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Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

Una breve riflessione sul "1° marzo"

La giornata del "primo marzo" (quella che dalla stampa è stata con "insolita" attenzione propagandata come "la giornata dello sciopero degli immigrati") può e deve essere analizzata a partire da due aspetti che si intrecciano e si condizionano reciprocamente, ma che, per comodità espositiva, terremo "separati".

Partiamo dalla inusuale promozione giornalistica di cui tale giornata ha goduto. Non solo testate come la Repubblica e l’Espresso ma finanche il quotidiano della Confindustria, il Sole 24 ore, e la sua emittente radiofonica hanno dato grande risalto all’iniziativa ed alla sua preparazione. Come ha notato lo stesso Gad Lerner su la Repubblica del 2 marzo, "attestati di rispetto e comprensione sono giunti" alla giornata di protesta dalla Camera Nazionale dell’Artigianato e dalla Coldiretti. Ammiccanti strizzatine d’occhio sono pervenute persino da ambienti dell’informazione vicini al governo. Strano davvero, visto che da anni intorno ad ogni lotta dei lavoratori immigrati si è sempre cinto un cordone sanitario finalizzato a non far conoscere le cause profonde delle rivendicazione e delle mobilitazioni degli immigrati ai lavoratori italiani.

Cosa è successo? Forse che il padronato o, quanto meno una sua ala, è diventato fautore dei diritti dei lavoratori immigrati e nemico giurato del razzismo? La pompatura mediatica del "primo marzo" ha altre (e meno nobili) motivazioni.

In Italia risiedono circa cinque milioni di immigrati. Con la loro attività nell’industria, nell’edilizia, nell’agricoltura e nei servizi, i lavoratori immigrati contribuiscono al 10% del prodotto interno lordo e a una fetta consistente del "lavoro di cura" di cui necessitano le famiglie (anche lavoratrici) italiane. Più di 800 mila immigrati sono, inoltre, iscritti ai sindacati confederali.

Di fronte a questa realtà, una fetta del mondo imprenditoriale e politico si rende conto che i "metodi leghisti", da soli, rischiano, alla lunga, di non permettere di "governare il fenomeno". Fini, Casini e, a "sinistra", Bersani, ciascuno a modo proprio, raccolgono e lanciano questo allarme. Questa esigenza è apparsa al settore più lungimirante del padronato ancora più urgente dopo i fatti di Rosarno e di Via Padova a Milano.

Intendiamoci. Gli immigrati, per questi signori, sono e devono restare lavoratori di serie B. Questo resta un imperativo vitale per tutta l’economia capitalistica italiana ed occidentale. Il problema che una fetta dei poteri forti capitalistici e dei loro rappresentati istituzionali si sta ponendo è come costruire una politica  che, senza rinunziare minimamente al "pugno di ferro" contro l’immigrato, faccia balenare, almeno per un settore dei lavoratori immigrati, la prospettiva di poter uscire, anche a tappe, dal trattamento infernale subito oggi. Nel n. 71 del "che fare", a proposito della legge sulla cittadinanza sponsorizzata da Fini, scrivevamo: "Per continuare a torchiare a pieno ritmo i loro [degli immigrati] muscoli, bisogna, dice Fini, provare a conquistare un pizzico del loro cuore. Perciò è necessario che a loro (soprattutto ai giovani di "seconda generazione") si offra una qualche (per lo più virtuale) prospettiva che non li costringa a sentirsi sempre e comunque come un corpo estraneo rispetto alla cosiddetta comunità nazionale". Ci sembra ci sia poco da aggiungere. La "benevola" attenzione di parte della grande informazione ha puntato a gonfiare e a utilizzare il "primo marzo" per andare in questa  direzione. Una direzione che di fatto chiama a fidarsi delle istituzioni e a "lasciar perdere" la via della lotta e dell’organizzazione di classe.

