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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Il proletariato italiano: dalle stelle con Marx alle stalle con Bossi?

Da anni, ricerche sociologiche e sondaggi evidenziano che la maggioranza dei lavoratori italiani è collocata a destra, a differenza di qualche decennio fa, quando a spopolare erano i partiti della sinistra, ancora inneggianti al "comunismo".

L’intenzione, neanche troppo velata, è quella di indurre alla seguente conclusione: "Vedete?, Marx si è sbagliato sulla missione storica della classe operaia. Gli operai stessi, che dovrebbero essere anti-capitalisti, solidali, internazionalisti, fautori del comunismo, sono invece schierati con l’ala destra della classe dirigente dietro una politica razzista. Fanno addirittura blocco con il loro padrone per vincere sul mercato mondiale contro altri padroni e contro altri lavoratori. Hanno capito anche loro che al capitalismo non c’è alternativa. Gli unici fessi siete voi, che invece continuate testardamente ad essere convinti che..."

Noi non neghiamo che al momento questa posizione politica abbia ampio spazio tra i lavoratori. La spiegazione che ne diamo è, tuttavia, radicalmente diversa da quella ufficiale. E diversa la prospettiva che facciamo discendere dalla melma attuale.

Il punto di partenza non è il punto d’arrivo.

È vero che per Marx ed Engels, i fondatori del comunismo moderno, il proletariato ha una missione storica: quella di guidare l’umanità lavoratrice verso un sistema sociale superiore al capitalismo, nel quale non ci sarà più né lo sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano né la distruzione della natura da parte della specie umana. Questa convinzione, di cui Il Capitale fornisce una dimostrazione scientifica, non sta ad indicare, però, che gli operai sono sin dall’inizio coscienti di questo ruolo e organizzati coerentemente con esso.

Questo è solo un possibile punto di arrivo. Il punto di partenza è diverso. Per intenderlo, occorre tornare alle caratteristiche della condizione proletaria nel capitalismo. Al fatto che l’operaio, per campare, deve vendere la sua forza lavoro ad un padrone. Secondo la dottrina economica ufficiale (nelle sue multiformi varietà) questo scambio tra il cosiddetto imprenditore e il proletario avrebbe un duplice benefico effetto: da un lato, ognuno dei due soggetti trarrebbe il suo tornaconto economico, chi il salario e chi il profitto; dall’altro lato, la società sarebbe sospinta verso il benessere generale. Le cose non stanno affatto così. Spontaneamente il "libero" scambio tra capitale e lavoro salariato, la "libera" azione delle forze animali del mercato capitalistico spingono i lavoratori nella spirale di una spietata concorrenza reciproca che li conduce in una situazione intollerabile.

È ciò che accadde in Europa ai tempi della rivoluzione industriale e nella prima metà dell’Ottocento con le giornate lavorative di 16 e più ore, i salari da fame, il supersfruttamento dei bambini e delle donne, l’ammasso di centinaia di migliaia di persone in quartieri malsani, privi di fogne, ecc. Da questa bestializzazione i proletari sono stati costretti a difendersi. All’inizio con azioni individuali, con le risorse della furbizia, con la vendetta personale, con la violenza sulle macchine. Poi, sperimentata l’inanità di queste azioni, con la scoperta e l’uso dell’unica arma efficace a loro disposizione: lo sciopero e la lotta collettiva. Efficace perché essa permette di annullare la concorrenza tra i lavoratori e impedisce al capitalista lo sfruttamento della manodopera se egli continua a negarle alcune tutele in termini di orario, di previdenza, di educazione, ecc.

Tale organizzazione collettiva dei lavoratori è stato un semplice atto di volontà contro la tendenza oggettivamente disgregante del mercato? Anche questo. Ma ad intervenire è stata un’altra spinta oggettiva offerta dallo stesso capitalismo, che, nel frattempo, con il suo sistema produttivo di macchine aveva creato il lavoratore collettivo, lo aveva spinto a sentire la forza di cui i lavoratori dispongono, di essere i creatori della ricchezza sociale.

