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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Capitale, stato e... rivoluzione

City Group, Lloyds Bank, Chrysler, General Motors, Deutsche Bank, Commerzbank, Royal Bank of Scotland, ecc.: la lista delle nazionalizzazioni di fatto che negli Stati Uniti ed in Europa ha coinvolto le maggiori banche e parte dell’apparato produttivo è molto più lunga e corposa. Fiumi di denaro "pubblico" sono stati impiegati per tamponare le colossali perdite di questi giganti finanziari e industriali e per tentare di rimetterli in sesto. Il mondo del lavoro ha guardato quasi ovunque con simpatia e speranza a queste politiche di maggior intervento dello stato in economia vedendo in esse l’unico strumento con cui poter fronteggiare la crisi e limitarne i più devastanti effetti. È davvero così? Ragioniamone. A partire da alcune questioni che a nostro avviso mostrano come l’aperta ed esplicita irruzione dell’apparato statale in campo economico non è affatto una mano tesa verso i lavoratori, ma costituisce una sorta di pronto soccorso (temporaneo) a vantaggio della grande finanza e delle imprese. Che segnala, però, anche qualcosa di molto più profondo e per noi molto, molto interessante...

Per una volta sorvoliamo sul fatto che i cosiddetti soldi "pubblici" altro non sono che ricchezza estorta ai lavoratori e incamerata dagli stati e su come e quanto gli "aiuti statali" siano andati quasi integralmente a vantaggio dei grandi azionisti e della grande finanza, mentre solo le briciole siano state riservate agli operai, ai precari e ai disoccupati. Diamo per scontati questi (per nulla secondari) fatti e proviamo ad andare un po’ più a "fondo" nelle cose.

Lo stato, altra faccia del capitale

Una vecchia e diffusa "favola" racconta che alla sua nascita e nel periodo della sua giovinezza il sistema capitalistico fosse integralmente "liberale" e che il ruolo dello stato in esso fosse minimo. In tale rappresentazione la scena del nascente mondo borghese è occupata da mercanti e imprenditori che con coraggio e parsimonia mettono su le prime aziende a loro totale rischio e pericolo. I vari attori si confrontano l’un con l’altro e a fare da arbitro è solo il mercato con le sue regole ed i suoi "valori".

Ad emergere e a salire nella scala sociale sarebbero dunque i "migliori elementi" della società, i più bravi, i più attivi, i più intraprendenti tra i cittadini. In questo stadio, narra la "favola", il potere statale è ancora assente. O, meglio, riveste un ruolo di secondo piano. Per quanto riguarda le questioni economiche, se ne sta tranquillamente in disparte. Solo successivamente inizierà ad intervenire in questo campo, soprattutto (la leggenda è proprio antica) al fine di garantire alcune tutele ai lavoratori.

La realtà storica è totalmente diversa. Sin dai suoi albori il capitale va a braccetto con lo stato. Ha un vitale bisogno dell’intervento delle monarchie nazionali, non solo in qualità di sbirro contro il proletariato, ma anche come leva economica per sviluppare gli affari, l’accumulazione e la concentrazione di enormi ricchezze.

A tal proposito è utile richiamare almeno tre delle questioni che Marx, nel  primo libro de Il Capitale, analizza magnificamente.

1) Le feroci e sanguinarie legislazioni contro i poveri che tra il 1300 e il 1700, soprattutto in Inghilterra, funsero da potente strumento per costringere riottose masse di contadini e di artigiani espropriati ad "accettare" di trasformarsi in proletari sottoposti ad un brutale sfruttamento elle sorgenti manifatture.

2)  L’espansione e la rapina coloniale, impossibile senza l’intervento dello stato, che costituì un fondamentale propellente per il poderoso salto in avanti compiuto tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo dal capitalismo europeo.

3) Il sistema fiscale e del debito pubblico, altro elemento essenziale per dare l’avvio all’accumulazione borghese su vasta scala e per procedere nell’espropriazione dei piccoli produttori indipendenti.

Questa triplice funzione dello stato borghese è permanente. Essa accompagna costantemente il capitalismo (anche se in forme e modalità  mutanti),   sia nelle sue fasi di prosperità che in quelle di crisi.

La "pianificazione" statale: a vantaggio di chi e di cosa?

