, ci ha condotti nella recessione, in una situazione ecologicamente insostenibile, nell’ingiustizia sociale, sull’orlo di una catena di guerre inter-continentali. Noi intendiamo uscirne rinnovando il capitalismo". È davvero possibile?

La prima parte del ragionamento di Obama, fatte alcune precisazioni, non è affatto campata in aria. Obama sostiene che la crisi economica iniziata nell’estate 2007 e precipitata nel settembre 2008 non nasce semplicemente dall’irresponsabilità dei dirigenti di Wall Street e di Washington. Per lui, essi hanno la colpa di aver traccheggiato di fronte ai nodi che si andavano accumulando, di aver pensato di poterli sciogliere semplicemente con il pugno di ferro militare (v. Iraq) com’era nelle intenzioni neo-cons. Il problema di fondo, dice Obama, è, tuttavia, costituito da tali nodi. Ed è ad essi che dobbiamo pensare.

La promessa

La riflessione coglie nel segno. Il fatto è che il discorso del presidente Usa diventa elusivo proprio quando deve tratteggiare tali nodi. Egli cita la perdita di competitività dell’imperialismo Usa, l’inefficienza dal punto di vista economico e sociale del vigente sistema di assistenza sanitaria e previdenziale, l’insostenibilità ambientale ed economica della produzione e dell’uso di auto energivore, la crescente ostilità verso gli Usa dei popoli del Sud del mondo. Rimane, tuttavia, in sottotraccia la domanda cruciale che simile elenco pone sul tavolo: come mai il capitalismo, il sistema sociale che (soprattutto dopo il 1989) si auto-celebrava come l’unico in grado di condurre l’umanità verso il benessere e la pace, ha portato l’umanità quasi sull’orlo del precipizio, secondo le stesse parole di Obama? Qualcuno non ha applicato a puntino le regole del mercato capitalistico? Oppure non è che, come sostiene la dottrina marxista, siamo giunti sull’orlo del precipizio proprio perché il capitalismo ha funzionato alla perfezione? proprio perché la finalizzazione al profitto dei mezzi tecnologici e scientifici messi a punto dal lavoro umano sta trasformando queste conquiste da potenziali benefiche leve di progresso in strumenti di crisi economica, di precarizzazione dell’esistenza e di distruzione della natura?

Obama si guarda bene dal tirare in ballo tale domanda. Egli promette che il capitalismo, pur se ha condotto (non si sa per quale ragione) nel marasma i lavoratori degli Usa e del mondo intero, ha in sé la capacità di portare l’umanità fuori da questa crisi epocale. Di rilanciare i profitti delle imprese e, insieme, la crescita dei salari, come successe nel XX secolo. Di poterlo fare attraverso un’epocale trasformazione dei mezzi di trasporto e dell’apparato per la produzione dell’energia. Attraverso il cosiddetto  "Green Deal".

L’industria dell’auto ibrida, elettrica o a idrogeno, le energie rinnovabili, un nuovo sistema di distribuzione dell’energia, il rinnovamento delle abitazioni e degli uffici nel senso dell’efficienza energetica dovrebbero essere il pilastro del rinnovamento del capitalismo auspicato da Obama (1). Esso dovrebbe trovare il suo fluidificante nel rinnovamento del parco auto degli Usa e nell’ampliamento di quello della Cina, dell’India e dell’Estremo Oriente (2). Ambientalmente compatibile, assicura Obama, se basato su modelli automobilistici ad alta efficienza. È possibile che l’onda delle trasformazioni auspicate da Obama nel settore automobilistico ed energetico riesca ad aumentare notevolmente la capacità di generare profitto delle fabbriche statunitensi grazie agli effetti che tali trasformazioni porterebbero con sé: abbassamento dei costi delle materie prime, diminuzione del valore complessivo della forza-lavoro, dirottamento degli investimenti nei settori industriali "innovatori", riduzione della dipendenza geo-strategica dal petrolio e dalle regioni del Medioriente e dell’Asia centrale che ne detengono le maggiori riserve mondiali. Il punto che intendiamo discutere è un altro: a quali condizioni può realisticamente affermarsi il rilancio del capitalismo, Usa e mondiale, promesso da Obama?