Veniamo all’altro aspetto della questione: l’attività svolta da alcuni dei nuclei più attivi dei lavoratori immigrati, i quali, vista anche la risonanza mediatica ottenuta dall’"evento", si sono adoperati per fare del "primo marzo" un momento di reale mobilitazione. Impresa per nulla semplice o scontata. Una cosa infatti sono le piazze virtuali di facebook, un’altra (ben altra!) cosa sono le piazze reali che non possono certo riempirsi a colpi di comodi "click" effettuati con il mouse. Fatto sta che della giornata se ne parlava e si è provato a utilizzarla. In varie città si è agito in tal senso, riscontrando non poche difficoltà nel coinvolgimento reale di settori di lavoratori immigrati. Mascherare queste difficoltà con cronache incentrate sulla riuscita dell’iniziativa non aiuta l’autoorganizzazione della lotta. Nei fatti, si è evidenziato ciò che doveva essere chiaro sin da subito: nessun cerino (per altro, a dir poco, bagnato) gettato da internet poteva "infiammare la prateria". Vero è che sta crescendo il bisogno dei lavoratori immigrati di reagire allo schiacciamento a cui sono sottoposti, come evidenziano la rivolta di Rosarno, le manifestazioni a Milano dopo i fatti di via Padova, le fermate dell’attività produttiva che ci sono state il 1° marzo in alcune circoscritte imprese dell’Italia settentrionale, le iniziative di lotta di piccoli gruppi di proletari immigrati contro condizioni di lavoro intollerabili in alcune imprese dei servizi e dei trasporti.

Ma questa esigenza si scontra con vincoli altrettanto strutturali, che stratificano il mondo dei lavoratori immigrati, lo dividono, lo vincolano ai ricatti della concorrenza sul mercato del lavoro, lo sollecitano, nel suo settore meno instabile, verso la moderazione. Partendo da questo assunto, la nostra organizzazione, con le sue purtroppo modeste forze, ha lavorato, senza velleitarismi, per contribuire a dare un senso di reale riflessione collettiva e mobilitazione alla giornata, inserendola nel percorso di auto-organizzazione che cerchiamo di sostenere da decenni, al pari di quanto abbiamo fatto con la manifestazione nazionale contro il razzismo del 17 ottobre 2009 e con lo sciopero della Cgil del 12 marzo 2010.

Nel n. 70 di questo giornale (in tempi "non sospetti") scrivevamo: "Una simile iniziativa di sciopero [degli immigrati] non sarebbe affatto un elemento di divisione e separazione dai lavoratori italiani, ma, al contrario, svolgerebbe anche una funzione salutare nello scuotere questi ultimi dalla loro indifferenza o, peggio, ostilità verso i proletari immigrati". Il fatto è che non basta che "un’idea sia giusta e bella" perché essa si traduca automaticamente in realtà concreta. Quasi sempre le "belle idee" hanno bisogno, per divenire "atto pratico", di un lavoro costante, metodico ed "oscuro". È quello che, anche in questa "occasione", ci siamo, nel nostro "piccolo", sforzati di portare avanti. Attraverso tutti gli strumenti utili (assemblee, riunioni, dibattiti sindacali, ecc.) abbiamo cercato di favorire il "contatto" tra lavoratori  italiani ed immigrati, invitato a riflettere su quali siano le cause profonde del razzismo e come lo si possa combattere, stimolato ed appoggiato il difficile e tortuoso percorso di organizzazione e lotta dei proletari immigrati. È ad un simile, e per nulla "virtuale", impegno che, a nostro avviso, sono chiamati tutti coloro che vogliono davvero battersi contro quel morbo razzista che, impulsato dai vertici istituzionali e da tutti i poteri capitalistici, rischia di avvelenare drammaticamente ed in profondità il mondo del lavoro.

Di sicuro, i più attivi proletari immigrati che hanno voluto utilizzare questa scadenza per portare in piazza le loro rivendicazioni, non dovranno "solo" scontrarsi con Berlusconi e Bossi, ma dovranno fare i conti anche con quella parte della borghesia italiana che ha mostrato un (per così dire) benevolo interessamento verso il "primo marzo".

                                                                           

Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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