Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Fini? Tutto fuorché un "amico"

Le sortite del presidente della Camera in tema di immigrazione hanno fatto scalpore. Egli caldeggia tre misure in particolare:

1) la cittadinanza dopo 5 anni di regolare permanenza;

2) la cittadinanza per i figli di immigrati "regolari" nati e vissuti in Italia fino all’undicesimo anno di età;

3) il diritto di voto alle amministrative.

Che a simili proposte   possa guardare con speranza una quota cospicua di immigrati, è probabile e spiegabile. Che questa speranza sia ben riposta è, invece, assolutamente escluso. Fini (e dietro lui settori del grande capitale e le gerarchie vaticane) si pone il problema di quale sia la via per gestire il "fenomeno immigratorio" nel modo più profittevole per il "sistema nazione" in un paese in cui ormai vivono stabilmente più di quattro milioni di immigrati, e in cui il loro tasso di natalità e di attività è decisamente più alto di quello degli autoctoni.

L’ex presidente di AN non ha dubbi: ci vuole una netta sterzata rispetto all’attuale politica governativa, che alla lunga, con la sua "rozzezza", rischia di accrescere la rabbia degli immigrati e di non riuscirne a contenerne le esplosioni  di lotta.

Per continuare a torchiare a pieno  ritmo i loro muscoli, bisogna, dice Fini, provare a conquistare un pizzico del loro cuore. Perciò è necessario che a loro (soprattutto ai giovani di "seconda generazione") si offra una qualche (per lo più virtuale) prospettiva che non li costringa a sentirsi sempre e comunque come un corpo estraneo rispetto alla "comunità nazionale". Inoltre, prosegue il presidente della camera, una nazione che vuole continuare a rivestire un ruolo importante nel panorama internazionale deve curare con attenzione anche i rapporti con i paesi che "esportano manodopera".

Insomma serve una "politica migratoria" più articolata di quella odierna. Basta, quindi, con le randellate un po’ troppo indiscriminate alla maniera leghista e giù con una "nuova e diversa" politica che di randellate ne meni tante lo stesso, ma in modo più selettivo e differenziato. Come scrivevamo nel precedente numero di questo giornale, la prospettiva di Fini (e della proposta di legge su cittadinanza e immigrazione da lui ispirata e sostenuta da parlamentari della maggioranza e dell’opposizione) punta a realizzare le migliori condizioni per far si che una ristretta e ben selezionata fascia degli immigrati (a partire da quella che più si è "inserita" facendosi strada nell’imprenditoria e nel commercio) si faccia carico di promuovere i "valori dell’italianità" tra la restante massa. La finalità è quella di costruire uno strato di "integrati" che ponga un freno "dall’interno" al percorso di organizzazione e lotta degli immigrati, che funga da loro controllore e faccia vivere con più forza tra loro la necessità e la "convenienza" (in realtà l’obbligo) di adeguarsi (di piegarsi!) in pieno alle "regole di casa nostra" (cioè alle esigenze delle imprese e dello stato italiano). In sintesi: briciole a qualcuno per poter, anche con la sua collaborazione, stringere con più forza le catene intorno a molti.

È, dunque, vero che la posizione del presidente della Camera è differente da quella egemone nella coalizione governativa. Ma è falso che da essa possa venir fuori qualcosa di buono per la massa dei lavoratori.

A proposito della proposta di legge sulla cittadinanza. Parlano i due primi firmatari.

Granata, Pdl: "Noi poniamo la questione della cittadinanza su canoni qualitativi e non quantitativi. Un certo numero di anni [di residenza] possono non significare nulla per uno straniero se poi da parte sua non c’è una volontà precisa di diventare italiano".  Sarubbi, PD: "Non è una norma buonista: prevede tempi dimezzati, ma standard molto severi".

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

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