Dall’atomizzazione, dall’informe stato dei lavoratori, frantumati dalla concorrenza, alla costituzione di una collettività: un primo passo era stato compiuto. Siamo già alla classe operaia pervenuta alla coscienza di classe di cui parla Il manifesto del partito comunista? No, in quella prima fase, la lotta e l’organizzazione dei lavoratori erano animate dall’idea che il capitalismo possa essere gestito in modo più umano, che lo stato possa fungere da arbitro tra capitale e lavoro.

La crisi e la rivoluzione

La dottrina marxista non ha mai sostenuto che la classe operaia, nel momento in cui si desta alla lotta, sia di per sé stessa e in ogni momento rivoluzionaria. Le lotte dell’ottocento sono lì a raccontarcelo. Alla coscienza e all’organizzazione rivoluzionaria giunse solo un pugno di lavoratori e vi giunse grazie al rapporto simbiotico con certi teorici, schierati, talvolta anche contro la loro provenienza sociale, per il progresso dell’umanità contro la borghesia. Tale nucleo rimase, in un certo qual senso, isolato dal resto della classe lavoratrice. E isolato sarebbe rimasto per sempre, se lo scontro tra il capitale e il lavoro salariato avesse potuto trovare un compromesso all’infinito. Se non si fosse realizzata un’altra previsione della dottrina marxista, la quale sin dai tempi del Manifesto del partito comunista evidenziò che l’accumulazione capitalistica, prima o poi, sprofonda nelle turbolenze economiche, nella guerra mondiale di rapina, nella sopraffazione nazionale e razziale universale, nella catastrofe. E ciò non perché i manovratori della nave, i capitalisti e i loro dirigenti statali, fossero stati cattivi timonieri, bensì proprio per il fatto  che hanno diligentemente applicato le leggi del capitale.

Il marxismo previde, inoltre, che  sotto i colpi della catastrofe, le lotte difensive dei lavoratori, pur se permeate dall’ideologia riformista, sarebbero state costrette a spingersi sul terreno della rivoluzione, a fare i conti con il nodo storico messo in evidenza dalle organizzazioni ultraminoritarie dei militanti comunisti e così sintetizzabile:

1) la tutela dei lavoratori, la sopravvivenza della stessa specie umana richiedono un altro sistema sociale, richiedono un’altra direzione delle forze produttive, delle industrie, delle miniere, delle attività agricole finalizzata non al profitto ma ai bisogni sociali, alla riproduzione armonica dell’umanità;

2) il soggetto di questa trasformazione non può che essere lo stesso lavoratore collettivo che il capitale ha allevato per i suoi fini di sfruttamento e che l’apocalisse storica chiama ad auto-trasformarsi da appendice del sistema delle macchine in soggetto storico creativo;

3) il proletariato costituitosi in partito può compiere la sua missione, può spezzare la resistenza opposta dagli sfruttatori alla loro espropriazione solo spingendosi verso una lotta di classe rivoluzionaria, richiedente la dittatura del proletariato e il terrore rosso, in modo simile a come aveva fatto la precedente classe rivoluzionaria, la borghesia, per conquistare la direzione del processo storico contro la declinante classe feudale.

La previsione marxista si è già avverata una volta.

La propaganda ufficiale derise e continua a deridere questo pilastro della dottrina del marxismo rivoluzionario. Eppure nei duecento anni di vita del capitalismo moderno questa previsione ha trovato già una prima conferma formidabile: la crisi storica del trentennio 1914-1945.

In quegli anni, non solo ci fu la catastrofe dell’ordine borghese. Ci fu anche l’inizio del percorso del proletariato dal suo riformismo spontaneo alla rivoluzione. Un passo in avanti epocale fu compiuto in Russia con la rivoluzione dell’Ottobre 1917. Di lì a breve il cammino, purtroppo, si interruppe. Non si generalizzò all’Europa occidentale, al decisivo teatro rivoluzionario tedesco. Come mai? Ci furono errori nella direzione delle lotte proletarie da parte dell’organizzazione, l’Internazionale Comunista, che si prefisse di realizzare quel grandioso obiettivo storico? Ci furono "tradimenti" dei dirigenti? Con il senno del poi, è facile  scorgerne. Ma essi si svilupparono e diventarono forieri di disastro perché l’evoluzione oggettiva della struttura del capitalismo mondiale permise al capitale di realizzare le condizioni richieste per rilanciare l’accumulazione (cioè l’innalzamento sensibile del tasso di sfruttamento del proletariato mondiale e l’abbassamento drastico del costo delle materie prime) senza compromettere i livelli di esistenza dei lavoratori occidentali. Anzi migliorandoli.

Vi riuscì grazie ad una combinazione di fattori: l’esistenza in Europa, nel 1945, di un apparato industriale e infrastrutturale quasi completamente distrutto dalla guerra e da ricostruire; il salto compiuto dalla produttività e dall'intensità del lavoro nelle fabbriche occidentali con il passaggio alla filiera dell'auto, all'organizzazione fordista del lavoro, all'era dell'elettricità e del nucleare; lo schiacciamento delle colonie e delle semicolonie, l'accaparramento delle materie prime a prezzi stracciati; la disponibilità di un bottino e di risorse liberate dall'aumento della produttività e dell'intensità del lavoro così ingenti da permettere ai capitalisti di aprire i cordoni della borsa verso i lavoratori salariati occidentali; l'affermazione della mostruosa diga contro-rivoluzionaria costituita dalla potenza statale termo-nucleare statunitense al posto degli ammaccati o decadenti stati europei.

Se lasciamo stare i "dettagli" delle centinaia di milioni di morti del trentennio 1914-1945, della barbarie che il capitale rovesciò sull’umanità in quegli anni fino alla mostruosità dello sterminio degli ebrei e dell’olocausto nucleare, la massa dei lavoratori, in quel periodo ancora concentrata in Occidente, si convinse che poteva migliorare o conservare la propria posizione entro i rapporti capitalistici.

Anziché essere incenerito, nella fase della ricostruzione post-bellica il riformismo spontaneo dei lavoratori si consolidò. Di più: si cristallizzò in un  riformismo social-sciovinista a causa della partecipazione, pur non consapevole, dei lavoratori al banchetto imperialistico sulle pelle del Sud del mondo.

Questa traiettoria è una smentita del marxismo? Neanche per sogno. Per Marx ed Engels la crisi catastrofica cui, prima o poi, giunge il capitale, apre solo una finestra di opportunità. È un momento in cui la lotta di classe erompe e appare per quel che essa è: la lotta tra due sistemi sociali attraverso le classi sociali che li rappresentano. La vittoria del proletariato non è, però, per niente sicura. Non è sicura perché la borghesia non cede le armi senza combattere. Non è sicura perché la borghesia cerca disperatamente nella catastrofe e nello scontro di classe di rigenerarsi, di realizzare un salto nella produttività del lavoro e una ristrutturazione del proprio assetto tale da aprire la strada, sulle colonne fumanti della sconfitta proletaria e di distruzioni spaventose, ad un nuovo ciclo di sviluppo e di accumulazione. È ciò che avvenne nel 1914-1945.

Le ansie dei vincitori di ieri

Oggi i borghesi più lungimiranti temono che le scosse di Wall Street segnalino l’avvicinarsi di un nuovo sisma di portata simile a quello iniziato nel 1914. In Italia e in Europa, la propaganda ufficiale cerca di esorcizzare il ritorno dello spettro del comunismo con due operazioni. Da un lato,  si spertica a dimostrare che la crisi in corso è solo l’effetto dell’ingordigia dei banchieri, dell’errore di qualche manovratore, ma non del mercato capitalistico in sé e per sé. Dall’altro lato, sottolinea che, in ogni caso, i lavoratori, anziché lottare contro il capitale, si stanno spostando da sinistra a destra e che, proprio per questo, non potrà ripresentarsi lo scontro rivoluzionario esploso nel 1917-1923.

C’importa poco, signori padroni, politici e giornalisti inneggianti alla destra al potere, se affermate ciò sapendo di mentire o se credete effettivamente a questa panzana a causa  della vostra miopia analitica. Il guaio, per voi, è che se si analizza a fondo il senso di questo spostamento elettorale dei lavoratori italiani ed europei, si giunge alla conclusione opposta alla vostra. Ecco perché.