L’appello al proletariato

Obama sa bene che il rinnovamento del capitalismo che intende pilotare non è una semplice operazione tecnologica. Né sul versante della struttura del potere capitalistico, né su quello del rapporto tra capitale e lavoro salariato. Esso richiede la penalizzazione di alcuni monopoli capitalistici Usa, la razionalizzazione della pubblica amministrazione, il drastico ridimensionamento dei privilegi conquistati dall’aristocrazia operaia statunitense nel corso del XX secolo.

Di poterlo fare attraverso un’epocale trasformazione dei mezzi di trasporto e dell’apparato per la produzione dell’energia. Attraverso il cosiddetto petrolio e dalle regioni del Medioriente e dell’Asia centrale che ne detengono le maggiori riserve mondiali.

Per definire le linee di tale ristrutturazione e organizzarne la guida, Obama si è circondato di consiglieri fidati raggruppati in un organo appositamente costituito, l’Erab. Il soggetto su cui punta per portarla ad effetto è, però, un altro: è il proletariato. È ai lavoratori che sta facendo appello il nuovo presidente degli Usa. Non alla loro mobilitazione di piazza per mettere ko i Madoff che siedono ancora ai vertici del potere capitalistico Usa. Bensì alla loro disponibilità a spremere cervelli, nervi e muscoli nei posti di  lavoro per mettere in campo i nuovi modelli di auto, la nuova rete di distribuzione dell’energia elettrica, ecc.

Obama intuisce che senza far leva su questa riserva di creatività e di autosfruttamento di massa, anche contro l’inerzialità, l’individualismo cieco e le rendite di posizione di alcune frazioni della borghesia statunitense, non si andrebbe da nessuna parte(3). Per conquistare l’appoggio dei lavoratori a questo progetto Obama non si limita ad affermare che, entro il capitalismo, non ci sono alternative al suo progetto. Offre o fa intravedere anche alcune contropartite: l’estensione dell’assistenza sanitaria alle decine di milioni di lavoratori attualmente "scoperti" e ai tanti lavoratori finora coperti da accordi aziendali in procinto di rimanerne privi per la crisi delle imprese, come successo per le Big Three dell’auto; la partecipazione agli utili aziendali con l’inserimento dei fondi pensionistici sindacali nel pacchetto azionario delle imprese; il tamponamento della disoccupazione con la creazione di alcuni milioni di posti di lavoro nel settore delle nuove infrastrutture sotto l’impulso dei finanziamenti federali; la promessa di un capitalismo meno distruttivo sul piano ecologico; l’estinzione o la riduzione dell’odio nutrito verso gli statunitensi dai popoli del Sud del mondo e il ritorno a relazioni amichevoli con questi ultimi, molti dei quali presenti negli Usa con significativi distaccamenti di immigrati; la riduzione, in conseguenza di ciò, dell’esigenza di andare avanti con la "guerra infinita" in Asia centrale, per la quale il Pentagono incontra difficoltà anche nel reclutamento delle truppe.

Il piano appare invitante. Tale si presenta anche per i lavoratori di una parte del Sud del mondo, che Obama invita a cooperare alla riforma del capitalismo mondiale in senso socialmente, nazionalmente ed ambientalmente più equo. La capacità di persuasione del piano è, inoltre, accresciuta da un altro elemento sottolineato dal neo-presidente degli Usa: il rinnovamento dell’industria dell’auto potrebbe innescare una cascata di innovazioni tecnologiche (compresa la fantomatica fusione nucleare controllata (4)) e di nuove industrie di merci durevoli di massa in grado di svolgere, con benefici per l’intero pianeta e non solo per il ristretto Occidente, il ruolo sostenuto nel XX secolo dalla filiera dell’auto(5).

Per i lavoratori dell’auto, per l’aristocrazia operaia statunitense, questo progetto richiede pesanti sacrifici? Certamente. Ma cos’altro possono fare, chiede Obama, in alternativa  alla chiusura totale delle imprese in cui lavorano? E, d’altronde, la crisi di tali imprese non ha privato anche loro della copertura sanitaria e previdenziale?

L’altra faccia della Luna

Quello che Obama non dice, e qui arriviamo alla seconda parte del suo programma, è cosa richiederà l’implementazione di questo "nuovo" capitalismo (ammesso e non concesso che possa effettivamente realizzarsi).

Esso dovrà, innanzitutto, risolvere il problema di fondo che ha condotto alla crisi attuale: l’insufficiente massa di profitti estratta dalle imprese, che ha portato ad una riduzione delle aspettative sui profitti futuri, alla speculazione finanziaria, all’ingolfamento delle vendite delle merci e ai tracolli che conosciamo. Il gruppo dirigente installato alla Casa Bianca punta a rilanciare i profitti con l’aumento del grado di sfruttamento della manodopera e la diminuzione del costo di una delle principali materie prime, l’energia. Mette l’accento sul fatto che intende ottenere l’uno e l’altro obiettivo mediante l’innalzamento della produttività del lavoro. Sorvola sul fatto che sarà fondamentale anche un altro ingrediente, come confessa l’accordo firmato alla Chrysler: l’aumento, sino al limite dell’umanamente sostenibile, dello sforzo lavorativo e della concentrazione (muscolare e mentale) richiesti ai lavoratori nell’attività produttiva. La partecipazione delle organizzazioni sindacali al pacchetto azionario delle imprese sarà di stimolo a simile bestialità, che le ricerche scientifiche e tecnologiche nell’ambito delle neuroscienze, della robotica e delle nanotecnologie si stanno incaricando di portare al parossismo.

Si pongono, quindi, due questioni.

1) Quale conseguenze ci saranno sull’esistenza dei lavoratori? Poiché non ci sembra che Obama parli di riduzione d’orario o di alleggerimento dei carichi di lavoro, i lavoratori Usa sono chiamati a mettere in preventivo  una vita colonizzata, schiacciata, annullata dal lavoro, più di quanto non accada già oggi.

2) Non ci sembra affatto, poi, che il capitalismo verde di Obama sarà un progresso dal punto di vista ecologico. Non ci sembra che con le auto ibride o elettriche o anche con le centrali nucleari a fusione si intenda mettere fine alla motorizzazione privata di massa e alla crescita abnorme di megalopoli disumane. Gli effetti dell’estensione della copertura del sistema sanitario che il governo degli Usa intende promuovere, saranno, quindi, sopravanzati dalle patologie indotte dal peggioramento della qualità del lavoro e della vita urbana generato dall’applicazione del piano di Obama. E non è tutto.

La metamorfosi del capitalismo mondiale perseguita da Obama, che dovrebbe far corrispondere l’organizzazione dei rapporti sociali borghesi al grado di socializzazione planetario ormai raggiunto dalle forze produttive, richiede anche uno stato mallevadore adeguato a tale scala, di potenza superiore a quello che lo ha preceduto, agli Stati Uniti. Potranno essere gli Usa con un condominio allargato ad alcuni paesi del Sud del Mondo, oltre che ai soliti (ma ridimensionati) alleati dell’Europa occidentale e, probabilmente, alla Russia. Potrà essere la Cina con una sua sfera di co-prosperità asiatica. Difficilmente, a parte una fase intermedia di manovre preparatorie per strappare spazi e risorse all’Ue e alla Russia, potrà essere un condominio tra i due (al momento ancora diseguali) colossi ai bordi del Pacifico. Per diverse ragioni.

Una di esse chiama in causa il rapporto di concorrenza capitalistica tra la borghesia statunitense e quella cinese. Vi ragioniamo nell’articolo dedicato alla Cina nelle pagine 14-15. Qui vogliamo soffermarci su un altro elemento.

Le guerre preparate  dal Nobel per la pace

Abbiamo detto che una delle condizioni di cui il capitale mondiale ha bisogno per tornare alla prosperità è la svalorizzazione della forza lavoro mondiale. Per ottenere tale svalorizzazione non basta la trasformazione dei sistemi produttivi e di trasporto incoraggiata da Obama, con il correlato aumento della produttività e il perfezionamento della scienza manageriale della torchiatura dei lavoratori. Occorre anche che una sezione del proletariato mondiale sia schiacciato al di sotto della media complessiva della condizione proletaria mondiale. Richiede che sia riplasmata una rigida gerarchizzazione razziale e nazionale del proletariato mondiale. Quella che si è consolidata nel corso del XX secolo, che ha fluidificato l’accumulazione mondiale per decenni e decenni, che vedeva i  lavoratori occidentali posti su parecchi gradini al di sopra dei lavoratori del Sud del mondo, ha cominciato a scricchiolare alla fine del XX secolo sotto l’effetto dei mutamenti intervenuti nella divisione internazionale del lavoro, dell’estensione massiccia della produzione industriale (anche tecnologicamente avanzata) in Asia e della volontà di "ascendere" delle giovani sezioni proletarie asiatica, latinoamericana e africana. 

È vero che questo cambiamento epocale ha permesso alle multinazionali di attingere ad uno sterminato serbatoio di forza lavoro a prezzi stracciati. Che esse lo hanno usato per ricattare i lavoratori occidentali e costringerli ad intensificare e allungare i loro orari di lavoro. Che lo hanno adoperato, allo stesso tempo, per attutire, grazie all’abbassamento dei prezzi dei beni durevoli di massa, gli effetti dell’attacco che stavano portando contro i lavoratori occidentali. Che vi hanno trovato una formidabile fonte per rilanciare i loro profitti, dopo la caduta degli anni settanta, e per colpire le lotte sociali che, dalla fine degli anni sessanta, si erano aperte entro le metropoli. È altrettanto vero, però, che negli ultimi anni questa spirale, che per un quarto di secolo ha gonfiato le vele delle multinazionali e del capitale mondiale, si è inceppata. Come mai?

Lo stesso sviluppo industriale dei loro paesi ha incoraggiato il proletariato cinese, quello dell’Europa dell’Est, dell’Africa e dell’America Latina (ed i loro immigrati in Occidente) a strappare migliori condizioni di vita e di lavoro. Tale sviluppo e l’incapacità degli Usa di schiacciare la resistenza antimperialista araboislamica concentrata nel forziere petrolifero mondiale (il Medioriente e l’Asia centrale) hanno spinto al rialzo il prezzo del petrolio e delle materie prime, e messo alle strette i margini di questa gigantesca fonte di superprofitti delle imprese occidentali.

Nello stesso tempo le multinazionali non sono riuscite a far avanzare le condizioni sociali e tecnologiche con cui acquisire la carta che intendevano giocare (sotto la regia del pugno di ferro del Pentagono e della Nato) per smantellare questi due ostacoli: l’incorporazione nell’esercito del lavoro direttamente sfruttabile delle centinaia di milioni di lavoratori poveri delle campagne dell’Estremo Oriente. Ciò ha ridotto i margini per il mantenimento, anche se al ribasso,del vecchio compromesso sociale negli Usa (e in Occidente). Obama è entrato in gioco proprio per arginare questo complessivo declino dell’egemonia dell’imperialismo n.1 verso i lavoratori degli Usa (statunitensi e immigrati) e verso i lavoratori terzo-mondiali. Per impedire che l’accelerazione impressa a questa dinamica dai parziali fallimenti militari della politica di Bush aprisse le porte ad una dirompente crisi sociale nel cuore del capitalismo mondiale.

L’obiettivo di fondo è rimasto lo stesso: ricacciare indietro i lavoratori dell’Asia e di ampie zone del Sud del mondo, tamponare i contrasti sociali nel centro direttivo dell’accumulazione mondiale, rilanciare la competitività dell’imperialismo Usa.

Obama intende perseguirlo seguendo un’altra, più efficace, strada: assecondare (grazie ai margini offerti dall’aumento della produttività del lavoro e dallo schiacciamento dei lavoratori asiatici) il tendenziale avvicinamento tra la condizione dei lavoratori del Nord e quella dei lavoratori del Sud collocati entro i confini della metropoli, più ampia di quella attuale, del capitalismo del futuro; suscitare in tal modo la disponibilità di questa sezione del proletariato a battersi (magari nel nome del "Green Capitalism" contro l’inquinante industrialismo cinese) per ricacciare nell’inferno i fratelli di classe asiatici; costituire in tal modo la base popolare per un pilastro politico-militare del capitalismo mondiale più solido di quello statunitense su cui si è retto il capitalismo dell’ultimo secolo.

La Santa Alleanza contro i lavoratori della Cina

La strutturazione di una nuova gerarchia del proletariato mondiale non potrà, ovviamente, essere indipendente dalla polarizzazione geografica del controllo delle leve scientifiche e tecnologiche dell’industria del futuro. Con la rivoluzione tecnologica chepatrocina e alla quale intende condurre gli Usa prima di altre potenze capitalistiche, Obama promette ai lavoratori Usa di portare a casa questo risultato. Quando egli dice, rivolgendosi ai lavoratori, che chi controllerà l’energia del futuro, controllerà il futuro, fa riferimento a tale ricaduta.

Una simile partita non può, però, essere decisa solo mediante la spontanea competizione economica. Uno dei motivi sta nel fatto che i lavoratori cinesi e asiatici non accetteranno pacificamente di indietreggiare. Quello che è accaduto negli ultimi decenni nel mondo arabo-islamico è una pallida anticipazione di questa resistenza del proletariato asiatico e dello scontro futuro che si annuncia. Verso tale scontro spinge, ovviamente, anche la concorrenza borghese tra Pechino e Washington. Tanto per dire: i capitalisti cinesi e asiatici non possono accettare consensualmente il ruolo marginale e subordinato nella divisione del bottino capitalistico implicato da simile ritorno all’inferno dei "propri" lavoratori. Il loro obiettivo di candidarsi a diventare la nuova cupola del capitalismo mondiale, per la salvezza delle proprie tasche e del planetario sfruttamento capitalistico, richiede, semmai, la gerarchizzazione in senso inverso nei confronti della sezione proletaria e della frazione capitalistica collocati in Occidente.

Che il nuovo Nobel per la pace stia arando il terreno a simile catena di guerre, lo possiamo registrare sin da ora se guardiamo l’evoluzione della situazione internazionale degli ultimi mesi. Le aperture di Obama al mondo islamico, all’Africa, all’Europa dell’Est servono per preparare la Santa Alleanza contro la Cina, quella capitalista e quella proletaria. Per neutralizzarvi le manovre economiche, diplomatiche e d’immagine che la Cina ha portato avanti proficuamente negli ultimi anni. Per raccogliere intorno a sé quella simpatia di miliardi di persone in America Latina, in Africa e in Asia meridionale senza la quale gli Usa non potrebbero neanche pensare di fronteggiare la forza industriale, militare e demografica della Cina. Le tensioni tra Washington e Pechino sul fronte delle monete, nella gara per il controllo dell’Africa e nel groviglio dei Balcani dell’Asia centrale (a partire dall’Afghanistan-Pakistan) sono indicative della miscela tenebrosa che il capitalismo "verde" di Obama sta per riversare sul pianeta.

E il proletariato Usa?

Per noi, dunque, Obama è un nemico di classe dei lavoratori, degli Usa e del resto del mondo. È il rappresentante della controrivoluzione preventiva che il sistema capitalistico mondiale, dal suo centro dirigente attuale, lancia contro gli sfruttati per sventare le premesse di una nuova ondata rivoluzionaria proletaria e per offrire all’umanità una nuova era di immondizia capitalista.

Sappiamo bene che neanche la parte più avanzata del proletariato Usa condivide la nostra posizione. Che essa guarda con favore alla politica e alle promesse di Obama. La situazione non è, però, ferma. La realizzazione delle "riforme" messe in cantiere da Obama non sarà indolore.

Settori potenti del capitale monopolistico stanno remando contro. Stanno cercando anche di mobilitare al loro fianco i lavoratori delle industrie che vi fanno riferimento, quelli del settore petrolifero, militare, farmaceutico, per i quali le riforme di Obama potrebbero effettivamente tradursi in un arretramento simile a quello subito dai lavoratori della G.M., della Chrysler e della Ford. È, di conseguenza, probabile che lo scontro di classe negli Usa si acuisca e che i lavoratori favorevoli al programma di Obama siano costretti a scendere in piazza  per neutralizzare le resistenze "neocons".

O, in alternativa, che la sterzata di Obama sia paralizzata. Nell’uno e nell’altro caso, la classe operaia sarà probabilmente spinta sul ring dello scontro di classe. Su questo piano appaiono promettenti alcuni segnali provenienti dall’interno del movimento sindacale statunitense: l’aumento del numero degli iscritti per il secondo anno consecutivo dopo un’emorragia durata decenni; il protagonismo riscontrato tra gli immigrati latinoamericani e le lavoratrici; la spinta tra le basi delle due confederazioni sindacali che si sono scisse qualche anno fa (l’Afl-Cio e Change to win) a convergere nelle azioni di lotta e a tornare insieme organizzativamente per contare di più È sperare troppo ch  lo stringersi delle contraddizioni sociali e politiche sprigioni dal cuore e dalle menti di pur ristretti nuclei proletari la conclusione secondo cui ad essere giunto al suo fallimento storico nel ventennio 1989-2009 è il capitalismo, prima nella sua forma arretrata dell’ex-Urss e ora nella sua forma avanzata Usa? È troppo sperare che tale riflessione senta l’esigenza di riconquistare i punti più alti della lotta e dell’elaborazione teorica del movimento comunista nella sua esperienza plurisecolare? Che questi nuclei militanti si battano per legare le lotte di difesa immediata dei lavoratori negi Usa con la denuncia del senso di classe della politica estera della Casa Bianca e della sua "velata" campagna anti-cinese?

Note

(1) Ciò spiega gli accordi tra le maggiori case automobilistiche (negli Usa e in Giappone)  con le multinazionali dell’elettronica costruttrici di batterie per la messa a punto di strutture meno pesanti e più efficienti di quelle oggi disponibili. A tal fine sarà decisivo il controllo della materia prima che sembra essere il perno delle batterie di nuova generazione: il litio. Già oggi il litio è il materiale strategico per le batterie dei telefonini ed intorno ad esso c’è un mercato annuo di 80 miliardi di dollari. Tali batterie, oltre ad essere ricaricabili senza essere giunte all’esaurimento, garantiscono un’efficienza 4 volte superiore a quelle di nichel-cadmio costruite negli anni novanta del XX secolo. Il servizio geologico Usa stima che la metà delle riserve mondiali sia in Bolivia. Da alcuni mesi le manovre di Germania, Giappone, Usa, Francia e Cina su La Paz si sono intensificate...   Per la ristrutturazione in corso nell’industria automobilistica mondiale sono significative anche le trattative avviate tra alcune multinazionali dell’auto e i giganti che controllano la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica.

(2) Nel 2008 la Cina è diventata il primo mercato mondiale delle auto con la vendita di 10,7 milioni di autovetture. Nello stesso anno negli Usa sono state vendute 9,7 milioni di auto. La motorizzazione di massa potrebbe portare all’acquisto di 200-300 milioni di automobili in India e Cina nel giro di un decennio. Attualmente ogni anno vengono prodotte nel mondo un’ottantina di milioni di autovetture...             

(3) Serve ad incoraggiarla e a renderla efficace la ristrutturazione del sistema scolastico intrapresa da Obama e la cura che, in tale ristrutturazione, viene riservata alla preparazione matematico-scientifica della futura forza lavoro. L’era in cui gli Usa potevano attingere al cervello sociale del mondo intero è finita. La nuova generazione di lavoratori specializzati e di scienziati degli altri continenti comincia a trovare conveniente formarsi nei centri europei e asiatici oppure tornare in patria dopo il tirocinio negli Usa.

(4) Poco dopo l’insediamento dell’amministrazione Obama, che presenta come ministro dell’energia un premio Nobel per la fisica, sono ripresi gli esperimenti nel laboratorio nucleare di Livermore (presso S. Francisco) sulla fusione nucleare controllata.

(5) Dalla Germania, ad esempio, la Siemens ha preso in considerazione la possibilità di costruire e commercializzaregeneratori di corrente elettrica di nuova generazione da installare nelle singole abitazioni e su cui basare i perni del nuovo sistema di produzione distribuzione dell’energia e dell’alimentazione automobilistica...

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci