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Dal Che fare n.73 dicembre 2010  - gennaio 2011

Berlusconi è vicino al tramonto. Cosa attende i lavoratori?

Fini, Casini, Montezemolo  mirano a rilanciare l'Azienda-Italia.

Il loro indirizzo salverà l'Italia?

Non è detto. Di sicuro affosserà il lavoro salariato.

Il quarto governo Berlusconi è vicino al tramonto. La sua crisi non apre, però orizzonti luminosi. Certo, esce, finalmente, di scena un governo anti-proletario. Un governo che, anche nella seconda metà del 2010, per quanto indebolito dall'isolamento in cui si è venuto a trovare nel rapporto con i più importanti governi alleati (quello tedesco e quello statunitense), dai contrasti con una parte dei capitalisti italiani e dalla delusione suscitata nei ceti salariati che lo hanno votato, ha continuato a mettere a segno gravi colpi contro i lavoratori. Un governo che se fosse rimasto in sella, avrebbe tentato di sganciare altre bombe micidiali: la rivoluzione liberale, lo statuto dei lavori in sostituzione dello statuto dei diritti dei lavoratori, l'attuazione del federalismo. Il guaio è che non è stata la mobilitazione dei lavoratori a mettere fine a questa fetida maggioranza di governo. Non vogliamo togliere niente alle lotte che, sin dal 1994, i lavoratori, alcuni settori giovanili  e le popolazioni di alcuni territori (Val di Susa, Scanzano Ionico, Terzigno, ecc.) hanno condotto contro le decisioni prese dai governi Berlusconi. Non possiamo, tuttavia, nasconderci che a licenziare Berlusconi è un settore dei capitalisti e dei vertici istituzionali che lo avevano portato nella stanza dei bottoni. Da moltissimi lavoratori, di destra e di sinistra o senza partito, questo aspetto non è, di per sé, percepito come una minaccia. Anzi, essi guardano con speranza alla formazione di un partito "finiano". All'appoggio che esso ha nel padronato cosidetto "illuminato". Ad un possibile governo di salvezza nazionale Fini-Casini-Montezemolo-Bersani. All'obiettivo dichiarato da questa coalizione politica di rilanciare l'Italia ella competizione internazionale all'interno di una più stretta alleanza con gli altri paesi europei secondo il modello tedesco.

Il programma si presenta allettante. Ma  al di là delle parole, cosa effettivamente riserverà ai lavoratori la realizzazione di esso? Cosa discenderà dal nuovo "patto sociale" proposto dal neo-corporativismo di Fini?  È il tema al centro di questo numero del nostro giornale. Per condurre questa discussione sarà necessario aprire gli occhi anche su quello che accade al di fuori dei confini italiani. Mai come in questi mesi, infatti, le sorti del sistema-Italia e dei lavoratori d’Italia sono legate a doppio filo con quello che accade nel resto del mondo e ai lavoratori degli altri paesi. Il quadro che ne verrà fuori è a tinte fosche. A meno che...

Al centro del programma di Fini vi è, dunque, il rilancio dell’Azienda-Italia. Dal 1994 al 2010, i governi guidati da Berlusconi, coadiuvati dall’azione (più blanda, ma comunque convergente) di quelli di centro-sinistra,sono riusciti a realizzare uno dei presupposti di questo rilancio: la drastica riduzione del sistema di protezione sociale universale conquistato dai lavoratori nel XX secolo (le pensioni e la sanità innanzitutto), la precarizzazione dei rapporti di lavoro, la frantumazione della forza di resistenza collettiva posseduta dai lavoratori in Italia, il consolidamento dello spirito social-darwinista tra gli stessi lavoratori. Il berlusconismo si è, però, rivelato incapace di realizzare un altro presupposto del rilancio dell’Azienda-Italia: la canalizzazione delle risorse finanziarie verso la crescita della dimensione delle imprese italiane e l’ammodernamento produttivo di esse.

