Dal Che Fare n°71 novembre - dicembre 2009
Altro che governo inetto !
Governo Berlusconi: legnate a non finire contro i lavoratori
L’accusa che la sinistra ufficiale e la Cgil lanciano contro il governo Berlusconi è quella di aver fatto "poco" e "male" per fronteggiare la crisi economica in corso, di aver pensato alle veline anziché occuparsi dei problemi del paese.
Non è vero! In un breve arco di tempo, talvolta alla chetichella, il governo Berlusconi ha assestato contro i lavoratori una serie di pesanti legnate con le quali ha portato avanti in profondità la disorganizzazione delle fila del mondo del lavoro.
Di fronte alla diffusione di massa della cassintegrazione, allo stillicidio dei licenziamenti (mascherati per centinaia di migliaia di precari dal mancato rinnovo del contratto di lavoro) e al conseguente taglio delle entrate delle famiglie proletarie, il governo Berlusconi è riuscito in una impresa politica della quale gli sono riconoscenti tutti i padroni, anche quelli (ci verremo dopo) in parziale contrasto di interessi con lui.
Di cosa lo ringraziano.
Il governo Berlusconi è riuscito ad evitare che il peggioramento subìto dalla condizione dei lavoratori si tramutasse in lotte e in conflitto di classe contro i responsabili della crisi economica, i direttori della macchina capitalistica, i padroni, il loro governo, i loro propagandisti prezzolati.
Nello stesso tempo, è riuscito a far avanzare l’atomizzazione del tessuto proletario, la canalizzazione del malessere dei lavoratori italiani contro i lavoratori immigrati e, non è un’esagerazione, la stessa corruzione morale del proletariato, con l’introiezione della legittimità della mercificazione di ogni cosa, ben rappresentata dalla vicenda delle veline.
È vero che, nel portare avanti questa operazione, il governo Berlusconi ha messo a frutto una serie di condizioni favorevoli. In coerenza con la loro natura genetica, il Pd e la Cgil hanno considerato "naturali", in tempi di crisi, licenziamenti e cassintegrazioni.
Gli sforzi riorganizzativi degli spezzoni dell’ex-partito della Rifondazione Comunista, in coerenza con la natura genetica di questa costola del
"vecchio movimento operaio", sono ruotate attorno allo squallido obiettivo di rientrare in parlamento: quando hanno agitato i temi della difesa degli interessi proletari, lo hanno fatto in chiave strumentale per raccogliere voti in vista del rientro nel mercimonio istituzionale. Lo spettro dei licenziamenti ha, poi, indotto i proletari rimasti sul posto di lavoro a mostrarsi più disponibili del solito verso le richieste delle direzioni aziendali per paura di finire nei fogli di via stilati da queste ultime. L’attivazione delle procedure di cassintegrazione ha, infine, evitato che centinaia di migliaia di lavoratori venissero messi sul lastrico e ha indotto questi ultimi ad aspettare che passasse ’a nuttata.Questa situazione di passività e di silenzio surreale, nella quale la paura e la riduzione dei consumi registrate da molte famiglie proletarie sono rimaste quasi nascoste entro le mura di casa, ben lontane dalla cronaca dei mezzi d’informazione ligi all’ottimismo ufficiale, il governo è addirittura riuscito a presentare i fondi stanziati per la cassintegrazione (8 miliardi di euro) come un dono da lui stesso varato a beneficio dei lavoratori e a far dimenticare due cose fondamentali: 1) che le indennità di cassintegrazione sono una quota della ricchezza prodotta dai lavoratori che torna ai lavoratori e non un reddito che proviene da chissà quale generosa mano milionaria; 2) che l’esistenza di questa specie di indennità di disoccupazione (non priva di esalazioni politiche velenose per i lavoratori) è stata comunque concessa decenni fa dalla borghesia sotto l’ondata delle lotte proletarie contro i licenziamenti.
