Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci


Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

L’altra Cina, la Cina degli operai, delle operaie e dei lavoratori poveri delle campagne è in stato di crescente agitazione.

E dell’altra Cina, la Cina dei lavoratori,  degli sfruttati, la nostra Cina, la Cina dei nostri compagni di classe, cosa ne è? Stampa e televisione ci danno su di essa scarsissime notizie. Ma la vulgata più diffusa, sia nella destra (pensiamo a fogliacci tipo La Padania o Libero) sia a "sinistra" (pensiamo a ciò che si dice negli ambienti sindacali), è che gli operai cinesi siano schiavi nati contenti di essere schiavi, così atavicamente passivi da esser capaci di sopportare anche l’insopportabile. Ai lavoratori occidentali da loro non può venire nulla di buono, è questa l’insinuazione; viene solo una estrema, pericolosissima concorrenza al ribasso. Sono un nemico, quindi, con cui incrociare appena possibile le armi.

Un falso clamoroso

Abbiamo spiegato nel n. 64 di questo giornale(1) che questa rappresentazione, totalmente falsa, ha una precisa e fondamentale ragione che accomuna, nella sostanza, la destra e la "sinistra": radicare nei lavoratori italiani un sentimento di disprezzo e di ostilità verso i lavoratori cinesi in generale, e verso i lavoratori cinesi qui immigrati in particolare. La realtà storica dice ben altro. Senza riandare alle grandi insurrezioni operaie degli anni venti a Canton e Shanghai, dice che nei sessanta anni della Repubblica popolare la classe operaia della Cina non si è mai perfettamente identificata, come pretende la "verità" di regime, né  con lo stato, anche quando la sua posizione era per prestigio sociale e per grado di protezione personale e familiare decisamente più elevata di quella odierna, e neppure con le danwei, le imprese di stato, anche quando queste assicuravano ai propri dipendenti un impiego a vita e un welfare abbastanza completo (per i tempi e il grado di sviluppo del paese).

Quanto al periodo delle riforme poi, questa classe operaia ha avuto un fortissimo sussulto nel 1989. Fu di breve durata, perché venne stroncato sul nascere dal governo con mezzi repressivi (gli operai arrestati, tra parentesi, hanno avuto un trattamento più duro di quello ricevuto dagli studenti), ma fu in grado di dar vita a nuovi organismi rivendicativi con anche qualche tratto politico, le Federazioni autonome dei lavoratori.

Scrive a questo riguardo B. Emmott, l’ex-direttore di The Economist, che non è quel che si chiama un agit-prop delle lotte operaie: nelle sei settimane  delle proteste il "fiume di scontento" esondò in ben 341 città, e si "valuta che almeno cento milioni siano state le persone che presero parte all’una o all’altra delle tante manifestazioni".

Tra i dimostranti non c’erano soltanto "gruppetti di studenti universitari idealisti", benché solo ed esclusivamente questi fossero "esposti in prima fila all’attenzione dei mezzi di informazione occidentali"; c’erano legioni di operai e di salariati, e per il Pcc "risultava ancora più preoccupante la presenza dei comuni lavoratori, che spesso sarebbero dovuti essere lo zoccolo duro del suo sostegno"(2). Fu proprio questa massiccia scesa in campo dei lavoratori dell’industria, anzitutto, e il loro frequente riferimento ai "grandi maestri" del passato (Mao per primo) e ai "principi rivoluzionari" traditi, a far rompere gli indugi a Deng&Co. e fargli dare via libera a esercito e polizia, non soltanto a Pechino (come si è voluto far credere in Occidente): "Se la Cina è instabile, il mondo sarà instabile; se dovesse scoppiare la guerra civile in Cina, nessuno avrà i mezzi per fermarla" – pochi mesi più tardi fu questa la lapidaria motivazione di Deng. Il suo riferimento alla guerra civile, è evidente, riguardava appunto la classe lavoratrice. Gli organismi operai spontanei furono dispersi. Il potere ne impedì sia il radicamento che il collegamento. E negli anni successivi la mazzata politico-militare ricevuta si fece sentire pesantemente con il suo lascito di paura e di disorganizzazione, anche perché fu subito doppiata da una gragnola di milioni di licenziamenti dalle imprese di stato – sia pur ammortizzati da misure di assistenza, riqualificazione e ricollocazione al lavoro dei licenziati ad opera dei poteri locali e del sindacato di stato ACFTU.

Conflittualità e tensioni sociali sono in crescita…

 Più che naturale, quindi, che nei primi anni ’90 la conflittualità sociale si sia mantenuta su livelli piuttosto bassi. I dati ufficiali parlano di sole 10.000 proteste di massa (con più di 30 partecipanti) nell’intero 1994, inclusi oltre gli scioperi e le proteste operaie, anche le manifestazioni contadine e popolari nelle aree rurali. Le statistiche mostrano comunque un lento allargamento dei conflitti, che dalla fine del secolo prende invece un passo energico. Nel 2000 le proteste sono diventate già più di 40.000, nel 2005 sono balzate a 87.000 e raggiungono nel 2008, secondo dati semi-ufficiali (il governo da quattro anni non dà più numeri), la cifra ragguardevole di 127.467 (3), con un aumento del numero medio dei partecipanti: molte agitazioni coinvolgono, ormai, diverse migliaia di lavoratori(4).

Oltre la crescita numerica, c’è stato anche un notevole cambiamento nella composizione delle proteste in ambito operaio. Fino al 2002, infatti, le lotte operaie di maggior significato hanno visto in prima linea gli operai o ex operai delle industrie di stato, di una certa età, quasi sempre maschi, con riferimenti politici ed un linguaggio per lo più "tradizionali" e una dislocazione in larga misura a Nord, nelle vecchie aree industriali e nell’industria pesante o di base. Nel tempo vi è stato un progressivo, deciso spostamento dell’epicentro delle agitazioni verso le imprese a capitale straniero e a capitale privato, verso le zone speciali del Sud-Est e verso le province costiere, verso l’industria dei beni di consumo (tra cui l’elettronica). Ne sono state protagoniste sempre più spesso le leve operaie di prima generazione, con una forte partecipazione attiva femminile(5) (a Dongguan, città-chiave dell’industria dell’export e sede di alcune tra le lotte operaie più vive, il 70% della popolazione è femminile) e dei mingong (lavoratori immigrati dalle campagne in città).

I temi rivendicativi si sono andati anch’essi allargando. Se gli scioperi e le manifestazioni per salari non pagati, salari arretrati (specie in edilizia), salari indecenti, contro i licenziamenti, le chiusure di stabilimenti, le violazioni di legge in materia di orari, di indennità per infortunio o per fine rapporto restano ancora largamente prevalenti, negli ultimi anni ci sono state lotte anche per ottenere aumenti salariali per recuperare almeno l’inflazione (al 4,8% nel 2007, il livello più alto da inizio secolo), per migliori condizioni di lavoro e, in certi casi, per il diritto a formare una propria rappresentanza sindacale, ufficiale (il caso più famoso, e non è stato un bluff come insinua qualche sapientone, è quello della Wal-Mart nel  2006) (6), ufficiale ma eletta in modo realmente democratico (come richiesto dai portuali del terminal Yantian a Shenzhen), o del tutto indipendente dal governo e dall’ACFTU.

In un buon 50% dei casi i protagonisti primi delle lotte sono stati i mingong, che hanno dato vita ad una miriade di piccoli organismi locali di auto-organizzazione dalle forme più diverse, società di tipo mutualistico e gruppi di lavoratori dello stesso villaggio, centri di consulenza legale (nei quali si ritrovano di frequente insieme in un’attività essenzialmente volontaria e gratuita giovani studenti di legge, o giovani avvocati, e operai anziani) e quelle che si potrebbero chiamare "fratellanze" fino a organismi con precise rivendicazioni in tema di welfare per i propri figli e per sé stessi: istruzione, salute, casa, assistenza in caso di perdita di lavoro o morte sul lavoro – in Cina ogni anno muoiono sul lavoro 100.000 operai/e, e nel solo 2005 ci sono stati 386.000 lavoratori morti per malattie professionali!

È in parallelo esploso il ricorso dei lavoratori sia ai comitati di arbitrato ufficiali previsti dalla legge sul lavoro del 1994 (78.000 casi nel 1994, 800.000 nel 2003), che ai tribunali, ed è sempre più  frequente, nell’una e nell’altra sede, che i lavoratori abbiano almeno parziali riconoscimenti delle loro richieste. Per raffreddare le tensioni sociali, i poteri locali o quello centrale premono talvolta sui tribunali per ottenere sentenze esemplari: nel Guangdong, per esempio, ad inizio del 2008, sono stati arrestati 29 imprenditori per aver truffato lavoratori mingong.

L’avvento di nuove leggi in materia di lavoro ha ulteriormente accentuato questa tendenza. Non bisogna pensare che i lavoratori si affidino ad una sorta di esclusivo legalitarismo, però; perché, quando scendono in lotta, molto spesso ricorrono a forme di azione "illegali" quali i blocchi di strade, ponti o ferrovie, a cortei che "invadono" le città, a picchetti davanti ai propri stessi stabilimenti o alle loro direzioni, e in un certo numero di circostanze (il 5%, secondo un’indagine del China Labour Bulletin) non si tirano indietro neppure dallo scontro con la polizia. E testimonia della reattività del mondo del lavoro anche il fatto che negli ultimissimi tempi siano diventati dei casi "politici" nazionali, con l’aiuto delle tv e dei giornali locali, nonché di internet, tre fatti: la scoperta-scandalo di una rete di lavoro minorile che coinvolgeva anche bambini di 8 anni costretti a lavorare e vivere come schiavi, messa in piedi nello Shanxi e nello Henan  da decine e decine di proprietari di fabbriche di mattoni (maggio 2007); l’incendio di un commissariato di polizia a Guizhou da parte di migliaia di manifestanti (il cd. incidente di Weng’an) inferociti perché la locale polizia aveva coperto le responsabilità del figlio di un amministratore locale nella morte di una ragazzina di 15 anni (giugno 2008); l’uccisione a Badong di Deng Guida, un notabile locale del partito che aveva tentato di stuprarla, da parte di Deng Yujiao, una giovane cameriera di un karaoke-bar, arrestata ma divenuta in breve una eroina nazionale (maggio 2009).

… anche nelle campagne.

Anche nelle campagne l’agitazione è andata crescendo nei primi anni del secolo, i più ricchi di proteste rurali dal 1949. Il culmine è stato toccato nel 2005 con i due grandi scontri di massa tra contadini e polizia di Huaxi (nello Zhejiang, dove 20.000 contadini e operai disarmarono e misero in fuga 3.000 poliziotti) per imporre la chiusura di impianti chimici altamente tossici e di Shanwei (nel Guangdong) contro la costruzione di una centrale elettrica. Sono lontani gli anni "d’oro" 1978-1985 quando i redditi dei contadini crebbero di un buon 15% (o più) grazie all’intensa immissione di fertilizzanti nella coltivazione, ai buoni prezzi del grano e agli effetti dinamizzanti della de-collettivizzazione.

Tra quegli anni e oggi c’è di mezzo un imponente esodo forzato dalle campagne; l’esplosione del carico fiscale sui contadini dagli 8,7 miliardi di yuan del 1990 ai 45,6 miliardi del 2000, carico di quattro volte superiore a quello gravante sugli abitanti delle città; l’abbattimento dal 54% al 15% dei dazi protettivi; l’ininterrotta espropriazione dei terreni coltivabili per dare spazio alle industrie, alle infrastrutture, ai centri commerciali, all’edilizia residenziale.

Questi processi hanno diffuso nella massa contadina più povera, quella che continua ad avere una "nostalgica venerazione" per Mao, sentimenti di forte animosità, di rabbia, di odio contro la burocrazia locale di stato e di partito, avida, corrotta, violenta, accaparratrice dei beni ritenuti ancora "comuni" o almeno "pubblici", la terra per prima. Di qui una serie interminabile di denunce e di episodi di lotta, che ha allarmato le autorità centrali, alle quali quasi sempre i dimostranti si appellano, fino al punto da indurle a varare nel 2006 la parziale rettifica di rotta pomposamente denominata "nuovo socialismo nelle campagne".

Il bastone e la carota

Di socialismo neppure l’ombra, c’è bisogno di dirlo?, ma qualche beneficio ai contadini è derivato dalla abolizione della tassa sulla loro produzione e dall’impegno dei nuovi mandarini di Pechino di mettere un freno agli espropri forzati delle terre, all’inquinamento e alla corruzione. Ed è frutto di questa molecolare, diffusa agitazione l’incremento della spesa statale per le aree rurali deliberato dal governo centrale a fine 2008 dopo lo scoppio della crisi, in varie forme: i sussidi all’acquisto di elettrodomestici, gli incentivi ai coltivatori perché vendano i loro prodotti nei piccoli centri, il microcredito agevolato, i nuovi supermercati in chiave antiinflazione, corsi di professionali, ma soprattutto, in prospettiva, il più largo accesso all’assistenza sanitaria – dalla quale è ora escluso, di fatto, il 60%, se non più, dei contadini.

L’auto-attività degli operai ha prodotto anch’essa degli indubbi risultati, di maggior peso, crediamo. Il 2008 è stato un anno di svolta nella legislazione del lavoro cinese. È entrata infatti in vigore la nuova legge sui contratti di lavoro che sancisce il diritto di ogni lavoratore ad avere dall’impresa un contratto nel quale debbono essere definite le condizioni del rapporto di lavoro (la maggioranza dei mingong lavora invece attualmente senza contratto) e pone dei paletti ai licenziamenti.

The Economist, che qualcosina capisce in materia, l’ha definita "una delle leggi sul lavoro di più grande portata nel mondo". Sono entrate in vigore anche altre due leggi di una certa importanza: la legge sugli arbitrati in materia di lavoro, che prevede una accelerazione delle procedure e decreta il carattere legalmente vincolante di questi arbitrati (a cui sempre più spesso si appellano i lavoratori), e la legge sulla promozione della occupazione, che vuole colpire diverse forme di discriminazione(7).

Non è questo l’unico risultato generale delle agitazioni operaie. Nel decennio 1997-2007 vi è stata anche una significativa crescita dei salari.

Nel Guangdong, ad esempio, si è passati da una media di 500 yuan al mese (circa 70 dollari) a una media di 2.000 yuan al mese (circa 285 dollari), con una punta di 2.500 (circa 350 dollari) a Guangzhou, benché un gran numero dei 130 milioni di mingong ne sia rimasto escluso. Anche il salario minimo introdotto nel 2003, e pari in media al 40% circa di quello medio,è andato crescendo sulla base di decisioni prese dai governi provinciali o locali: a Shenzhen, ad esempio, è passato dai 600 yuan del 2003 ai 1.000 del 2008.

I padroni privati e di stato, cinesi e stranieri, grandissimi, grandi e minori, che molto si sono battuti per impedire il varo di questa legislazione o per annacquarla il più possibile, sono ora impegnati a limitarne o eluderne l’applicazione e a contrastare la tendenza alla crescita dei salari. Ma trovano davanti a sé dei lavoratori che, per quanto privi di una propria effettiva organizzazione sindacale (tale non è l’ACFTU – su cui torneremo nei prossimi numeri del giornale) e, tanto più, del partito di classe, sono divenuti, anche a seguito di questa formalizzazione dei loro diritti, più consapevoli di essi e più fiduciosi di riuscire a farli rispettati in concreto.

In questo strisciante ma sempre più ampio conflitto capitale-lavoro, Hu, Wen e soci hanno assunto negli ultimi anni una posizione tesa ad apparire aperta all’ascolto delle istanze operaie e contadine. Ben inteso: in oltre il 60% delle proteste di una certa consistenza è immediatamente intervenuta la polizia, come forma di deterrenza, di controllo e, in rari casi, per quel che se ne sa, facendo anche dei morti tra i dimostranti. Assolutamente ferreo è tuttora il divieto di organizzare sindacati e partiti indipendenti dallo stato. E attentissimo è il sapiente mandariname "rosso" (??) verso ogni potenziale trascrescenza della protesta immediata in lotta contro il governo e per la espansione dei diritti politici dei lavoratori; verso la possibile, temutissima convergenza delle agitazioni operaie alla scala nazionale (quello che successe nei convulsi giorni del 1989); verso ogni forma di contatto tra sfruttati delle città e sfruttati delle campagne, e la loro interazione con lo scontento di milioni di giovani laureati disoccupati. Ma, come il varo della nuova legislazione del lavoro e la stessa vicenda della sindacalizzazione dei megastore della Wal-Mart dimostrano, esso è preoccupato, negli ultimi anni in particolare, di apparire ai lavoratori come un potere super partes, disposto anche a colpire in alto, tra i nuovi pescecani odiati dai lavoratori, come ha fatto sbattendo in galera Yang Bin e avviando alla galera Huang Guangyu, i due capitalisti individuali più ricchi della Cina. Del resto, la fase di durissima competizione con la super-potenza statunitense e le altre potenze imperialiste che è aperta, obbliga i governanti della Cina a fare di tutto per mantenere unito il paese, così da poter giocare con successo la carta del nazionalismo. Salvo avere la necessità di contenere le attese che queste decisioni possono alimentare negli sfruttati, e decidere –per esempio- nell’ottobre del 2008 il blocco degli aumenti dei salari minimi. Salvo dover avviare un salto di qualità nella trasformazione delle campagne cinesi che falcerà senza pietà decine di milioni di contadini e di braccianti. Salvo, quindi, avere sempre e comunque come propria missione la salvezza del capitale cinese e internazionale. Una vera quadratura del cerchio!

Non chiedeteci come finirà. Non  siamo maghi. E questo, poi, è appena l’inizio, i primi minuti della partita e del campionato. Possiamo solo dirvi che la nostra squadra del cuore appare briosa. Non è ancora ben messa in campo, i diversi reparti non sono ancora ben collegati, ma promette bene. È solo l’inizio, ma è un buon inizio.

Note

(1) Il testo del nostro Dossier del n. 64 è scaricabile dal nostro sito: www. che-fare.org

(2) Cfr. B. Emmott, Asia contro Asia, Rizzoli, 2008, p. 108.

(3) Traiamo questi dati e le successive informazioni da tre documentati rapporti del China Labour Bulletin: The Case of China: The Challenge of LabourUnrest in a Communist-run Capitalist Economy (dicembre 2008); Protecting Workers’ Rights or Serving the Party: the Way forward for China’s Trade Unions (marzo 2009); Going it Alone. The Workers’ Movement in China (2007-2008), del luglio 2009; dall’opuscolo di V. Kolo-C. Lizhi, China Sweatshop of the World. The Coming Revolt, Hong Kong, 2008; dai documenti di Global Labor Strategies, Why China Matters: Labor Rights in the Era of Globalization (aprile 2008) e del SACOM (Students and Scholars against Corporate Misbehaviour), An Investigative Report on Labor Conditions of the ICT Industry: Making Computers in South China (novembre 2006); dai saggi di R. Weil, Conditions of the Working Class in China, "Monthly Review", giugno 2006, e City of Youth. Shenzhen, Cina, "Monthly Review", giugno 2008; dal testo a cura di K.J. O’Brien, Popular Protest in China, Harvard University Press, 2008, nonché da molteplici siti (quali Asia News) e riviste quali "Perspectives chinoises" e "Critical Asian Studies". Riconosciamo il grosso limite, che ci stiamo sforzando di superare, di non accedere alle fonti cinesi in lingua originale.

(4) Nel solo biennio 2007-2008 le agitazioni con migliaia di partecipanti hanno riguardato la fabbrica tessile Huayuan a Fuyang (Anhui), l’acciaieria Lueyang nello Shanxi, la fabbrica di prodotti in plastica e metallo Baolishun a Shenzhen (Guangdong), la fabbrica di giocattoli Yongxing di Dongguan (Guangdong), la fabbrica tessile Xinyu nello Jiangxi, la fabbrica elettronica Feihuang a Shenzhen (con più di 10.000 scioperanti), il gruppo Luoyang White Horse nello Henan (anche in questo caso, più di 10.000 lavoratori in sciopero con blocco stradale), la tipografia Huayang a Shenzhen, la Aigao Electronics a Dongguan, le fabbriche di proprietà statale Jiumian Industrial nello Shaanxi, la Zhangjiakou Cigarette nello Hebei e quattro stabilimenti del gruppo tessile Changshan a Shijiazhuang nello Hebei, la Yuansheng Light Industrial a Shenzhen, la fabbrica di scarpe Quanta a Ghuangzhou (sempre nel Guangdong), la fabbrica tessile n. 1 del gruppo Santai Cotton and Linen nel Sichuan, la Casio Electronics ancora a Ghuangzhou, la Changsha Heavy Machinery nello Hunan, la Jianglong nello Zhejiang. A queste agitazioni bisogna aggiungere anche almeno quella dei guidatori di taxi salariati a Chongqing (con più di 10.000 lavoratori in lotta) e Guangzhou, e il grande sciopero inter-provinciale degli insegnanti degli asili e delle scuole primarie e secondarie nel Sichuan, Shaanxi, Hubei, Hunan e a Chongqing, entrambi scoppiati nel 2008.

(5) Cfr. L. T. Chang, Factory Girls. From Village to City in a Changing China, Spiegel & Grau, 2008. Dongguan è una metropoli di oltre 7 milioni di abitanti, composta per ¾ di mingong.

(6) Cfr. A. Chan, Organizing Wal-Mart: The Chinese Trade Union at a Crossroad, "Japan Focus", September 8, 2006.

(7) Il China Labour Bulletin aggiunge che tra il febbraio 2007 e il settembre 2008 sono stati varati dal governo anche altri provvedimenti relativi alle persone con disabilità, alla indennità di buonuscita, al salario minimo, ai servizi per l’impiego e alla applicazione della legge sui contratti di lavoro (cfr. il documento Going it Alone. The Workers’ Movement in China (2007- 2008), luglio 2009, p. 12).

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci