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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

Per una lotta generale contro i licenziamenti, il lavoro saltuario di massa, la crescente torchiatura sui posti di lavoro !

Con l’autunno è ritornato in campo  un dramma che per i trombiettieri del capitale era stato mandato definitivamente  in soffitta: la disoccupazione di massa. Siamo quasi al 10%. Sia per effetto dei tagli occupazionali che per effetto della maggiore difficoltà dei giovani proletari di trovare un posto di lavoro. Sino ad ora (ottobre 2009) i tagli occupazionali sono stati effettuati soprattutto attraverso licenziamenti "mascherati": non che siano mancati quelli "classici" con annessa chiusura di aziende, ma, al momento, a perdere il posto sono stati spesso i lavoratori "a tempo determinato", a cui non è stato rinnovato il contratto. È probabile un aggravamento della situazione, non fosse altro che per l’esaurimento della durata della cassintegrazione.

Nulla di temporaneo

La stessa Confindustria ammette che il prossimo anno rischia di essere nero sul fronte occupazionale. Però, dice, si tratterà al massimo di dodici mesi. Poi la ripresa farà sentire il suo alito benefico e le aziende saranno ben felici di assumere come e più di prima.

Balle colossali! Non tanto perché per riassorbire la disoccupazione generata da questi due anni di crisi ci vorrebbero ben altro che i timidi e fragili segnali di cosiddetta "ripresa" che qua e là sembrano intravedersi. Ma soprattutto perché la posta in gioco è la qualità dell’occupazione, è un salto nella stessa precarizzazione di massa. I lavori a intermittenza, alla giornata (quando non addirittura ad ore), "a chiamata", sembravano fenomeni confinati nell’agricoltura, nell’edilizia, in alcuni servizi ed in una fetta del mondo degli appalti. In comparti dove è di grande rilievo il ruolo dell’economia "sommersa". Adesso tutto ciò comincia a prender piede anche negli altri settori. Il padronato sta usando la crisi per rendere stabili, croniche e generalizzate a tutto l’universo lavorativo le forme più spinte di precarietà.

Il governo Berlusconi si rende conto della gravità della situazione e con la sua azione mira ad ottenere un duplice risultato. Evitare che intorno alla questione occupazionale si possa produrre un risveglio della lotta dei lavoratori e,contemporaneamente, favorire l’azione padronale volta alla più completa deregolamentazione del mercato del lavoro.

Esemplare a tal proposito è la gestione dei cosiddetti "ammortizzatori sociali". Prima è stata un po’ allargata la platea che può usufruirne, proprio per provare a prevenire la diffusione e, soprattutto, la generalizzazione della lotta contro i licenziamenti. Per evitare che intorno ad essa si potessero coagulare e rafforzare le mobilitazioni che nello scorso autunno stavano interessando alcuni settori lavorativi.

Adesso il governo si dice disponibile ad un loro ulteriore ampliamento, ma per contropartita chiede che nelle aziende sia lasciata mano completamente libera ai padroni e che,finalmente, la si faccia finita per davvero on ogni idea e rivendicazione di un’occupazione stabile e "garantita".  (a conferma di ciò, inizia a far "capolino" la richiesta di baratto tra l’estensione di alcuni "ammortizzatori" e lo Statuto dei diritti dei lavoratori).  Detto in altri termini: un’elemosina di stato, per farci abituare alla "normalità" del sotto-salario, della sotto-occupazione e della estrema  precarietà e ricattabilità in fabbrica e in tutti i luoghi di lavoro. Un simile "scambio" va rifiutato e respinto senza mezzi termini. Accettarlo avrebbe conseguenze gravissime sulla condizione di tutti i lavoratori.

Bisogna reagire con la lotta.

Basta confidare più o meno apertamente nell’opera del governo e delle stituzioni!Basta illudersi di poterla fare franca sperando che gli effetti della crisi vengano scaricati sempre sugli "altri", su chi è precario, sull’immigrato, sul lavoratore dell’altra azienda! Basta pensare che la disoccupazione sia un problema solo di chi ha già perso il posto, o, al più, di chi lo rischia apertamente! La disoccupazione è un fucile puntato contro la testa dell’intero mondo del lavoro. È una potentissima arma di ricatto con cui il padrone impone a chi è rimasto in fabbrica e in ufficio carichi e ritmi di lavoro asfissianti, bassi salari, condizioni lavorative sempre più insicure e malsane. È un’arma con cui si vuole schiacciare e cancellare la (pur ridotta ma non nulla) capacità di organizzazione, resistenza e lotta della classelavoratrice (occupata e disoccupata).

Fanno intravedere quale autentico inferno sia alle porte le decine di suicidi avutesi in poco tempo in France Telecom (un settore tra l’altro relativamente "privilegiato" del mondo salariato) dovuti alla pressione dei vertici aziendali a lavorare sempre più intensamente per sostenere la concorrenza.

Ma la disoccupazione non è un destino ineluttabile, non è qualcosa che cade dal cielo. La si può e la si deve combattere. Fino ad ora si sono avute alcune mobilitazioni locali contro i licenziamenti. In alcuni casi, esse sono riuscite, almeno temporaneamente, a limitare i danni. Bisogna andare oltre. Le lotte sono sempre preziose. Però, adesso più che mai, per essere efficaci devono oltrepassare i confini della singola azienda, tendere ad unificarsi, puntare a favorire la scesa in piazza della massa di lavoratori già disoccupati o precari.

Serve un indirizzo politico di classe.

A questa battaglia sono interessati anche i lavoratori occupati. Su questi ultimi e sui loro delegati più combattivi ricade la responsabilità di mettere a frutto la situazione di minore ricattabilità in cui si trovano rispetto a quella dei disoccupati e dei precari per farsi carico della promozione e della tessitura dell’organizzazione della lotta. I lavoratori e i delegati più attivi devono farlo prendendo direttamente in mano l’iniziativa. Cercando di costruire contatti tra gli operai delle diverse aziende in crisi. Tra chi rischia o ha già perso il posto di lavoro o chi non lo ha ancora mai avuto e chi, invece, al momento è (si fa per dire) "al sicuro". Tra lavoratori italiani ed immigrati. Bisogna volantinare e fare comizi nei quartieri e nei mercati per raggiungere i tanti proletari che, "sparsi" nelle metropoli, vivono condizioni di piena disoccupazione o di estrema precarietà. Bisogna costituire dei comitati di lotta comuni ai vari settori del mondo del lavoro salariato, qualunque sia la loro attuale collocazione sindacale, che assumano su di sé l’impegno dell’organizzazione e della direzione della mobilitazione. Questa è la difficile ma indispensabile battaglia da portare avanti. Bisogna darle gambe. Per farlo è necessario anche che, pur se tra piccoli nuclei di lavoratori, ci si doti di un indirizzo di lotta completamente alternativo alle logiche ed alle esigenze capitalistiche.

Una reale difesa delle nostre condizioni non può sposarsi con esse, con il rilancio della competitività e della produttività delle aziende. Anzi.

È proprio in nome di tutto ciò che da un lato si licenzia e che, dall’altro, si impongono carichi lavorativi bestiali a chi "salva" il posto. Puntare a tutelare la propria condizione attraverso il rilancio della "propria" azienda e della "propria" nazione può sembrare "realistico e concreto". In realtà significa andare in bocca al lupo e predisporre il terreno a nuove sconfitte ed arretramenti. Si pensi ad esempio alla riforma della contrattazione portata avanti da governo, Confindustria, Cisl e Uil. I vertici Cgil dapprima si oppongono ad essa. Poi, però, fanno rientrare dalla finestra (vedere il nuovo contratto degli alimentaristi) ciò che si è cacciato dalla porta. Perché? Perché la Cgil subordina le sorti dei lavoratori alle necessità della competitività delle imprese. Ciò, la si metta come si vuole, non può portare che a simili risultati.

Drastica riduzione d’orario a parità di salario

La lotta alla disoccupazione esige padroni l’odierno enorme sviluppo scientifico e tecnologico applicato alla produzione porta strutturalmente all’incremento parossistico dei ritmi e dello sfruttamento in fabbrica, eal contemporaneo aumento della disoccupazione.

Così l’informatica, la robotica e le tante conquiste della tecnica invece di tradursi in un beneficio, diventano per il lavoratore, occupato o disoccupato, fonte aggiuntiva di fatica, stress, ansia, malattie, infortuni, insicurezza e disperazione. Questi meravigliosi strumenti di produzione vanno strappati dalle grinfie dei capitalisti e utilizzati non per aggravare, ma per alleviare e cancellare le pene dell’umanità lavoratrice. Non è purtroppo musica per l’oggi, lo sappiamo. Ed è una musica che richiede anche la costituzione di un partito di classe coerentemente organizzato per questo obiettivo storico.

Ma sappiamo anche che, per acquisire efficacia ed avere prospettiva, la lotta contro la disoccupazione sin da oggi deve cominciare ad affrontare questo nodo. Sin da oggi è necessario che i lavoratori più lungimiranti dedichino le loro energie a superare il grave handicap dell’assenza di un partito politico del proletariato. È un passo in questa direzione iniziare a porre l’esigenza di far vivere nelle mobilitazioni il tema della riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e la rivendicazione, contro l’elemosina degli ammortizzatori di stato, del salario garantito.

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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