È vero che, in conseguenza di ciò e della parziale frenata della recessione economica avvenuta all’inizio dell’estate, il governo Berlusconi, a differenza di quanto accaduto nel 1994 e nel 2001, non s’è trovato di fronte ad una mobilitazione generale dei lavoratori ed ha usufruito di un clima politico ottimale. Ma è altrettanto vero che esso è stato prontissimo a sfruttare questa situazione favorevole per far passare una ristrutturazione profonda dei rapporti tra capitale e lavoro, come risulta (v. scheda) dalla ricognizione degli interventi del governo nel 2009. Ne ha approfittato per colpire con la repressione, isolare e spegnere sul nascere gli esempi "socialmente pericolosi" dei pochi lavoratori che hanno reagito ai licenziamenti con una lotta decisa. Ne ha approfittato per consolidare l’illusione dei lavoratori di potersi difendere di fronte alla crisi economica dando un calcio ai lavoratori più ricattati, facendo blocco con i propri padroni contro il resto del mondo (e quindi anche contro gli altri lavoratori).
Né è da sottovalutare l’effetto sedimentato tra i lavoratori dagli inviti corruttori, trasmessi con le azioni e la propaganda del capo di governo e dei sui soci in affari, a non farsi troppi scrupoli per gli altri, a non avere remore a vendere e ad acquistare ogni cosa, anche i sentimenti, se in gioco è la cura dei propri interessi. A cercare di sfuggire all’incertezza che grava sulla vita dei proletari lanciandosi come micro-imprenditori, puntando sulla torchiatura dei lavoratori assoldati e sul servilismo verso i potentatidi turno secondo il modello Tarantini.
A identificare il proprio ideale nella vita innaffiata da cocaina, prostitute,sfilate, ville e festini del milionario, a non arretrare di fronte a nulla pur di gustare un attimo di simile... fogna. Ma se i padroni possono ben applaudire Berlusconi, come d’altronde è accaduto nelle assemblee confindustriali, come mai Berlusconi è da mesi sotto il tiro di un settore della classe capitalistica italiana, quello rappresentato dal quotidiano
la Repubblica?Come mai Montezemolo, Draghi e Profumo tessono la tela con Casini, Napolitano, D’Alema e Fini per un nuovo esecutivo? Secondo la motivazione fornita in alcune occasioni da questi ultimi personaggi, Berlusconi non ha fatto e non sta facendo tutto quel che dovrebbe per il rilancio del capitale nazionale.
È così. Ma non perché esageratamente occupato dai suoi festini. O quantomeno, ciò è solo un sotto prodotto di un dato strutturale che, come lavoratori e compagni, siamo chiamati a ben comprendere al fine di evitare di affidarci alla volpe per sfuggire al gatto.
Per cosa lo contrastano.
Più volte sul nostro giornale ci siamo soffermati sul declino del rango dell’imperialismo italiano nella gerarchia delle potenze capitalistiche mondiali, sulle radici storiche ed economiche di tale declino. Il governo Berlusconi è stato ed è abile nel realizzare una delle pre-condizioni per cercare di arrestare e invertire tale declino: la disgregazione del proletariato. La sua azione è stata ed è, però, del tutto insufficiente su un altro, pur decisivo, terreno: quello della politica industriale, del rafforzamento della centralizzazione finanziaria, del potenziamento dell’apparato statale e della presenza internazionale dell’Italia.
È vero che il governo Berlusconi ha fatto qualcosa in tal senso (v. la defiscalizzazione degli utili investiti in innovazione tecnologica, gli accordi economico-diplomatici con la Libia, gli scambi con la Russia), ma troppo poco. L’interesse generale del capitale nazionale richiede un’azione governativa attenta nel favorire e guidare l’accentramento delle imprese e della ricerca scientifico-tecnologica, ad esempio nei cosiddetti distretti industriali.
Non basta invitare ciascuno ad andare avanti come può. In uno studio presentato il 5 luglio 2009, il Centro studi e ricerche di Intesa Sanpaolo ha segnalato che solo 11 distretti industriali (su 104) si "salvano" dal vero e proprio crollo delle esportazioni italiane registrato consecutivamente da sei trimestri. Molto di questo dato, è scritto nel documento, è dipeso "dal crollo della domanda dei mercati di sbocco che hanno messo in ginocchio le nostre esportazioni", ma lo studio sottolinea anche con preoccupazione "l’urgenza di accelerare il consolidamento della nostra industria con aggregazioni o acquisizioni rivolte in particolare ai soggetti più deboli sul piano finanziario ma ricchi di conoscenze sul piano produttivo (…) pena riflessi negativi sulla competitività generale dell’industria italiana".