In primo luogo, tra la destra e la "sinistra" non c’è quella distanza abissale che che i mezzi di informazione, di destra e di sinistra, danno ad intendere. I fondamenti dell’una e dell’altra stanno, infatti, nella difesa della proprietà privata, del capitale, dello stato, dell’organizzazione famigliare borghese. Nell’uno e nell’altro caso si fa dipendere la tutela delle condizioni dei lavoratori dalla salvaguardia del bene primario della competitività dell’impresa. Nell’uno e nell’altro caso si sottolinea l’interesse dei lavoratori a mettersi in concorrenza con altri lavoratori.

In secondo luogo, votino i lavoratori a destra, votino a "sinistra" o  si astengano, c’è continuità sostanziale tra la loro attuale collocazione politica e quella dei lavoratori aderenti all’ex-Pci, al riformismo social-sciovinista del XX secolo. Anche nella "sinistra" pre-1989 i lavoratori facevano dipendere la loro tutela dalla difesa della loro impresa, della loro nazione, del loro stato. Dalla loro capacità di essere concorrenziali rispetto ai lavoratori degli altri paesi. Dal sostegno, inconsapevole ma sostanziale, concesso alla loro impresa, alla loro nazione e al loro stato nel saccheggio  dei popoli del Sud del mondo. Finché il lavoro industriale è rimasto quasi un monopolio dei proletari occidentali, questa impostazione ha garantito una tenuta della condizione dei lavoratori e reso conveniente il mantenimento di un’organizzazione di contrattazione collettiva dei lavoratori, in un certo senso distinta dalle istituzioni della classe capitalistica.

Negli ultimi venticinque anni, questo monopolio è, però, venuto meno, per effetto della mondializzazione dell’industria, per effetto della formazione di un mercato del lavoro unificato a livello planetario e per effetto dello sviluppo di un’accanita concorrenza tra i lavoratori dei cinque continenti. In questa situazione, il riformismo social-sciovinista non poteva evolvere che nel senso del progressivo ritorno ad un’atomizzazione della classe lavoratrice simile a quella della prima fase del capitalismo industriale. Alla disgregazione delle fila proletarie e alla proliferazione del social-darwinismo. Di cui l’adesione dei lavoratori italiani (ed europei) alla "sinistra" e alla destra attuali è il riflesso sul piano elettorale.

Il grande bluff

Ma non vantatevi di questo successo, dirigenti del Pdl o della Lega. Esso si fonda su un bluff, sulla promessa che il vostro social-darwinismo e il vostro federalismo sapranno tutelare i lavoratori. La storia, che se ne frega delle spacconate dei pidocchi, scoprirà il vostro bluff. Se ne accorgeranno sulla loro pelle anche i lavoratori che oggi si raccolgono dietro la Lega, il Pdl o il Pd.

Il capitale potrà, infatti, mettere a  frutto per sé la mondializzazione del processo produttivo e del mercato del  lavoro da poco avviata solo con una profonda ristrutturazione del suo assetto mondiale. Essa non potrà essere indolore. Richiederà l’attraversamento di una nuova epoca catastrofica. Porrà con maggior urgenza che nel 1920 l’esigenza della rivoluzione comunista. La crisi economica attuale, i dubbi tra la gente negli Usa verso il carattere benefico della mano invisibile del mercato annunciano, da lontano, questa nuova crisi sociale rivoluzionaria.

Di fronte a questa prospettiva storica i lavoratori in Italia e nel resto dell’Europa, l’area che fu l’epicentro del sisma degli anni venti del XX secolo, partono da un abisso. A differenza di un secolo fa, però, si riparte con una classe proletaria diffusa in tutto il mondo, estesa quanto mai in passato, con una sua giovane sezione in Asia niente affatto rassegnata ad adattarsi ad una condizione schiavistica, una componente femminile di prim’ordine, un vero lavoratore collettivo  mondiale, soggetto potenzialmente in grado di prendere in mano le forze produttive mondializzate e usarle a favore dell’umanità.

La sola alternativa alla lotta rivoluzionaria per il comunismo è la riedizione più inumana e oppressiva che mai del sistema capitalistico oppure la comune rovina delle classi, l’estinzione della stessa specie umana. Scongiuriamo l’una e l’altra!

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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