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Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

Rosarno: una rivolta contro lo sfruttamento mondializzato e

il razzismo di stato

Sono passati alcuni mesi dalla sacrosanta rivolta dei braccianti africani di Rosarno. I grandi mezzi di comunicazione hanno cessato da tempo di dedicare spazio alla vicenda.

Nelle righe che seguono noi torniamo su questi "fatti" in quanto forniscono spunti di riflessione generale che riguardano l’insieme del mondo del lavoro. Tanto nella sua componente italiana, quanto in quella immigrata.

Un episodio nient’affatto locale

Dalle dieci alle quattordici ore al giorno a spezzarsi la schiena nei campi per venti o venticinque euro. Il "caporale" da pagare. L’assenza pressoché totale di servizi igienici e di assistenza medica. Capannoni dismessi e fatiscenti come abitazioni in cui si è costretti a "vivere" e a dormire ammassati peggio degli animali. Soprusi su soprusi subiti. Diritti zero o giù di lì. È questo il vero concime "magico" che rende tanto  succose le arance e tanto polposi i pomodori che quotidianamente inondano i supermercati e le nostre tavole.

Che la ribellione degli immigrati impegnati nella raccolta degli agrumi della Piana di Gioia Tauro sia stata determinata da tali condizioni di vita e di lavoro letteralmente bestiali lo hanno dovuto ammettere, magari a denti stretti, un po’ tutti.

Troppo grande era l’evidenza delle cose per essere taciuta. Anzi, nei giorni immediatamente successivi alla rivolta, la stampa e le televisioni hanno quasi fatto a gara nel denunciare questa terribile realtà. Ma hanno fatto ancor più a gara nel mistificare e nascondere l’origine delle cause di fondo di tutto ciò. A sentire questi scienziati dell’informazione (meglio sarebbe dire della falsificazione), la situazione venuta a galla a Rosarno sarebbe circoscritta ad alcune aree del Meridione e dovuta sostanzialmente alla forte presenza della malavita organizzata in questi territori e ai suoi metodi schiavistici e terroristici.

Una simile analisi non solo è riduttiva, è falsa e fuorviante.

Primo, perché le condizioni "rosarnesi" non sono affatto una "particolarità" delle zone "ad alta penetrazione mafiosa". L’Istat calcola che nel 2006 il "valore aggiunto sommerso" (in buona parte, cioè, derivante da lavoro "nero") nel settore agricolo è stato pari al 31,4% del valore aggiunto totale della branca. La Flai-Cgil stima siano circa 50mila gli immigrati impiegati in agricoltura che, sparsi su tutto il territorio nazionale, vivono in condizioni simili a quelle di Rosarno.

Secondo, perché il super-sfruttamento in campo agricolo è diffusissimo a scala planetaria e costituisce la base dei giganteschi profitti dell’agro-business internazionale. Nei campi della modernissima e "avanzatissima" California vengono impiegati finanche bambini in età prescolare e, in base ad alcuni calcoli, si stima che circa il 45% della manodopera impiegata nell’agricoltura statunitense sia costituita da immigrati "irregolari" (il Sole 24 Ore, 14 novembre 2009).

Terzo, perché è verissimo che in tante parti del meridione la criminalità organizzata ha il controllo della produzione e della raccolta dei prodotti agricoli. Ma è altrettanto vero che dietro e ben sopra le mafie vi sono le grandi aziende, le multinazionali agroalimentari e la grande finanza con esse intrecciata. Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono funzionali ai profitti di questi colossi del mercato italiano e mondiale per conto dei quali, nei fatti, operano da sub-appaltatori.

Questa è una delle fondamentali realtà che si vuole nascondere a tutti i costi: le situazioni di super-sfruttamento in agricoltura non sono il frutto in via di superamento di particolarità locali o della presunta "arretratezza" organizzativa e produttiva del settore.  È vero il contrario. Quello agroalimentare ed agro-chimico è uno tra i comparti più globalizzati e più "innovativi". È dominato da un pugno di grandissime imprese che attraverso mille fili visibili ed invisibili guidano e determinano tanto la produzione e la distribuzione mondiale, quanto le condizioni di vita e di lavoro, spesso semi-schiavistiche, di centinaia di milioni di lavoratori agricoli nei cinque continenti (siano essi braccianti o piccoli e piccolissimi contadini formalmente "indipendenti").

È un settore per nulla "residuale", ma anzi centrale per tutta l’accumulazione capitalistica. Ciò non solo in virtù degli enormi profitti che miete, ma anche perché il fortissimo schiacciamento del costo del lavoro che in esso vige a scala mondiale tende a fungere da leva per un analogo andamento in tutti gli altri comparti.

A Rosarno, dunque, i fieri proletari immigrati africani non si sono scontrati contro un "antiquato e marginale" sistema mafioso-imprenditoriale, ma contro un’articolazione della modernità capitalistica mondializzata.

Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

                               

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