Non solo non ha agito in tal senso, ma il governo Berlusconi rischia di peggiorare la situazione con il varo della riforma federalista nella versione leghista (v. n.70 del che fare). Né è andata meglio con l’azione dello stato italiano in campo internazionale, dove Berlusconi si è comportato più da commerciante, da rappresentante degli interessi di alcuni limitati settori imprenditoriali piuttosto che da statista, come s’è visto nella vicenda Fiat-Opel. Sta risultando, infine, troppo semplicistico, come rileva Fini, il rapporto che il governo Berlusconi intende stabilire con il mondo dei lavoratori immigrati.
Non è che Berlusconi non voglia un’azione politica coerente con il rilancio del capitale nazionale. Il fatto è che egli rappresenta un tessuto imprenditoriale pidocchioso, di cui è una componente il piccolo padronato leghista, che coltiva i suoi affari s pesso in settori posti al riparo dalla competizione internazionale (edilizia, appalti pubblici, turismo, liberi professionisti). Che si illude di poter rimanere a galla contando sull’arte dell’arrangiarsi. Che non si rende conto che, per evitare l’esplosione del conflitto di classe, non può gestire il rapporto con i proletari come se questi ultimi fossero plebe. Per le esigenze di questa frazione del capitale nazionale non serve che il governo Berlusconi faccia di più. Ed il suo capo, privo della volontà di sostenere un’altra prospettiva storica borghese, ha tutto il tempo, ovviamente, per lanciarsi e stordirsi nei festini.
I centri del grande capitale ancora non si sono rassegnati a questo ruolo totalmente subalterno nella divisione internazionale del lavoro. Scontano anch’essi, però, una duplice difficoltà.
Da un lato, quella di elaborare un programma di rilancio dell’imperialismo italiano che li veda concordi. Dall’altro lato, quella di organizzare in loro sostegno una base sociale militante, che non può essere certo costituita dai partecipanti alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa. La frazione capitalistica che trama contro Berlusconi potrebbe trovare il nocciolo di un suo supporto popolare nella parte più strutturata del proletariato industriale, come sembrano proporre Bersani-D’Alema. Ma quanto li paralizza il timore che i lavoratori possano poi pretendere troppo!
I lavoratori devono far sentire la loro autonoma voce.
I proletari potrebbero approfittare della situazione di divisione esistente in seno ai padroni e ai loro rappresentanti politici. Purtroppo, lo stato politico generale dei lavoratori, di apatia e di accodamento ai programmi borghesi, fa sì che tale situazione accentui lo sfilacciamento in seno alla classe proletaria secondo linee territoriali, aziendalistiche, nazionali.
Più volte abbiamo denunciato questa deriva. È improbabile che l’inversione di rotta arrivi nell’immediato futuro. Sin da oggi, però, deve e può essere portata avanti dai lavoratori più combattivi e lungimiranti l’indispensabile azione di aratura del terreno. A partire, come discutiamo in altri articoli, dalle lotte che l’attacco capitalistico ci chiama urgentemente ad ingaggiare: quella contro i licenziamenti e la disoccupazione, quella contro l’aumento dello sfruttamento nei posti di lavoro, quella contro il razzismo. Nella promozione e nella conduzione di queste lotte,
i lavoratori non possono appoggiarsi sui poteri capitalistici e sui partiti parlamentari che stanno tramando contro Berlusconi. Possono contare solo sulle proprie forze e su un’organizzazione autonoma che metta all’ordine del giorno la lotta generale per spazzare via il governo Berlusconi.Questo risultato sì che ridurrebbe il potere di ricatto e di condizionamento dei padroni e del successivo governo, non certo un cambio di governo deciso nelle alte sfere, italiane e internazionali!
Dal Che Fare n°71 novembre - dicembre 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA