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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

La Cina capitalista prova a non deragliare, e a proporsi, addirittura, come il nuovo modello.

La più profonda crisi economica degli ultimi 70 anni pare avere solo sfiorato la Cina. Europa e Stati Uniti hanno dovuto registrare importanti cadute della produzione, e ancora al G-20 di Pittsburg si sono rifiutati di parlare di exit strategy dalla crisi considerando la cosa prematura.

I buro-capitalisti di Pechino, invece, ostentano tranquilli per il 2009 un tasso di crescita pari all’8% ottenuto grazie a un colossale piano di intervento statale. E si permettono di fissare per gli anni a venire traguardi ancora più ambiziosi grazie alla prospettiva, da loro rilanciata in occasione del 60° anniversario della Repubblica popolare, del "socialismo" di mercato.

È forse l’ennesimo "miracolo cinese", capace di salvare insieme il capitalismo cinese e il capitalismo mondiale attraverso un nuovo, più equilibrato, modello di sviluppo capitalistico emendato dagli eccessi del neo-liberismo? Proviamo a vedere.

Fine di un ciclo

Negli ultimi tre decenni la Cina ha conquistato un posto centrale nella divisione internazionale del lavoro, meritandosi il titolo di fabbrica del pianeta. Lo straordinario sviluppo della sua produzione manifatturiera, è noto, si è progressivamente espanso dalle produzioni tradizionali a maggior contenuto di lavoro vivo (tessile, calzaturiero, giocattoli) ai settori consolidati a forte intensità di capitale fisso (elettrodomestici, televisori, auto) fino ai settori ad alta tecnologia (elettronica e componenti dell’industria aerospaziale).

Una molla importante di questa travolgente crescita, avvenuta quasi sempre ad un tasso superiore al 10% annuo, sono stati gli investimenti esteri richiamati dalla politica di apertura denghista, che nel biennio 2006-2007 hanno raggiunto il picco degli 86 miliardi annui; ma solo dei cretini matricolati possono ignorare il ruolo svolto dagli investimenti interni, dall’incremento della produttività del lavoro (1) e dagli straordinari risultati raggiunti nel processo di alfabetizzazione e di acquisizione delle capacità matematiche di base da parte della massa degli operai e delle giovani operaie della Cina – il ruolo svolto, cioè, dalla energia propulsiva di lungo periodo della rivoluzione popolare maoista, e da una forza-lavoro,da una classe lavoratrice in grado di interagire con i più moderni risultati delle scienze naturali e della tecnica (non poco ci sarebbe da dire anche sul nesso tra l’antica, straordinaria tradizione manifatturiera e coltivatrice cinese dell’epoca pre-borghese e l’attuale industrialismo della Cina, ma non è qui possibile, purtroppo).

A seguito di questo ciclo di sviluppo l’economia cinese, da semichiusa quale era a metà anni ‘70, si è integrata in pieno e definitivamente nel mercato mondiale. È divenuta anzi una tra le economie "nazionali" più aperte, con le esportazioni pari al 40% del pil e le importazioni al 30%. Sebbene ci siano alcune nazioni asiatiche minori ancor più dipendenti, la dipendenza della Cina dal proprio export di merci è andata in crescendo, e "l’impulso all’export dovrà continuare per finanziare le sue crescenti importazioni di beni di investimento e di materie prime e per evitare che la disoccupazione faccia esplodere una bomba sociale e politica"(2). L’ingresso nel WTO ha costituito un ulteriore salto nel processo di integrazione della Cina nel mercato globale.

La dirigenza cinese era divisa circa la bilancia costi-benefici. I fatti successivi sono stati meno controversi: nei primi cinque anni dall’entratanel WTO, avvenuta nel 2001, la Cina ha quasi raddoppiato il suo pil, sorpassando in tromba Italia, Francia e Gran Bretagna. Negli ultimi anni ha poi scavalcato anche la Germania arrivando a un’incollatura dal Giappone, ormai a rischio di vedersi superato già nel corso di questa crisi. Certo, i contadini cinesi, con in testa i produttori di soia, cotone e canna da zucchero, hanno pagato un prezzo salato per l’abbattimento delle barriere tariffarie conseguente all’ingresso nel WTO.

Secondo alcune stime addirittura i tre quarti di essi ne è stato in qualche misura danneggiato. Ma è molto lontana dal reale ogni rappresentazione del ciclo di sviluppo apertosi nel 1978 e acceleratosi dal 2001, che lo presenti come un processo di generale impoverimento del mondo del lavoro. Seppure nel quadro di una perdita di "prestigio" sociale e politico della vecchia classe operaia dell’industria di stato accusata di scarsa produttività e colpita da milioni di licenziamenti; seppure in un contesto di estrema polarizzazione della ricchezza sociale a favore dei profitti(3); il reddito medio pro-capite è cresciuto di svariate volte nel solo periodo 1985-2000, ed è cresciuto anche il potere di acquisto dei salari, soprattutto urbani. La produzione di una stratosferica massa di profitti (sei, settecento milioni di proletari e semi-proletari al lavoro, e che lavoro!) ha poi consentito alla Cina di accumulare riserve valutarie enormi, vicine ai 2.200 miliardi di dollari, mettendola in parte al riparo dalla speculazione finanziaria e dandole un potere di condizionamento forte nei confronti degli Usa, bisognosi di veder finanziato dall’estero il loro maxi-indebitamento pubblico e privato.

Di questo crescente ruolo da protagonista assunto dalla Cina nell’economia mondiale hanno beneficiato anche i paesi occidentali, in quanto hanno trovato un nuovo sbocco assai redditizio ai propri investimenti, un nuovo grande mercato per i propri macchinari e le proprie merci di lusso, un nuovo grande fornitore di merci a bassissimo costo. E hanno fatto buon uso di queste opportunità per abbassare il livello medio di remunerazione della forza-lavoro, per svalorizzare il lavoro vivo a casa propria e in tutto il mondo. Ne ha beneficiato, così, l’intero processo di accumulazione del capitale su scala globale, di cui la Cina è divenuta un motore, se è vero che il suo contributo alla crescita mondiale è salito nel 2005-2006 al 33% del totale, per scendere nel 2007 a un sempre ragguardevole 27%.

Da qualche tempo, però, la "virtuosa simbiosi" tra un Occidente, Stati Uniti in primis, che esporta capitali   strumenti di produzione verso una Cina che esporta a sua volta a Ovest merci di consumo di massa a prezzi stracciati aveva iniziato a creare forti malumori e tensioni su entrambe le sponde dell’Atlantico. Man mano che il dinamismo incontenibile della Cina ha conquistato a vista d’occhio porzioni di mercato in tutti gli ambiti e in tutti i continenti e ha cominciato a tradursi in acquisizioni di imprese occidentali, esso è venuto ad assumere i tratti di una minaccia sempre più ravvicinata alle imprese europee e statunitensi, ai "nostri" posti di lavoro e ai "nostri", veri o supposti, standard di vita. Ne è nato un attrito ora sordo, ora acuto, ora su temi economici, ora su questioni politico-militari, fino a quando l’esplosione della crisi ha detto a chiare lettere: si volta pagina. La "virtuosa simbiosi cooperativa"è finita: era esageratamente favorevole a Pechino. Con la crisi si è aperta un’era di competizione, di conflitti senza esclusione di colpi, il più acuto, strategico e sconvolgente dei quali vedrà progressivamente contrapposti proprio la Cina e gli Stati Uniti, quali che siano i sorrisi, gli smussamenti di posizione, e perfino le formali intese dei prossimi tempi. Per cui ora, tanto per cominciare, se la Cina vuole continuare a espandersi, non può farlo più "ai danni" di Washington e delle altre potenze occidentali; deve farlo "a sue spese", allargando il proprio mercato interno e offrendo su di esso maggiori opportunità di profitto per le imprese, le banche, le assicurazioni, le borse occidentali.

Una sfida globale

Prima ancora che da Washington e dalle capitali europee, questo messaggio è arrivato dai mercati. A fine 2008 le esportazioni sono crollate intorno al 20%. Il crollo delle importazioni è stato anche maggiore (intorno al 40%) ed è un buon indicatore della contrazione della produzione, dal momento che le due principali voci dell’import sono materie prime ed equipaggiamenti di macchine necessari al manifatturiero.

Nell’ultimo trimestre del 2008 lo sviluppo del pil cinese è sceso al +6,8%, a livelli dimezzati rispetto al +13% del 2007, il che significa che la crescita, almeno in quel trimestre, si è azzerata. E in questo modo è venuta alla luce una enorme sovracapacità produttiva, e dunque un enorme rischio di tracollo dell’attività industriale. I primi a pagare sono stati va da sé, i lavoratori e le lavoratrici dell’industria e dell’edilizia emigrati dalle campagne (mingong): 15-20  milioni di loro sono stati gettati sulla strada e costretti a far ritorno a casa e ingrossare la già ingente massa di disoccupati(4), mentre è diventato ancor più problematico l’assorbimentodelle nuove leve.

L’impatto della crisi mondiale sulla Cina è stato meno brutale in campo borsistico e finanziario perché la borsa di Shanghai non ha il ruolo centrale nei movimenti dei capitali che hanno le borse di New York, Tokio, Londra e Francoforte (sebbene siano già 138 milioni i cinesi possessori di titoli quotati in borsa); perché le banche cinesi sono scarsamente internazionalizzate (solo il 4% dei loro attivi è stato investito all’estero) e si sono poco esposte nel traffico dei derivati tossici; ed infine perché il debito statale si collocava a fine 2008 a un modestissimo 18,5% del pil (l’India, che quasi sempre a torto si appaia alla Cina, è al 95%; il Giappone addirittura al 200%; gli Stati Uniti sono vicini al 100%). Ma non c’è dubbio che, dati i fallimenti a catena di decine di migliaia di imprese e le enormi facilitazioni al credito concesse dalle banche negli ultimi mesi fino al luglio 2009, quando è partito il contrordine, la loro esposizione è destinata a crescere con conseguenze che è difficile prevedere.

Il futuro è terra incognita anche per i "virtuosi" banchieri cinesi. Ma al di là del sistema bancario, è l’intera Cina come nazione ad essere di fronte a una sfida di carattere globale, storico. Infatti, non si tratta soltanto di evitare che la crisi mondiale abbia un impatto devastante sull’economia cinese, né soltanto di operare una parziale riconversione di uno sviluppo fortemente orientato per decenni sulle esportazioni; questi sono "solo" i compiti immediati più urgenti da assolvere per evitare l’esplosione su larga scala della lotta di classe degli sfruttati.

C’è altro e di più. La crisi definitiva dell’ordine unilaterale a stelle e strisce ha messo all’ordine del giorno la ridefinizione dei rapporti di forza tra le grandi potenze capitalistiche e imperialiste, vecchie e nuove, una nuova spartizione del mercato mondiale, e la Cina ne è ormai parte in causa. L’imperativo denghista del "copriregli artigli" (in politica estera) ha fatto il suo tempo. Per la sua stessa stabilità sociale interna la Cina capitalista è obbligata a giocare a tutto campo in modo aggressivo le sue carte contro il concorrente strategico statunitense, contro gli altri concorrenti minori, e contro i popoli e i lavoratori del Sud del mondo di cui si è proclamata da sempre – con qualche titolo, oramai scaduto - amica. È obbligata cioè a diventare a tutti gli effetti un paese, uno stato imperialista.

Un piano di spesa statale colossale e ambizioso

Una cosa per volta.

Partiamo dalla risposta anti-crisi  del governo cinese. Essa è stata pronta e di grandissima portata. Già a novembre 2008 Pechino ha messo in campo un piano di spesa di 586 miliardi di dollari per il biennio 2009- 2010, così ripartiti nella loro prima tranche: il 34% per le infrastrutture e i servizi sociali nelle aree rurali meno sviluppate; il 25% per la costruzione di strade, autostrade (che passeranno in pochi anni da 60.000 a 180.000 km.), ferrovie e aeroporti; il 13% per la sanità, l’istruzione e l’assistenza; il 12% per progetti finalizzati al risparmio energetico e alla difesa dell’ambiente; il 10% per l’edilizia popolare; il 6% per la ricerca (The Wall Street Journal, 17 novembre 2008). È un piano di spesa particolarmente ambizioso sia per l’enorme entità degli investimenti statali, pari al 13% del prodotto interno lordo, che per i suoi obiettivi: rilanciare il processo di accumulazione attraverso il suo ampliamento territoriale e la sua dislocazione dalle zone economiche speciali verso l’interno e verso ovest, coinvolgendo in pieno le aree rurali che finora avevano funzionato come meri bacini di manodopera per le zone costiere; far assumere a queste aree un ruolo fondamentale nel sostegno della domanda interna; completare e ammodernare le grandi infrastrutture; creare una prima rete di welfare in ambito sanitario per il 90% della popolazione (v. riquadro); avviare una ondata di innovazioni tecnologiche capaci di dare ulteriore impeto alla produzione high tech cinese, e di porre la Cina all’avanguardia nel risparmio energetico e nell’uso delle energie rinnovabili, contendendo agli Usa di Obama la palma di paese ecologico leader - tra i progetti di Pechino c’è perfino la costruzione da zero di una città con tutti i più rigorosi requisiti "ecologici".

Le priorità di questo piano si intrecciano bene con la "speciale attenzione" che il governo centrale ha dichiarato, a partire dal 2006, verso la turbolenta situazione nelle campagne, percorse da anni da proteste e rivolte contro la prepotenza e la corruzione dei capi locali del Pcc dediti all’uso privato delle terre formalmente statali, "regalate" dietro compenso agli imprenditori privati, contro le mille forme di tassazione impropria(5), contro le brutalità della polizia o dei clan di accaparratori mafiosi, più o meno interni agli apparati di stato e di partito. Per dare un po’ di sollievo all’intero mondo rurale e attenuarvi la conflittualità, il governo ha abolito nel 2006 ogni specie di tassazione del  lavoro contadino e stanziato fondi per accrescere i consumi rurali. Ma dopo questa misura-tampone nell’ottobre 2008 il Pcc ha lanciato al suo terzo Plenum la consegna: "raddoppiare il reddito dei contadini entro il 2020", ovvero rilanciare alla grande il processo di accumulazione nelle campagne. In che modo? Senza arrivare alla esplicita introduzione della proprietà privata della terra sulla scia di quanto avvenuto per le superfici urbane nel 2007, si è ammessa e incentivata la trasmissione dei diritti d’uso della terra agli eredi, la loro compravendita o il loro affitto a terzi, la possibilità di darli in ipoteca, e si è estesa la durata dei contratti di gestione da 30 fino a 70 anni. Si è, in sostanza, fatto un balzo in avanti in direzione della libera disposizione privata non solo dei prodotti della terra (già sancita da trenta anni con il passaggio dalle Comuni alla "responsabilità familiare"), ma della stessa terra "assegnata".

Un balzo in avanti quindi, verso l’integrazione ancor più organica delle campagne cinesi, con i loro 700 milioni di abitanti, nel mercato mondiale. Il passaggio dalla "responsabilità familiare" alla forma-impresa in agricoltura ne ha ricevuto così un fortissimo impulso. Per impresa non si deve intendere solo le piccole-medie imprese che stanno nascendo dal basso con l’accorpamento della miriade di  minuscoli poderi familiari inferiori all’ettaro per mano di agricoltori "con grandi capacità di coltivazione, nozioni di mercato, scienza e tecnologia e un certo livello di macchinari agricoli"(6); si deve intendere anche l’artiglieria pesante dell’agribusiness cinese e mondiale avido di falciare i contadini "indipendenti" e trasformarne quanti basta in propri schiavi sotto-salariati. Se l’abolizione della tassazione sui contadini è stata una boccata d’ossigeno per tutto il mondo contadino, non sarà così per questo nuovo capitolo della trasformazione capitalistica delle campagne cinesi.

Non a caso secondo le previsioni ufficiali, entro il 2020, altri 200-240 milioni di individui dovranno lasciare le campagne; e ancor meno è un caso che molte delle 30.000 nuove stazionidi polizia create di recente siano sorte nelle campagne...

Grandi incognite, interne…

Come si vede, quello di Pechino non è solo un piano anti-ciclico per sostenere la domanda e quindi l’offerta. Seppure imposto dall’emergenza, è un vero e proprio piano di rilancio e di riequilibrio territoriale dell’accumulazione capitalistica in Cina.

Un piano volto, nello stesso tempo, a ridurre la dipendenza cinese dalle esportazioni di merci(7) e ad allargare nelle aree rurali la base sociale di sostegno dell’attuale regime con la creazione di una massa di ceto medio, composta di coltivatori e imprenditori agricoli proprietari di fatto della terra (e felici di esserlo), di  grossi commercianti e neo-impresari industriali, chiamati a bilanciare e neutralizzare la crescente agitazione degli sfruttati urbani e rurali, colpiti e sballottati prima dagli effetti della crisi e poi dalle misure anti-crisi.

L’impegno di Hu, Wen & Co. a dislocare fuori dalle congestionate zone speciali e dalle quattro, cinque solite megalopoli i nuovi investimenti produttivi mira a contenere, e se possibile, invertire l’ascesa dei salari e dei diritti dei proletari urbani divenuti via via più temibili per le imprese e per lo stato perché troppo concentrati. La Cina capitalista non può permettersi l’indefinita crescita del costo della sua forza-lavoro senza perdere uno dei suoi massimi vantaggi competitivi. Sotto questo profilo un aumento controllato della disoccupazione e una nuova fornitura di braccia espulse dalle campagne è quello che ci vuole, purché non siano le scintille che incendiano la prateria.

E, come vediamo più in dettaglio in un secondo articolo dedicato alla situazione cinese, le piccole scintille non mancano, ancorché, finora, i pompieri di stato abbiano avuto buon gioco a spegnerle una alla volta. Ma proprio perché è consapevole del rischio che un incendio sociale generale costituirebbe per la Cina e per l’ordine mondiale, il governo di Pechino, che affronta il conflitto di classe con un sapiente mix di repressione e concessioni, si appresta a introdurre alcune forme di salario indiretto o sociale per ammortizzare il malcontento sociale.

In Cina lo stato destina all’oggi al welfare appena l’11% del suo bilancio (anche qui è record, in negativo). Da trenta anni a questa parte non ha fatto altro che demolire il welfare aziendale delle danwei, le imprese di stato, nelle città e nei poli industriali, e il welfare comunitario-cooperativo delle Comuni popolari nelle zone rurali. Dunque, dei margini di intervento per la creazione di una minima rete di protezione socio-sanitaria "universale" ci sono. E ce ne sono anche per mediare, entro certa misura, il conflitto tra capitale e lavoro. La misura è fissata, però, obiettivamente, dalla necessità di mantenere il più largo surplus commerciale possibile con i paesi ricchi per auto-finanziare le importazioni di materie prime e macchinari (la Cina non è certo autosufficiente nella produzione di beni strumentali) e fronteggiare l’inevitabile crescita del debito statale. A meno di cominciare a torchiare sistematicamente, come tutti i paesi imperialisti, oltre che i propri lavoratori, anche i lavoratori di altri paesi e continenti…

Se la prima grande incognita che pende sul piano di rilancio dello sviluppo cinese è la lotta di classe degli sfruttati della Cina, c’è anche un’altra importante incognita interna che i governanti di Pechino sono chiamati a tenere a bada: la tensione  tra le diverse aree territoriali della Cina. Appartiene alla millenaria storia di questo paese la ricorrente tensione tra le sue forze centripete e le sue spinte centrifughe. Anche nella Cina post-1949 queste tensioni si sono più volte ripresentate, per il Tibet, per lo Xinjiang, e negli ultimi tre decenni soprattutto per il conflitto tra centro e "periferia" e tra le diverse province. Il trentennio denghista ha prodotto una estrema polarizzazione territoriale dello sviluppo a favore delle zone costiere, delle zone speciali e di alcune metropoli: ora, sono proprio queste aree, di gran lunga le più ricche e potenti del paese, per certi versi nazioni nella nazione, "stati" nello stato, ad essere le più colpite dai contraccolpi della crisi. La grandissima parte delle 67.000 imprese che hanno chiuso i battenti nel 2008 erano collocate lì. Per città-chiave della industria dell’export, Dongguan, Shenzhen ed altre si paventa addirittura una depressione. E grande è la preoccupazione anche in altre province come Zhejiang, Fujian, Jiangsu e Shandong.

Ora, il maxi-piano di intervento anti-crisi varato un anno fa dal governo centrale intende favorire una ridislocazione territoriale degli investimenti verso le aree più povere, quelle più in grado di tener testa alla produzione low cost delle imprese vietnamite, bangladeshi, messicane, etc.. Ma un simile indirizzo avrà l’effetto di accentuare l’attrito tra le regioni più ricche e il centro e, insieme, la concorrenza tra queste stesse regioni per accaparrarsi i nuovi investimenti, con il varo di autonomi progetti di sviluppo combinati con le multinazionali e i capitali stranieri, a loro volta attenti da sempre a incrementare una simile concorrenza, e più in generale tutte le spinte centrifughe. Un groviglio di conflitti potenzialmente esplosivo, che si riflette pure nelle lotte interne al partito, nelle quali la fazione che fa capo a Hu sembra avere maggiore attenzione alle aree più povere, mentre la cosiddetta "fazione di Shanghai" sembra riporre tutte le chances di evitare il peggio puntando maggiormente sulla continuità del "modello" seguito finora(8).

…ed esterne, prima tra tutte, Washington!

Sulla prospettiva della "grande armonia" interna ed internazionale in salsa cinese si addensano nubi, però, e che nubi!, anche dall’esterno. C’è, anzitutto, l’incerto andamento dell’economia mondiale, che non è possibile dire, al momento, se evolve verso una lentissima ripresa o verso una nuova ricaduta. E c’è, ancor più, l’addensarsi delle ragioni di contrasto con Washington.

Secondo il supplemento n. 4/2009 di Limes saremmo alla vigilia del "condominio sino-americano" nella politica mondiale. Nulla di più fantasioso. D’accordo: nell’immediato e per un certo tratto, né gli Stati Uniti perché sono troppo indeboliti, né la Cina perché non è ancora abbastanza forte e preparata, hanno interesse a far precipitare la loro competizione in uno scontro aperto. Per questo, se li si osserva in modo empirico, possono dare l’impressione di una funzionante "coppia di fatto". Tu Washington ritiri la minaccia di una green tax contro di me, ed io Pechino accelero la chiusura di alcune centrali a carbone (acquistando nuove tecnologie da te). Tu Washington metti la sordina sulla "questione tibetana" ed io Pechino ti riporto la Corea del Nord al tavolo delle trattative, e via di questo passo. Ma l’inevitabilità nel medio-lungo periodo dello scontro strategico tra gli Usa e la Cina è da tempo teorizzata da parte statunitense, da singoli consulenti delle amministrazioni, quali Huntington, e, quel che conta di più, dallo stesso Pentagono. Anche sul versante cinese si è preso atto da tempo della cosa, benché si stia attenti a dissimulare e mantenere il sangue freddo.

I terreni dello scontro sono molteplici.

Gli Stati Uniti debbono, in modo palese o strisciante, arrivare a un’ampia svalutazione della propria moneta per ridurre il peso del proprio indebitamento e aiutare la propria ansimante industria, e nello stesso tempo continuare a farsi finanziare dall’esterno. La Cina, invece, in quanto grande creditore, ha interesse a che il dollaro non si svaluti troppo, e tenta di sganciarsi gradualmente dall’acquisto del debito a stelle e strisce. Gli Stati Uniti faranno di tutto per impedire che la propria moneta cessi di essere la moneta di riferimento mondiale, perché troppi vantaggi ne hanno incamerato. Con le cautele del caso, la Cina è il capofila di uno schieramento che punta a una nuova moneta-paniere mondiale, e fa proseliti per questo suo progetto. Gli Stati Uniti debbono a ogni costo ridurre il proprio deficit commerciale con l’estero e forzare il "buy american", colpendo e sollecitando l’Europa a colpire con dazi le merci cinesi, come hanno infatti iniziato a fare a colpi di punture di spillo. La Cina non può mostrarsi debole a riguardo e risponde, in modo soft, con il simmetrico "buy chinese". Gli Stati Uniti debbono ostacolare l’ascesa della Cina tra le potenze finanziarie e frenarne l’accesso alle fonti energetiche e alle tecnologie di avanguardia, e si mettono perciò di traverso a molte delle acquisizioni tentate dalla Cina, dalla Unocal fino alla australiana Lynas.

La Cina, invece, preme per ottenere più spazio nel FMI riuscendoci, e per rappresaglia contro i divieti di Washington blocca l’espansione della Coca Cola in Cina. Gli Stati Uniti del "nero" e "dialogante" Obama puntano a riconquistare nel Sud del mondo il terreno perso negli anni di Bush ricacciando indietro l’influenza economico-politica cinese in rapida espansione in quasi ogni angolo di esso. Per la Cina, però, questa espansione è irrinunciabile ed è di vitale importanza che essa continui a crescere. Il parossistico sviluppo cinese ha estremo bisogno di materie prime, petrolio (ne importa il 50% del fabbisogno), ferro, bauxite, uranio. La Cina, avendo perso la sua autosufficienza alimentare con l’ingresso nel WTO e la riduzione delle terre coltivabili, ha necessità di approvvigionarsi di prodotti agricoli e terre da coltivare. Cerca sbocchi "alternativi" a quelli statunitensi e occidentali per le proprie merci e, sempre più, per i propri investimenti di capitale. Sicché, se Washington tesse la sua tela per accerchiare la Cina nello stesso continente asiatico (per quale altro motivo è tanto importante non mollare la presa su Afghanistan e Pakistan?), Pechino tesse la propria tela per moltiplicare i suoi "amici" nel mondo e isolare gli Stati Uniti anche nel loro cortile di casa (vedi gli accordi con Argentina, Venezuela, Brasile, Costarica, Giamaica e così via).

In ballo, oltre le risorse naturali, le merci, gli investimenti, gli accordi militari, c’è la contesa appena avviata per l’egemonia politica sul mondo.

Il modello statunitense, il "Washington consensus" è con le gomme a terra, almeno per ora. Quello cinese, invece, ha il vento in poppa, almeno nei paesi del Sud del mondo. Il mix tra l’intervento e la regia di stato e la libertà d’azione per le imprese private;le misure graduali in luogo delle terapie shock; l’apertura ai capitali stranieri, ma contando primariamente sulle proprie forze; le riforme economiche su larga scala, e solo in seguito i cambiamenti politici e culturali; una più equa ripartizione mondiale della ricchezza e del potere: su queste basi il "Pechino consensus" ha finora guadagnato terreno a vista d’occhio(9).

Ma non è detto che questa marcia trionfale nel Sud del mondo continui a tempo indefinito. Anzi.

Una via obbligata

Scioperi massicci in Corea del Sud contro i licenziamenti decisi dalla cinese Ssangyong; lavoratori cinesi uccisi nel Sudan (in Darfur); azioni di guerriglia e proteste anti-cinesi in Zambia, Niger, Nigeria, Congo; la clamorosa presa di posizione del generale vietnamita Giap, il capo militare della guerra contro la Francia e gli Stati Uniti, contro la concessione al colosso cinese Chinalco dello sfruttamento di una enorme miniera di bauxite… sono i primi segni di opposizione e di critica alla presenza dei capitali cinesi fuori dalla Cina.

Questa presenza è, all’oggi, nella maggior parte dei casi salutata con favore. Prendiamo l’Africa. Qui la Cina ha fatto, a partire dal 1956, un importantissimo investimento geostrategico con circa 900 progetti portati a termine. L’ha fatto anzitutto come stato. Anche dei franchi antipatizzanti verso tale investimento, quali Michel e Beuret, debbono ammettere che la imponente rete di strade, ferrovie, porti, aeroporti, dighe, reti telefoniche, ponti, acquedotti, oleodotti, centrali elettriche, gli ospedali, le scuole, i pubblici edifici, le raffinerie, le città futuriste edificati dalla Cina in Africa hanno contribuito a far rialzare l’Africa messa in ginocchio dai piani di ristrutturazione del FMI, dalle misure draconiane prese dalla Francia (la svalutazione del 50% del franco CFA nel 1994, tanto per dirne una), dalle terribili guerre procurate o combattute per procura delle grandi potenze occidentali (come la guerra che ha insanguinato e devastato il Congo), fino al punto da ridarle "un valore reale" e, perfino, una chance materiale di unificazione.(10)

Ma alla ammirazione incondizionata di gran parte delle classi dirigenti africane – "noi ci auguriamo che sia la Cina a guidare il mondo", ha affermato il presidente della Nigeria -, per l’efficienza, la rapidità, i bassi costi (dal 30% al 50% inferiori a quelli delle imprese francesi), i crediti agevolati a tassi ridotti all’osso, la non-ingerenza negli affari politici dei singoli paesi, non corrisponde un atteggiamento altrettanto univoco dei lavoratori africani, divisi tra l’ammirazione e la diffidenza o il rifiuto nei confronti dei pesanti carichi di lavoro imposti dalle imprese cinesi e dei metodi brutali talora usati verso di loro. Non è solo il sud-africano Mbeki a fiutare il "rischio di neo-colonialismo", sono i fatti stessi ad evidenziarlo anzitutto agli occhi dei lavoratori africani, man mano che la presenza cinese in Africa va acquistando un nuovo tratto.

Fin dalla sua fondazione la Cina popolare ha perseguito nel mondo il suo interesse nazionale, non certo quello del socialismo, della rivoluzione internazionale. Ma per un tratto questo interesse è coinciso (quasi) con quello dei paesi di nuova indipendenza e dei popoli in lotta contro il vecchio e il nuovo colonialismo. Da tempo – il punto di svolta si può considerare l’appoggio dato al regime golpista di Pinochet - non è più così. La Cina resta, ovviamente, uno stato revisionista nei confronti dell’ordine sancito a Yalta, ma porta avanti il suo "revisionismo" per altre vie. Xi Jinping, ritenuto probabile successore di Hu, l’ha rivendicato con energia, irritato dai rimbrotti occidentali: "la Cina non esporta rivoluzioni". Infatti. Esporta, sempre più, capitali, sebbene l’abbia fatto, e continui in parte a farlo, sotto forma di accordi "di baratto" in apparenza paritari e mutuamente vantaggiosi. Al seguito degli accordi "politici" conclusi dallo stato cinese, sono arrivati i colossi monopolisti cinesi. Nel 1995 Jang Zemin li sollecitò energicamente: "uscite dalle frontiere". E da allora i monopoli cinesi delle costruzioni, dell’energia, minerari, delle telecomunicazioni si sono dati molto da fare, occupando fette crescenti del mercato mondiale per trarre profitti dal lavoro africano, asiatico, sud-americano e medioorientale e arraffarvi i succhi vitali della natura. E dopo di loro, l’Africa ne sa già qualcosa, è stata la volta di una pletora di piccoli accumulatori cinesi, commercianti, ristoratori, coltivatori, avventurieri vari in cerca di fortuna sulla pelle delle genti di colore.

E già li si sente dire: "gli africani  sono pigri, troppo pigri"…, vecchie frasi che preludono, o giustificano, l’uso della frusta. È una via obbligata. Per non essere travolta dalla crisi, per continuare il proprio cammino in ascesa, per scongiurare l’acuirsi dei conflitti di classe al proprio interno e consentirvi la nascita di una "aristocrazia del lavoro low cost", la Cina capitalista deve impegnarsi in modo sempre più attivo sul mercato mondiale. Con l’esportazione dei suoi ingenti capitali liquidi e la crescente partecipazione ai mercati finanziari – nonostante il clamoroso fallimento delle sue prime incursioni in questo ambito. Con le sue mega-imprese e mega-banche.

Con la sua diplomazia. Con la sua rete di istituti culturali Confucio. E con le sue armi, le sue truppe, i suoi piani di "Alta tecnologia marittima". Può sempre meno limitarsi a realizzare sui mercati il plusvalore estorto in casa; deve sempre più mettere le mani sulla forza-lavoro non cinese.

È il cammino obbligato all’imperialismo già intrapreso in sordina, a cui le vecchie potenze imperialiste, gli Usa per primi, non possono non mettersi di traverso. Ecco perché ci pare impossibile la pacifica evoluzione verso la struttura "multipolare" del mondo prospettata dalla Cina, e così tanto agognata da quel che resta della imbelle sinistra (anti-cinese) nostrana. Per salvarsi, la Cina deve entrare in rotta di collisione con l’attuale status quo, e contribuire a destabilizzarlo più ancora di quanto non abbia fatto la crisi di per sé. La repentina sostituzione del G-7, da cui la Cina era esclusa, con il G-20 di cui è invece assoluta protagonista, lo segnala. Ma questo è solo un organismo di transizione, una provvisoria stanza di compensazione di interessi alla lunga antagonisti, destinati a scontrarsi per il primato mondiale.

In questo scontro annunciato che si profila oggi, ma non per l’oggi, assai più nettamente di ieri, la trincea dei lavoratori non può che esser quella della totale autonomia da Washington e da Pechino. Il mondo intero ha visto cosa è stato l’ordine imperialista a stelle e strisce. Quello all’insegna del "socialismo" di mercato cinese non costerebbe ai proletari meno sudore e meno sangue. La classe lavoratrice ha perciò una, ed una sola via obbligata se vuole salvarsi dalla catastrofe capitalistica: la lotta senza quartiere contro il capitale, la rivoluzione sociale internazionale. Un "modello di sviluppo" veramente nuovo può realizzarsi solo sulle ceneri del modo capitalistico di produzione.

Note

(1) Nel 1992 l’industria manifatturiera aveva un fatturato globale di 1.028 miliardi di yuan con 102 milioni di addetti. Al 2005 il fatturato si era più che quadruplicato, a fronte di una leggera diminuzione degli addetti, scesi a 99,4 milioni.

(2) Cfr. O. Shenkar, Il secolo della Cina, Il Sole 24 ore, 2005, p. 21.

(3) La quota-parte dei salari nella ricchezza nazionale, che era al 53% nel 1997, è scesa ad appena il 39% nel 2007.

(4) I dati ufficiali sulla disoccupazione sono tra i meno attendibili. Parlano di un 4-4,5% di disoccupati, mentre stime non ufficiali che ci appaiono più realistiche parlano di un 10% nelle città, e di un 20-25% nelle aree rurali, dove vive ancora il 60% della popolazione cinese.

(5) Nel loro Può la barca affondare l’acqua?, Marsilio, 2007, interessante (e contraddittoria) inchiesta sulla vita dei contadini cinesi dell’Anhui, Chen Guidi e Wu Chuntao sono arrivati a calcolare – al 2004 – 269 tipi diverse di imposte gravanti sui lavoratori delle campagne (p. 171 ss.). In particolare tra il 1990 e il 2000 il carico fiscale sui contadini si moltiplicò per cinque, arrivando ad essere quattro volte superiore a quello gravante, in media, sugli  abitanti delle città, il cui reddito è peraltro, in media, da 4 a 15 volte superiore a quello delle aree rurali.

(6) Così Xu Wei, vice-direttore del Comitato agricolo della provincia dell’Anhui (www.sviluppocina.com)

(7) Un documento del Consiglio di  stato e del Comitato centrale del Pcc del 1° febbraio 2009 motiva "lo sviluppo della agricoltura e delle aree rurali" messo in cantiere con il fatto che lo sfruttamento di queste aree è "il potenziale più alto per sostenere la domanda interna" (AsiaNews, 2 febbraio 2009). Ridurre la dipendenza dalle esportazioni di merci con l’allargamento del mercato interno significa anche, in prospettiva, ridurre la dipendenza dagli investimenti esteri e il potere di ricatto delle multinazionali, dal momento che il 60% dell’export è nelle loro mani.

(8) Cfr. V. Kolo-C. Lizhi, China Sweatshop of the World. The Coming Revolt, Hong Kong, 2008, pp. 61-2.

(9) Cfr. A. Eunjung Cha, China Uses Global Crisis to Assert its Influence, "The Washington Post", 23 aprile 2009.

(10) Cfr. S. Michel-M. Beuret, Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, Il Saggiatore, 2009, pp. 203-9.

 

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

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