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Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

È il capitalismo a trasformare il terremoto in tragedia.

Non la facciamo facile. È vero che le conoscenze scientifiche attuali non permettono ancora di prevedere il giorno in cui in una località sismica si scatenerà un terremoto di sensibile intensità. Sono altrettanto vere, però, anche altre tre "cosette", da cui risulta che gli effetti distruttivi di un terremoto sulle infrastrutture e sulla società umana sono, oggi, tutt’altro che addebitabili alla "natura matrigna" o al fato cinico e baro.

Quali interessi dietro la geologia, l’architettura e l’urbanistica?

Primo. I centri dirigenti della ricerca scientifica italiana e mondiale non incoraggiano affatto le indagini sugli eventi precursori dei sismi; preferiscono indirizzare il 70% dei finanziamenti per la ricerca scientifica e tecnologica all’invenzione e alla costruzione di armi e di sistemi di comunicazione militare.

Secondo. Se le odierne capacità di previsione dell’epicentro, della portata e dell’orario di una scossa sismica sono limitate, non si può dire lo stesso per la previsione degli effetti di un terremoto sulle opere e sulla società umane. Le conoscenze umane e le tecnologie hanno, infatti, raggiunto un tale livello da garantire all’uomo degli efficaci strumenti di protezione di fronte ai sismi e ai principali eventi catastrofici della natura.

Basterebbe evitare di costruire le abitazioni sulle faglie sismiche o sulle colline pericolanti o sui greti dei fiumi o sulle pendici di un vulcano non spento. Basterebbe progettarle con i materiali, le dimensioni e le strutture adatte, senza inseguire la follia di sviluppare in altezza la cubatura per far aumentare le rendite dei proprietari dei terreni e i guadagni dei palazzinari. Basterebbe realizzare gli edifici in coerenza con tali progetti, senza risparmiare sui costi di produzione, senza usare sabbia di mare, cemento scadente. Basterebbe che la collettività controllasse il rispetto di simili criteri di salvaguardia della società umana e della natura, senza promettere o far intendere che si può costruire dappertutto tanto poi verrà il fatidico condono.

Nel capoluogo abruzzese, come a Messina sommersa dal fango, le cose sono andate un po’ diversamente, non  è vero? E come mai? La risposta la si trova nelle stesse inchieste ufficiali: le imprese, per incrementare i profitti, hanno risparmiato sui costi; gli  amministratori, per favorire le rendite catastali dei soli noti, hanno permesso lo sviluppo urbanistico dove quest’ultimo doveva essere vietato; chi avrebbe dovuto, in astratto, controllare, ha trovato conveniente accondiscendere agli uni e agli altri. In uno degli striscioni dispiegati per contestare l’ennesima comparsata di Berlusconi, un gruppo di manifestanti abruzzesi ha scritto: "Il terremoto non uccide, l’uomo sì". Già, l’uomo-capitalista, il sistema sociale che egli impersona, il governo che, in Italia, guida al momento la corsa alla ricerca della competitività, del guadagno costi quel che costi, compreso il risparmio sui materiali usati e sui tempi necessari alla costruzione di un’abitazione.

Per il profitto, il ciclo costruzione-distruzione-costruzione è più conveniente della saggia manutenzione.

Vi è un terzo motivo, ancor più strutturale, che porta il capitale, a meno che esso non trovi l’opposizione di un movimento organizzato dei lavoratori, a questo scempio urbanistico. Le abitazioni, le infrastrutture viarie, gli impianti industriali non sono che merci, esattamente come ogni altra produzione umana. Dopo la loro vendita queste merci perdono il loro valore di scambio anche se mantengono per lungo tempo un prezioso valore d’uso. Se, quindi, per la popolazione queste costruzioni  continuano ad avere una solida utilità, magari anche per un arco di tempo considerevole, per il capitale esse sono dei contenitori di lavoro morto, ossia di lavoro già consumato dal quale non è più possibile estrarre altro plusvalore.

Che se ne dovrebbe fare il sistema capitalistico, in perenne ricerca di profitto, di queste merci esaurite? La loro conservazione è una fatica costosa ed improduttiva, mentre una loro ricostruzione si rivelerebbe immediatamente come un nuovo formidabile ciclo di estrazione di plusvalore. Ecco perché al capitalista collettivo non interessa la prevenzione degli effetti degli eventi catastrofici! Ecco perché oggi si preferisce ricostruire l’Aquila sotto forma di centinaia di "moduli abitativi" decentrati piuttosto che restaurare e resuscitare il vecchio centro storico! Se non fosse per le profonde conseguenze  sociali e politiche che gli avvenimenti catastrofici comportano, la distruzione e la successiva ricostruzione ciclica delle merci sarebbero platealmente invocate ad ogni piè sospinto. La distruzione materiale e sociale che, sotto il regno del capitale, è provocata dai terremoti naturali (come anche da quei terremoti inventati interamente dall’uomo-capitalista che sono i bombardamenti a tappeto), genera per il capitale fantastiche opportunità di rimpiazzo delle merci, di razionalizzazione della produzione, di concentramento dei capitali, di annullamento della concorrenza e, last but not least, di assoggettamento e controllo della forza lavoro.

La grande cupola della Protezione Civile

Oltre a garantire un nuovo ciclo di valorizzazione del capitale, la ricostruzione permette, infatti, alla classe dirigente di porre nuove basi di razionalità e produttività del lavoro. Nuove basi per aumentare, in ultima analisi, il grado di sfruttamento della forza lavoro. Per fare questo è necessario imporre il proprio modello di ricostruzione alle popolazioni colpite, prevenendo e sopprimendo le loro resistenze e la loro autorganizzazione. Non a caso i terremoti sono sempre seguiti dalla militarizzazione del territorio  attraverso la proclamazione dello stato d’emergenza se non, addirittura, dello stato d’assedio (come avvenne a Messina e Reggio Calabria nel secolo scorso). In questo l’Abruzzo non ha fatto eccezione. Nei giorni precedenti  al G8 l’Aquila era presidiata da "più   di 70.000 uomini e donne in divisa, dall’esercito ai carabinieri, dalla polizia municipale e non, ai corpi speciali dei Gom, dalla guardia di finanza  (anche in assetto antisommossa) alla guardia forestale". Tutto questo  spiegamento di forze a fronte di una popolazione di 60.000 abitanti, di cui ben 30.000 sfollati sulla costa! A coordinare il tutto è stata posta la grande cupola della Protezione Civile.

Questo organismo si è rivelato sempre più come un potente strumento di centralizzazione del comando e di gestione neoliberistica delle più disparate evenienze: dalle visite pastorali del papa all’emergenza rifiuti a Napoli,        dai mondiali di ciclismo all’imbarco dei tir a Messina. Posta alle dirette dipendenze del presidente del consiglio, la Protezione Civile rappresenta oggi una concentrazione di poteri impressionante e, nell’accezione classica del termine, indubbiamente dittatoriale.

Può indire appalti a trattativa privata, scavalcare autorità, fregarsene di  organi di controllo quali la Corte dei Conti o la Corte Costituzionale, agire in deroga alle leggi locali e nazionali. Sotto questa formidabile cupola di coordinamento, e sotto il suo potente capo-dipartimento Guido Bertolaso,  trovano posto i Vigili del Fuoco, le Forze Armate, la polizia di stato, i carabinieri, la guardia di finanza, il corpo forestale dello stato, il Cnr,  l’Enea, la Croce Rossa, il Soccorso Alpino e Speleologico, gli Istituti di  Geofisica e di Vulcanologia... Oltre naturalmente a più di un milione e trecentomila volontari distribuiti in circa 2.500 organizzazioni. L’ascesa del ruolo e dei poteri della Protezione Civile, segnata in particolar modo dalla ristrutturazione berlusconiana del 2001, ha finito per giustificare il prevalere della logica emergenziale su quella di prevenzione. Così, mentre da un lato si declassa il Servizio Sismico Nazionale, non si stanzia praticamente nulla per la "previsione e prevenzione" delle calamità.

Mentre si depotenziano i Vigili del Fuoco e, anzi, contro questi stessi si utilizzano i volontari in funzione di squadre spezza sciopero, allo stesso tempo aumentano a dismisura gli appalti, si diffonde il noleggio delle attrezzature, si moltiplicano le consulenze e le assunzioni "straordinarie" dettate da questa o quella ordinanza emergenziale. Come ha sottolineato argutamente il giornalista Manuele Bonaccorsi: "Meglio intervenire dopo, quando il danno è già fatto. E comincian  gli appalti." Un territorio militarizzato. Congiuntamente alla militarizzazione del territorio, la gestione capitalistica del post-terremoto necessita anche di un vasto processo di disciplinamento  della popolazione. L’organizzazione degli accampamenti per gli sfollati diviene così uno strumento centrale di controllo sociale. I campi, rigorosamente non gestiti dalla stessa popolazione che vi risiede, sono chiusi, recintati e presidiati. Nella maggioranza dei casi al loro interno vige il coprifuoco notturno, chi vi risiede deve dimostrare la propria identità e il proprio status tramite badge o braccialetti, mentre rigidissime sono le limitazioni per accedervi. Particolarmente scrupolose sono poi le misure per prevenire l’autorganizzazione, la politicizzazione e la comunicazione con l’esterno: vietato il volantinaggio e le assemblee, negato il collegamento ad internet, limitata la fruizione della carta stampata, mentre non è praticamente consentito l’accesso dei giornalisti. Ai terremotati vengono perfino negate le bevande contenenti  caffeina od alcool mentre pare che circolino senza grossi problemi diverse droghe. In primis, naturalmente, quella televisiva.

Lo scopo di tutto questo è naturalmente l’isolamento della popolazione aquilana, il suo assoggettamento e la prevenzione di qualsiasi forma di protesta organizzata. Un governo che ha fatto del terremoto abruzzese un vero e proprio spot elettorale non potrebbe, d’altronde, assolutamente permettere il ripetersi di quello che accadde dopo i terremoti del Belice (1968) o dell’Irpinia (1980), quando i comitati sorti spontaneamente tra i terremotati pretesero di dire la propria non solo sul modello di ricostruzione ma anche sul controllo dei fondi per la ricostruzione, Quando alla richiesta di requisizione delle case sfitte si fusero le rivendicazioni salariali ed occupazionali.

Quando il rifiuto di pagare tasse e canoni sfociò nella lotta per l’estensione dei diritti sociali. Ed è invece proprio a questo che dovrebbero puntare con maggiore forza e lucidità i comitati, che, malgrado tutto, sono sorti in questi mesi in Abruzzo e attorno alla questione  abruzzese. La lotta per la partecipazione ed il controllo della ricostruzione non può che fondersi in un fronte più vasto di rivendicazioni contro il governo ed il padronato. Occorre inoltre smascherare i richiami strumentali alla "solidarietà nazionale" e denunciarli per quello che sono realmente: trappole per ottenere la pace sociale necessaria allo scatenamen to di nuovi e più profondi attacchi contro tutti i lavoratori. La richiesta della Confindustria d’istituire una zona franca nella provincia dell’Aquila caratterizzata da "forti sconti fiscali e contributivi" protratti per un arco di "diversi anni" è in questo senso emblematica.

Dal Che Fare n°71   novembre - dicembre 2009

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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