Dunque è una corbelleria quella per cui lo stato sarebbe entrato nel "gioco economico" solo da un certo momento in poi. E corbelleria è anche quella per cui lo stato farebbe ciò al fine di venire incontro alle esigenze dei lavoratori e della società tutta, frenando gli impeti selvaggi a cui il capitale "lasciato a se stesso" darebbe libero sfogo. L’opera dello stato, al contrario, serve a elevare alla massima potenza questi impeti disciplinandoli agli interessi del capitale come totalità. Perché, certo, l’intervento statale a volte consiste anche nel limitare la libertà d’azione di singoli borghesi e di singole aziende, ma solo a vantaggio della salvaguardia e dell’interesse dell’intero sistema, cioè della (per così dire) "collettività" degli sfruttatori. In realtà il singolo borghese nontrae le sue (ci si passi il termine) ricchezze dallo sfruttamento dei "propri" e "specifici" operai. Ma è come se la ricchezza sociale estorta complessivamente (cioè dalla totalità delle aziende e dal sistema preso nel suo insieme) al proletariato finisse in una sorta di "cassa comune" da cui i vari capitalisti prelevano le loro differenti quote in relazione ai rapporti di forza tra di essi vigenti. Ai pescecani più grandi le fette più grosse, a quelli più piccoli il resto.

L’intervento statale per "mitigare gli eccessi dei singoli imprenditori" serve proprio a tutelare e blindare questo contenitore collettivo, a "razionalizzarlo", a predisporne il suo ampliamento e il suo rimpinguamento.

Ma questa "pianificazione" statale e monopolistica (l’unica possibile nell’ambito del sistema borghese) si dimostra in realtà una ferrea pianificazione dello sfruttamento di classe che, al contempo, eleva al massimo grado la concorrenza e l’anarchia capitalista. A contendersi profitti e mercati non sono più aziende pigmee di imprenditori individuali. Lo scontro è adesso tra stati e imprese multinazionali di dimensioni e forze titaniche. Tutte le contraddizioni, anziché ridursi, risultano enormemente accresciute.

Affermazioni campate in aria? Vediamo cosa dicono i fatti storici.

Due guerre mondiali e una grande crisi: e la chiamate razionalizzazione?

Lo sviluppo dei grandi monopoli finanziari e industriali strettamente interconnessi con lo stato e i governi conobbe un balzo verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo. In quel periodo, all’interno del movimento operaio cominciarono ad affacciarsi posizioni, come quella di Bernstein, per le quali la formazione dei monopoli e il loro collegamento con i vertici dell’apparato statale erano l’anticamera di un capitalismo capace di razionalizzare l’accumulazione, e con ciò di sfumare progressivamente le sue contraddizioni. Ebbene, a chi diede ragione la prima guerra mondiale? Ai propinatori di simili favole o a chi, come Lenin, sosteneva che il capitalismo monopolistico e di stato avrebbe condotto a esacerbare ed esasperare tutte le contraddizioni insite nel modo di produzione capitalistico?

Venne poi la seconda guerra mondiale, preceduta negli anni trenta negli Usa e in Germania, i due paesi che furono gli attori fondamentali dello scontro bellico del 1939-1945, da un altro balzo in avanti nell’assunzione del controllo dell’apparato finanziario e produttivo da parte dello stato, di uno stato sempre più penetrato dagli imperativi del capitale. Quel controllo sull’economia ha forse umanizzato il sistema? Non sembra proprio. Semmai ne ha rafforzato l’imbarbarimento regalandoci, tra l’altro, bombardamenti atomici e campi di stermino e di lavoro "schiavistico".

 Ed oggi? Il ruolo degli stati è stato ancora una volta essenziale nel favorire quel processo di enorme espansione e dislocazione produttiva verso l’Asia avvenuto a partire dall’inizio degli anni ’80. Questa gigantesca azione di "espansione capitalistica" ha forse mitigato lo sfruttamento del proletariato? o lo scempio della natura che viene fatto in nome del profitto? o il ricorso alla violenza bellica nelle relazioni internazionali? Ha mitigato qualche contraddizione del sistema capitalistico o, invece, le ha riproposte (le sta riproponendo) tutte, potenziate a scala elevatissima? E ancora: lo stato (come promette da due secoli la propaganda borghese) è forse diventato più "leggero" e meno costoso per la società? oppure ovunque gli apparati statuali, tanto quelli preposti direttamente alla repressione, quanto tutti gli altri, sono cresciuti e si sono moltiplicati a dismisura diventando sempre più esosi e soffocanti? La risposta, per noi almeno, è scontata: lo stato, gli stati, stanno diventando sempre più ipertrofici. Vediamo perché.

