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Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

Per conquistare la "vera sicurezza"

Nello scorso numero del "che fare" abbiamo evidenziato come le politiche governative degli ultimi decenni in tema di immigrazione abbiano tra i loro fini (in barba alla propaganda ufficiale) quello di produrre clandestinità. Il cosiddetto "clandestino", infatti, è un proletario estremamente ricattabile, senza diritti e, perciò, super-sfruttabile. Un’autentica manna per il sistema delle imprese.

Su questo cruciale tema rimandiamo quindi a quanto già scritto e ci soffermiamo, invece, su un’altra questione di fondamentale importanza di cui tanto si straparla e di cui ancor più si è parlato durante e dopo i "fatti" rosarnesi: quello della sicurezza.

Ha fatto il giro delle televisioni l’intervista alla giovane signora della cittadina calabrese che si è trovata per un attimo coinvolta negli scontri. Questa donna (ci sia consentito di stendere un velo pietoso sui giudizi espressi sugli immigrati), visibilmente impaurita, ha ripetutamente dichiarato di volere soprattutto una cosa: sicurezza per lei e per i propri figli.

Si tratta di una richiesta in sé legittima che rispecchia un’aspirazione molto diffusa tra le "persone comuni" e che va presa sul serio. A questa (non nuova) richiesta il governo e le istituzioni hanno offerto ed offrono le loro risposte. Per restare a Rosarno: prima è stata mandata la polizia contro gli immigrati, nel contempo si è di fatto incoraggiata la "caccia al nero" da parte di una consistente fetta della popolazione locale, e poi, dulcis in fundo, si è attuata la deportazione di circa duemila lavoratori africani dalla Piana.

Tutto a posto quindi? La nostra signora potrà finalmente guardare ad un futuro più sereno? Ne dubitiamo.

Innanzitutto perché il futuro dei suoi figli è diventato ancora più incerto e precario visto che, proprio nei giorni antecedenti la rivolta, a Gioia, paese ad un tiro di schioppo da Rosarno, quattrocento lavoratori del porto (una delle poche strutture produttive della zona) sono stati messi in cassintegrazione.

Poi perché (per restare sempre in zona) la Calabria sta letteralmente franando pezzo dopo pezzo. Colpa non della natura "cattiva", né tanto meno dei braccianti africani. Ma di decenni e decenni di saccheggio ambientale perpetrato da quella fitta rete di interessi che lega tra loro grandi industriali "del nord", palazzinari locali, imprenditoria "mafiosa", banche, governi nazionali e amministrazioni del posto, notabili vari e ditte d’appalto. Proprio tutta quella "brava" gente, insomma, a cui si è soliti rivolgersi per chiedere "sicurezza".

Infine perché i lavoratori immigrati, si può star certi, a raccogliere le arance della Piana torneranno. E di fronte a condizioni simili o peggiori a quelle di prima, nuove esplosioni di sanissima rabbia saranno inevitabili.

La verità è che nessuna sicurezza per sé e per i propri cari sarà mai possibile fino a quando altri lavoratori saranno costretti a vivere senza diritti e come le bestie. Né in Calabria, né altrove. L’insicurezza infatti è come una pianta rampicante: o la si taglia alla radice, oppure dal "basso" si diffonde inevitabilmente in tutto il mondo del lavoro.

Gli immigrati (siano essi "regolari" o "irregolari") dall’Italia e dagli altri paesi occidentali non vogliono e non possono andarsene. Sappiamo di poter apparire monotoni nel tornare su questo concetto, ma si tratta di una questione fondamentale. Per i proletari italiani, infatti, pensare di poter risolvere i propri problemi cacciando gli immigrati non solo è sbagliato, ma piaccia o meno, è assolutamente impossibile.

La nostra signora e, con lei, una buona fetta di lavoratori italiani, devono iniziare a farsi una ragione di tutto ciò e trarne delle conseguenze. Scagliarsi contro gli immigrati e farsi trascinare in una guerra tra proletari è e sarebbe vantaggioso solo per i capitalisti e per il governo. Solo per tutti coloro che vivono e si arricchiscono sul sudore e sul sangue dei lavoratori immigrati e di quelli italiani, e che sono i veri responsabili della nostra insicurezza.

Una vera sicurezza dalla povertà, dai licenziamenti, dalla disoccupazione, dalla precarietà, dai disastri ambientali e dalla paura di "non farcela più" a garantire un futuro dignitoso per sé e per i propri cari la si potrà conquistare solo rifiutando di farsi trascinare in qualsiasi guerra tra sfruttati e iniziando sin da subito a lavorare con determinazione alla costruzione di ambiti di lotta, di discussione e di organizzazione comune tra lavoratori italiani e immigrati contro le complessive politiche governative e padronali.

Nella consapevolezza che battersi per i pieni diritti di tutti ("regolari" e "clandestini") i proletari immigrati non è "buonismo fasullo", ma un atto necessario per difendere le condizioni e la sicurezza di tutti i lavoratori.

                                                                                         

Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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