Negli ultimi due anni questa insufficienza del governo Berlusconi è diventata insostenibile per i capitalisti più proiettati sul mercato internazionale, preoccupati per lo spappolamento del tessuto produttivo nazionale, per l’azione compiuta dal governo in tal senso sotto il peso di un ampio strato sociale accumulatore straccione che trova la sua rappresentaza nel Pdl e nella Lega, per il discredito morale in cui stanno cadendo le istituzioni statali a causa dei costumi schifosi in auge nelle cricche berlusconiane.

Il "nuovo" patto sociale offerto al lavoro salariato

Come ha detto Fini alla conclusione della festa del Secolo d’Italia a Mirabello (settembre 2010) e poi all’assemblea di presentazione del "Manifesto per l’Italia" (novembre 2010), l’azione svolta dai governi degli ultimi 15 anni va completata su tre versanti. 1) Vanno rastrellati i soldi per modernizzare le infrastrutture, per rilanciare i centri di ricerca scientifica e tecnologica senza i quali un paese avanzato non può essere protagonista nell’arena mondiale, per pilotare l’aggregazione delle medie imprese che caratterizzano il sistema produttivo italiano in poli capaci di pesare sul mercato mondiale. 2). Va aumentata l’intensità, la lunghezza e la produttività della prestazione lavorativa. 3) Questa duplice operazione può essere portata avanti solo con la collaborazione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, in modo simile a quanto sta avvenendo in Germania e negli Usa. A tal fine, dice Fini, va lanciato un nuovo patto sociale, esteso (ne parliamo in questo numero di giornale in un altro articolo), anche ai lavoratori immigrati. Il nuovo patto sociale dovrebbe essere fondato su due pilastri. Primo. I fondi per gli investimenti devono essere reperiti dal recupero dell’evasione fiscale, con una stretta sui commercianti, sui professionisti, sui palazzinari, sugli industrialotti che in questi anni hanno celebrato la loro saga (con la piena partecipazione di Fini, aggiungiamo noi, al governo Berlusconi!). Il governatore della Banca d’Italia è stato su questo punto più esplicito: "Gli evasori fiscali sono i primi responsabili della macelleria sociale [che i governi hanno compiuto con le finanziarie]: dal 2005 al 2009 hanno evaso l’Iva per 30 miliardi di euro l’anno (e questa quota comprende solo il 30% dell’evasione complessiva!), ciò porta alla riduzione del gettito fiscale e all’aumento delle tasse su chi le paga alla fonte interamente" (la Repubblica, 31 maggio 2010). Secondo pilastro: il salario dei lavoratori deve essere agganciato al miglioramento dell’efficienza produttiva e ai profitti, anche se in Italia, per la prevalenza delle piccole e medie aziende, non sembra all’ordine del giorno l’ingresso dei sindacati nei consigli di sorveglianza o nei pacchetti azionari delle imprese, come accade in Germania e negli Usa.

Quali ricadute sui lavoratori?

Al momento in cui scriviamo (metà novembre) non è facile prevedere i dettagli dello svolgimento della crisi del blocco di potere berlusconiano. Non è facile stabilire se la coalizione tra Fini-Casini-Montezemolo-Scalfari riuscirà a prendere in mano le redini del governo. Anche se questa frazione della borghesia italiana, attraverso i viaggi di Fini a Washington, a Londra e, prossimamente, a Berlino, ha cercato di trovare una sponda nei centri dominanti del capitale mondiale, continua a scontare una notevole debolezza. Lo si è visto anche con la defenestrazione di uno dei suoi maggiori rappresentanti, Profumo, dal vertice dell’Unicredit ad opera delle casse di risparmio e dei poteri locali leghisti: nello scontro tra il finanziamento a pioggia delle  imprese del Nord, perorato dalle casse di risparmio, e il finanziamento selettivo per favorire la razionalizzazione del tessuto produttivo italiano avviato da Profumo secondo un orizzonte grande borghese ha, per ora, avuto la meglio l’orientamento micragnoso delle piccole e medie aziende settentrionali.

La debolezza della frazione più  lungimirante della classe dominante italiana ha radici profonde. È legata al percorso di formazione dello stato nazionale italiano, incapace di fare i conti fino in fondo con i condizionamenti delle potenze europee già consolidate e del Papato. È legata alla prevalenza, cresciuta negli ultimi anni, nell’economia capitalistica italiana di un tessuto di micro-imprese incapaci di centralizzarsi e di organizzare lo sfruttamento del proletariato secondo i criteri più competitivi messi in campo nelle altre potenze capitalistiche. È legata allo spostamento del baricentro dell’accumulazione capitalistica mondiale verso il Pacifico e all’erosione che ciò comporta della rendita geotrategica assegnata all’Italia dall’ordine mondiale capitalistico stabilito dopo la seconda guerra mondiale.

Il fronte politico che collega Fini-Casini-Montezemolo-Draghi-Scalfari sconta, inoltre, l’assenza di un sostegno sociale di massa necessario per fare i conti con la pletora di ceti medi e di parassiti che sguazzano nel blocco di potere berlusconiano-bossiano. Le manovre nei palazzi del potere, con cui finora il fronte neo-corporativo sta cercando di scalzare Berlusconi, non portano da nessuna parte. Il partito "scalfariano" potrebbe trovare la sua massa d’urto solo tra i lavoratori. Non è che manchino esperimenti per conquistare l’appoggio dei lavoratori al programma di Montezemolo e di Fini. E non è che manchi l’attrazione esercitata dalla prospettiva di Fini, vista al limite come male minore, su tanti lavoratori italiani e immigrati. Ma da qui ad una scesa in campo dei lavoratori a loro sostegno ce ne corre. Pesa la paura dei vertici istituzionali ed economici del grande capitale italiano di vedere in piazza i lavoratori, per il condizionamento che simile mobilitazione, anche se imbrigliata da un programma politico borghese, non potrebbe non avere su chi comunque sa che il ruolo da riservare al proletariato è quello della bestia da soma. I lavoratori, da parte loro, non sembrano intenzionati a sostenere il progetto di Fini con la mobilitazione, anche se la loro condizione si sta aggravando, con la prosecuzione della cassintegrazione per un milione di proletari e lo scivolamento nella disoccupazione e nel lavoro nero per un altro milione di assunti con contratti a termine. Non lo fanno proprio per questo aggravamento e per il parallelo ricatto esercitato dalla competizione internazionale. Questa situazione, al momento, spinge nel senso della  paralisi. E nella paralisi, in un circolo vizioso che si auto-alimenta, si stanno rafforzando spinte centrifughe e divisioni. Estremamente preoccupante è quella tra i lavoratori del nord e i lavoratori del sud, attratti a vedere nelle consorterie di potere locali di stampo nordista o anti-nordista la rappresentanza politica per la difesa dei propri diritti.

Due linee politiche diverse, ma entrambe anti-proletarie

Una cosa è sicura: andrà avanti lo sfarinamento berlusconiano oppure riuscirà ad imporsi un esecutivo di stampo finiano, è vitale che, sin da ora, i lavoratori più combattivi e lungimiranti denuncino le amare sorprese riservate al proletariato dall’una e dall’altra evoluzione dello scontro politico in Italia. Anche da quella portata avanti da Fini-Montezemolo. Anch’essa è nettamente anti-proletaria. Non solo per i sacrifici che, senza nasconderlo, contempla per i la possibilità all’Anas di lavoratori, soprattutto con l’aumento della torchiatura sui posti di lavoro (Marchionne insegna). Ma anche per l’effetto politico immediato e lo sbocco prospettico che essa prepara. L’effetto politico consiste nell’irregimentazione dei lavoratori a sostegno della blindatura delle istituzioni statali richiesto dal rilancio del sistema-Italia, inclusa l’eventuale "sospensione" della stessa possibilità di difendere i propri interessi con lo strumento dello sciopero, delle manifestazioni di piazza, della lotta. Stiamo accorti: una delle clausole previste dal contratto siglato dal sindacato statunitense e Marchionne alla Chrysler prevede la sospensione degli scioperi fino al 2015! Lo sbocco prospettico preparato dall’indirizzo di Fini è, al momento, nebuloso, ma diventa facilmente prevedibile, al di là dei tempi, se si alza lo sguardo allo scenario mondiale (ne parliamo in altre pagine del giornale) si colloca lo scontro di classe in Italia, al legame tra la "Fabbrica Italia" di Marchionne e la competizione sul mercato mondiale dell’auto. Se ci si interroga sul senso della stretta operata nella primavera-estate del 2010 dalle istituzioni europee e sulle crescenti tensioni monetarie tra gli Usa, l’Ue e la Cina. Come se ne può uscire?

Nessuna alternativa dai partiti della "sinistra"

Il Pd è alla coda del partito di Fini-Montezemolo-Scalfari. La mancata adesione alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre la dice lunga sul ruolo che il Pd assegna alle istanze del mondo del lavoro. Non è un caso che Bersani abbia accettato di favorire l’approvazione di una manovra di stabilità zeppa di altri affondi (v. scheda) contro il lavoro salariato. È vero che il Pd ha convocato per il 12 dicembre 2010 una manifestazione nazionale a Roma: affinché, però, essa non sia il trampolino per indirizzare il malessere dei lavoratori dietro la bandiera finiana e diventi, al contrario, un primo momento di maturazione tra i lavoratori di un’organizzata mobilitazione in difesa degli interessi proletari, occorre che tra i manifestanti si faccia sentire una voce di denuncia netta del senso anti-proletario del progetto di Fini e dell’orientamento del Pd.

Lo spartito non cambia se passiamo a considerare "Sinistra Ecologia e Libertà" e "Rifondazione comunista", i quali, per bocca di Vendola e di Ferrero, non escludono la convergenza, pur se provvisoria e parziale, con il "centro" pur di mettere fine all’era Berlusconi. Certo, i lavoratori hanno interesse a mettere la parola fine a quest’era, ma attraverso una lotta che punti a mettere in discussione i pilastri, non solo le esasperazioni, del berlusconismo, gli interessi sociali e le forze politiche che lo hanno portato avanti per vent’anni. Una lotta che denunci quanto questi pilastri siano alla base della politica del cosiddetto "terzo polo" e del "governo di responsabilità nazionale" che esso cerca di varare legando insieme Fini e il Pd.

Ci rendiamo conto anche noi che è difficile favorire lo sviluppo di questa lotta, che le difficoltà non stanno solo nell’orientamento delle direzioni del Pd e dei sindacati, ma nelle illusioni e nei ricatti in cui sono imprigionati gli stessi lavoratori: ma anziché contrastare queste illusioni e queste difficoltà, l’azione e l’indirizzo politico di "Sinistra Ecologia e Libertà" (Sel) e di "Rifondazione comunista" le stanno assecondando.

Questa lotta sollecita e, allo stesso tempo, richiede un’azione di partito, un’organizzazione di partito, anche solo, all’oggi, di ristretti collettivi organizzati. Vendola, invece, raccoglie applausi a scena aperta quando, come è accaduto ad ottobre al congresso del Sel, attacca la forma partito e quando, con ciò, consapevole o meno poco importa, si sintonizza con il ritornello che i poteri forti suonano da decenni per colpire il senso di organizzazione collettiva dei lavoratori. Il "rinnovamento" di Vendola non fa che portare a termine l’opera disfattista compiuta per anni e anni da Bertinotti, il quale, non a caso, a conclusione del congresso di ottobre ha abbracciato il governatore della Puglia riconoscendolo come degno figliolo.

Non rappresenta un reagente all’irregimentazione neo-corporativa di Fini neanche l’indirizzo politico e l’azione svolta dall’Italia dei Valori di Di Pietro, che pure raccoglie la simpatia e, talvolta, la collaborazione di giovani proletari, sinceramente preoccupati di opporsi alla passività e all’individualismo imperanti nel mondo del lavoro. È vero che l’Italia dei Valori sta rivolgendo crescente attenzione ai temi del lavoro. Che si dichiara a favore della resistenza della Fiom all’attacco di Marchionne, delle lotte di Terzigno, del movimento No Tav e dei comitati immigrati. È vero che la voce di alcuni esponenti del mondo sindacale, come quella dell’ex-segretario della Camera del Lavoro di Brescia Zipponi, sta assumendo un ruolo crescente nella politica del partito e che, spesso, dal partito e dal suo quotidiano, arrivano condivisibili denunce sullo sfruttamento dei lavoratori, sul razzismo, sul saccheggio dell’ambiente, sul degrado nella scuola, sulla lontananza del palazzo dai problemi della gente e sulla corruzione annidata nei gangli del potere. Ma cosa propone in sostanza il partito di Di Pietro? Parla genericamente di "nuove modalità di rappresentanza politica" delle istanze dei lavoratori e popolari. Cosa s’intende? Quando si scende dalle proclamazioni nebulose, vien fuori che la politica federalista del governo si può, in alcuni aspetti, sostenere e che va appoggiata la pressione degli Usa su Pechino per la svalutazione della moneta cinese che "fa così tanto male all’Europa", alla competitività delle nostre aziende e ai nostri lavoratori. Ci risiamo: la competitività! Con l’inevitabile incoraggiamento del sentimento, già così diffuso tra i lavoratori, che il nemico sia il lavoratore asiatico!

Un lavoro di lunga lena

In realtà, chi, da decenni, sta facendo le scarpe ai lavoratori in Italia non sono i lavoratori asiatici, sono i padroni italiani, sono i governi tricolori, di centro-destra e di centro-sinistra, forti della concorrenza che la mondializzazione capitalistica ha scatenato sul mercato del lavoro e della micidiale illusione dominante tra i lavoratori convinti di aver interesse a farsi carico del rilancio della competitività delle aziende.

Ci rendiamo perfettamente conto che questa verità, che per noi marxisti è un punto fermo elementare, è quanto mai lontana dalla coscienza dei lavoratori e che non basterà proclamarla in astratto ai quattro venti per voltare pagina. L’esperienza storica e la teoria marxista del funzionamento della  società capitalistica ci insegnano che per aprire una breccia nella coscienza dei lavoratori è essenziale che torni ad esplodere lo scontro sociale, un evento dipendente, in ultima istanza, dallo stesso capitale, da quello che riserverà ai lavoratori. Ma ci insegnano anche quanto sia vitale che, nel frattempo, un piccolo nucleo di proletari si organizzi affinché non si arrivi completamente disarmati dal punto di vista politico alle indigeste sorprese riservate dall’una e dall’altra frazione della borghesia italiana. Cosa significa ciò in concreto? Significa denunciare la sostanza dei due programmi borghesi che si fronteggiano sulla scena politica e si contendono il consenso proletario. Significa indicare le radici profonde, annidate nel funzionamento del sistema sociale capitalistico, delle pietre che piovono sulle teste dei lavoratori. Contrastare la rottura dei legami unitari ancora oggi esistenti nella condizione proletaria in Italia, ad esempio con una battaglia frontale contro il federalismo. Significa fare della lotta contro il razzismo uno dei pilastri dell’iniziativa volta a fronteggiare la concorrenza tra i lavoratori e a favorire l’unificazione degli sfruttati. Incoraggiare la scesa in campo diretta dei lavoratori. Portare avanti, in stretto legame con questa iniziativa politica, un lavoro teorico che la incardini sul marxismo rivoluzionario, l’unica dottrina in grado di rendere intelligibile il presente e di illuminare la strada per la difesa del proletariato dallo sfruttamento capitalistico.

Noi compagni dell’Oci faremo del tutto affinché l’organizzazione di questa pattuglia di militanti proletari non rimanga un sogno e affinché nella battaglia politica essa si apra alla convinzione che la medaglia della mondializzazione capitalistica ha un promettente rovescio: la concorrenza tra i lavoratori che essa genera e alimenta, portata all’estremo, fa nascere negli stessi lavoratori l’esigenza opposta di raccogliersi in un’organizzazione di lotta comune contro le proprie, spesso comuni, direzioni aziendali, contro i propri governi, contro il sistema di sfruttamento capitalistico che domina il mondo intero, il destino dell’operaio di Pomigliano, quello del lavoratore di Belo Horizonte, quello del contadino indiano, quello dell’immigrato cinese nelle zone industriali della Cina.


Scheda

Parla il ministro "no global".

"Dobbiamo rinunciare ad una quantità di regole inutili, siamo in un mondo dove tutto è vietato tranne quello che è concesso dallo stato, dobbiamo cambiare… robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al mondo".

"Berghem fest", 25 agosto 2010, Giulio Tremonti


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