Lo stato-elefante deve tenere a bada la classe lavoratrice…

Lo sviluppo elefantiaco dello stato è il prodotto di due necessità distinte, ma combinate.

La prima necessità è quella di disciplinare e "tenere sotto" il proletariato. Questo decisivo obiettivo non si può raggiungere né si può mantenere nel tempo, solo tramite mezzi apertamente coercitivi e repressivi. Serve (anche) dell’altro. Lo stato deve presentarsi ed essere percepito come un arbitro "giusto e neutrale" che supervisiona all’andamento della società. Di più: esso deve assumere anche l’aspetto del "buon padre di famiglia" che provvede ad assicurare le esigenze (almeno quelle elementari) delle classi "lavoratrici e povere", chiamandole, col tempo, a essere addirittura partecipi della gestione della "cosa pubblica" attraverso i propri rappresentanti ufficiali.

Questa tendenza comincia a manifestarsi con chiarezza negli ultimi decenni del 1800 in Francia, in Germania e in Inghilterra. Non a caso. La Francia viene fuori dalla sanguinosa repressione della insurrezione proletaria culminata nella Comune di Parigi del ‘71. In Germania avanza a vista d’occhio "l’infezione socialista" di una classe operaia in tumultuosa crescita. Mentre in Inghilterra l’avvio di una serie di "concessioni" sociali si poggia sul fatto che Londra (all’epoca la principale potenza mondiale), grazie al bestiale saccheggio delle colonie, può elargire qualche briciola ai "suoi" proletari al fine di sedarne gli animi e farli accodare al proprio carro imperialista.

Di fronte alla forza (quand’anche solo potenziale) della classe lavoratrice, la borghesia è costretta a prendere atto che il pugno di ferro da solo non basta più. Ecco quindi le prime politiche organiche dello stato in campo "sociale" con le prime forme di previdenza e di assicurazione verso gli operai e con primordiali norme di legislazione sul lavoro.

Da allora queste politiche non saranno mai abbandonate; anzi esse verranno rese più complesse ed articolate ed affiancheranno sempre (sia pur tra alti e bassi) l’azione degli stati. Il fascismo e, ancor di più, il nazismo accompagnarono la loro opera di sistematico attacco ad ogni forma di indipendenza organizzativa e politica del proletariato con interventi "sociali" sistematici ed oculati. In modo simile, negli Stati Uniti degli anni ’30, il tanto decantato intervento "pubblico" in favore dei lavoratori  (il New Deal) andò di pari passo con una durissima (e pochissimo nota) repressione statale diretta contro le vaste lotte operaie che si dispiegarono nel paese.

Il cosiddetto welfare state non è dunque una gentile concessione dei capitalisti e dei loro stati. Il suo sviluppo è stato reso possibile dal brutale super-sfruttamento operato dai paesi occidentali sulle masse lavoratrici del Sud del mondo. La loro riduzione in stato di semi-schiavitù è stata infatti la principale fonte da cui le potenze d’Occidente hanno estratto quella massa di sovrapprofitti che ha consentito "qui da noi", tra l’altro, l’edificazione dello "stato sociale".

Allo stesso tempo, esso è un risultato della forza operaia e un argine che la borghesia erige contro i possibili sviluppi in senso rivoluzionario di questa stessa forza. Dall’alto di questo argine lo stato si presenta (falsamente) come il rappresentante e l’armonizzatore degli interessi di tutte le classi. Con ciò non si punta "solo" ad addormentare il proletariato, ma anche e soprattutto a "statizzarlo". A infondere cioè in esso la convinzione che i suoi destini, la difesa delle sue condizioni e ipotetici miglioramenti, siano indissolubilmente legati all’andamento della nazione. Il bene dello stato è presentato come base indispensabile per il bene del lavoratore: tanto in tempi di "pace" quando si è chiamati a sfinirsi di fatica nelle fabbriche e nei cantieri, quanto in tempi di guerra quando si è spediti a far da carne da cannone sui fronti militari.

… e "guidare" capitali sempre più giganteschi.

La seconda necessità cui deve rispondere uno stato capitalistico sempre più ipertrofico è quella di coordinare tra loro, di "guidare", capitali singoli di dimensioni e peso crescenti ad infinitum. Nel diciottesimo secolo, all’epoca delle prime manifatture, la dimensione regionale degli stati, ad esempio dei Paesi Bassi, era idonea a garantire il funzionamento del meccanismo capitalistico. Di lì a poco, però, questi "contenitori" iniziarono a dimostrarsi troppo piccoli per assolvere ai nuovi compiti posti all’ordine del giorno dalla rivoluzione industriale. Così il passaggio dalla manifattura alla moderna fabbrica sempre più meccanizzata richiese la supervisione e l’ausilio di grandi stati nazionali, primo fra tutti quello inglese. L’allargamento ulteriore della scala produttiva con il passaggio all’impresa multinazionale verticalmente integrata vide l’affermarsi come capo-bastone del capitalismo mondiale (detto per inciso: tramite due conflitti mondiali) degli Usa, stato con basi continentali e con ampi tentacoli internazionali.

La strettissima correlazione tra stadio dello sviluppo capitalistico e stadio di sviluppo degli apparati statuali deriva dal fatto che il fine intimo e invariante di questo sistema sociale è accumulare senza sosta profitti e capitali. Per far questo, esso è costretto ad esercitare continuamente un’enorme pressione sul proletariato, a "rivoluzionare" e rendere sempre più "efficiente" il meccanismo produttivo. Si è così passati da una fase storica in cui tale meccanismo era abbastanza semplice e concentrato quasi interamente all’interno di uno stesso stabilimento, o quanto meno (eccezion fatta per alcune materie prime), all’interno dei confini nazionali, alla fase attuale in cui il processo produttivo è in buona parte "socializzato" a scala mondiale tanto che, sempre più spesso, le merci sono prodotte dal lavoro, coordinato e combinato capitalisticamente, di lavoratori dislocati ai quattro angoli del pianeta.

Nessuno, ad esempio, può oggi dire chi e dove si costruisca un’automobile: i cavi elettrici vengono da una fabbrica sudamericana, le tappezzerie da una asiatica, i motori forse da uno stabilimento polacco, mentre il tutto poi viene assemblato da qualche altra parte, magari in Germania o negli Usa.

In questa corsa che dalla manifattura semi-artigianale conduce alla fabbrica planetaria, il capitalismo mondiale, al pari di uno stregone, produce ed evoca forze (a cominciare da una classe operaia sempre più mondializzata) che rischiano di sopraffarlo.

L’apparato produttivo è diventato così  potente ed esteso che può continuare ad essere finalizzato alla produzione di merci e di profitto solo al prezzo dell’abbrutimento dell’umanità lavoratrice in un’esistenza robotizzata e del saccheggio della natura Oggi persino il mega-stato a stelle e strisce inizia ad essere insufficiente per imbrigliare le gigantesche forze produttive dispiegate sul pianeta entro gli ormai putrescenti rapporti capitalistici.

L’attuale crisi è espressione e spia di tale insufficienza, della necessità per il capitalismo di dotarsi di una "cabina di regia" che abbia un "governo" della produzione e basi ancor più mondializzate. Le nazionalizzazioni, più o meno striscianti, compiute negli Usa, in Germania e in Gran Bretagna nei mesi scorsi segnalano questo enorme problema storico, e sono un tentativo di dare ad esso risposta. Attraverso le nazionalizzazioni di alcuni pesi massimi del credito e dell’intermediazione finanziaria statunitensi si è, di fatto, costituita una sorta di mega-banca "statale". Questa, attraverso i mille fili del credito, non solo ha nelle proprie mani i destini di centinaia di milioni di "privati cittadini", ma ha in pugno anche una foltissima schiera di piccole, medie, grandi ed anche grandissime aziende. Può conoscerne la contabilità e la capacità industriale. Può dare e togliere loro l’ossigeno. Può indirizzare, "razionalizzare" e guidare una cospicua fetta dell’apparato produttivo americano e mondiale.

Certo, tutto ciò risponde ad un’esigenza interamente borghese, ma, a ben vedere, segnala (e in un certo senso "ammette") un fatto di importanza storica: la scala della produzione e il livello della tecnologia a cui si è giunti, non solo rende possibile ma necessita di un governo planetario di tali forze realmente razionale e collettivo per porle al servizio dell’umanità. Diciamo e sottolineiamo "segnala" perché l’intervento dello stato capitalistico in economia(quand’anche fosse quello di un "super-stato"), ha la funzione di argine contro questa possibilità e non quella di ponte per il suo raggiungimento. È, innanzitutto, la storia ad avvertirci di questo dato.

E ora?

Ciò che la crisi in corso indica è che il sistema capitalistico interamente mondializzato dei nostri giorni ha oggettivamente bisogno di un "nuovo", più potente, più "perfezionato" stato capo-bastone che garantisca l’accumulazione a scala mondiale e che operi tendenzialmente a questa stessa scala una regia unitaria della produzione per il profitto mondializzata. Se questo ruolo sarà ancora una volta ricoperto dagli Usa previa la loro ristrutturazione e il loro rilancio, o da altri (la Cina?) o da ulteriori diverse "combinazioni", non è dato al momento saperlo.

Due cose sono invece certe.

1) A questo nuovo assetto il capitale mondiale potrà giungere solo attraverso conflitti e distruzioni di immane portata.

2) Nessun "super-stato" potrà superare realmente la contraddizione sempre più spinta tra lo sviluppo delle forze produttive e il modo capitalistico di produzione e di appropriazione.

A farlo potrà essere solo l’azione rivoluzionaria del proletariato volta, però, non a conquistare la macchina statuale così come essa si presenta, ma ad affrontarla per spezzarla da cima a fondo. Lo stato borghese infatti è irrimediabilmente burocratico, esoso, legato da mille e inscindibili fili agli interessi e alla "logica" capitalistici. Quanto più esso ha le mani in pasta nell’economia, tanto più accentua queste sue caratteristiche. Si tratta di uno strumento che in ogni caso può servire solo ed unicamente ad una minoranza di sfruttatori per opprimere la maggioranza degli sfruttati. Un apparato che non solo sprigionerà tutta la sua forza repressiva in funzione antirivoluzionaria, ma che, se pure fosse "conquistato", non sarebbe affatto utilizzabile.

Né per consolidare il potere della classe lavoratrice, né per portare avanti le misure economiche che tale potere dovrà intraprendere. Il capitalismo di stato, infatti, tende a "razionalizzare" all’estremo la produzione per il profitto. Questo significa che opera per ridurre al minimo i costi di produzione, a cominciare da quello del lavoro, e per massimizzare invece in modo spinto orari e intensità della prestazione lavorativa (un assaggino di ciò è fornito dall’accordo imposto agli operai della Chrysler).

Produrre porcherie in quantità inaudita purché si possano vendere con guadagno. Investire massicciamente in apparati repressivi e militari finalizzati a guerre di rapina contro le masse sfruttate del pianeta e a stringere (anche in funzione preventiva) la catena intorno al collo del proletariato internazionale.

Devastare e inquinare la natura in nome degli "affari", magari anche della "ecologia" capitalistica. Per far uscire il genere umano da quel pantano di sudore, sangue e fango in cui la società borghese lo tiene schiavo, il proletariato al potere dovrà andare in direzione completamente contraria. Le produzioni inutili e dannose andranno chiuse. Tutte le risorse dovranno essere riallocate e riequilibrate a scala mondiale, e indirizzate verso ciò che è socialmente utile. Il tempo di lavoro andrà abbattuto radicalmente per dare spazio alla socialità e al pieno sviluppo intellettuale e fisico di tutti. La produzione dovrà essere pianificata globalmente e non più finalizzata al profitto, ma al benessere collettivo. Le scienze e la tecnica non saranno più impiegate per succhiare ogni energia vitale ai lavoratori e saccheggiare la natura, ma per soddisfare i bisogni e le esigenze dell’umanità in un corretto e armonico rapporto con l’intero ecosistema.

Un compito di simile portata epocale richiederà il massimo di protagonismo e di iniziativa da parte delle masse proletarie a scala internazionale.

Servirà quindi un arnese di comando completamente diverso da quello borghese. Lenin lo definì un semi-stato per demarcarlo dallo stato borghese e dal capitale e sottolineare come per uscire dalla morsa del capitale, bisogna uscire anche dalla morsa dello stato. "Noi marxisti siamo contro ogni stato": è ancora Lenin a dirlo. E ciò significa che il potere proletario dovrà favorire per davvero ciò che costituisce l’antitesi di "ogni stato" espressione delle classi sfruttatrici: la reale partecipazione attiva, energica, diretta dei lavoratori alla riorganizzazione ed alla direzione della società. E dovrà perciò essere un organismo agile, operativo, per nulla burocratico, in quanto strumento dell’enorme maggioranza della società, gli sfruttati, per reprimere la minoranza, gli sfruttatori. Un organismo che quando la resistenza dei capitalisti sarà definitivamente stroncata, cesserà progressivamente e completamente ogni sua funzione per lasciare posto alla semplice gestione economica ed amministrativa di una società (quella comunista) finalmente non più divisa in classi, e quindi libera da ogni necessità di repressione sistematica verso una parte della sua popolazione. furono, tranne che graziose elargizioni dall’alto.

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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