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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

Dopo la fiammata proletaria in Grecia, gli scioperi in Francia...

Dopo gli Usa e la Cina, anche i capitalisti e i governi dell’Unione Europa, sotto la guida della Germania, hanno cominciato a mettere a punto una risposta articolata alla turbolenta fase dell’accumulazione capitalistica in cui siamo entrati dal 2008. Al centro di questa risposta è l’attacco, accorto e insidioso, alle posizioni conquistate dai lavoratori negli  ultimi due secoli. I lavoratori dell’Europa, pur in grande difficoltà, hanno cercato di arginare i colpi. Proviamo, allora, a ragionare sulle mobilitazioni proletarie che ci sono state nella primavera e nell’autunno 2010 e sulle indicazioni che da esse emergono per il lavoro politico richiesto dall’organizzazione di una coerente linea di difesa degli interessi dei lavoratori.

Le misure varate nella primavera-estate 2010 dai vertici dell’Ue (v. riquadro) hanno segnato un rafforzamento del coordinamento delle politiche dei governi europei sotto il controllo del capitale finanziario più potente di Europa, quello tedesco. A spingere a questo gran passo è stata la recessione iniziata in Occidente nel 2008 e l’era di turbolenza in cui l’ordine capitalistico mondiale è da allora entrato.

 Gli Usa di Obama e la Cina di Hu hanno prontamente reagito a questa frattura storica. Hanno varato ambiziosi piani di intervento finalizzati a dare respiro alle loro imprese e ad arginare l’instabilità del sistema capitalistico mondiale. (1) Fino al 2010, le potenze capitalistiche europee si sono “limitate” a salvare le banche colpite dalla crisi dei titoli spazzatura e hanno, per il resto, tergiversato, nella speranza (berlusconiana) del rapido ritorno a tempi migliori, anche grazie ai piani di rilancio dell’accumulazione mondiale varati dagli Usa e dalla Cina.

Ciò che è arrivato, anche per gli effetti immediati di quei piani, è stato, invece, un contraccolpo pesante sulla forza delle multinazionali, della finanza e del tessuto produttivo dell’Unione Europea. La crisi finanziaria greca è stato il campanello d’allarme. La propaganda ufficiale ha gettato la colpa sugli speculatori. Ma gli speculatori si sono limitati a fare il loro mestiere, si sono “limitati” a far surf sulle tendenze reali dello sviluppo capitalistico. Si sono “limitati” a prendere atto che in un’area significativa dell’Ue il saggio di sfruttamento dei lavoratori Ue è diventato troppo basso rispetto alle esigenze di redditività del capitale e al disegno dei conglomerati finanziarii di rifarsi delle perdite del 2008-2010.

L’affanno del polmone capitalistico europeo viene da lontano. La crisi finanziaria e la recessione del 2008-2010 hanno solo acuito le difficoltà. Le trasformazioni avvenute nel sistema capitalistico mondiale hanno ridotto i benefici della rendita coloniale europea. Con l’eccezione della Germania e dell’area direttamente integrata nella rete produttiva tedesca, è intaccato il vantaggio nella produttività del lavoro di cui godevano le imprese dell’Europa occidentale rispetto a quelle del resto del mondo. In conseguenza di ciò, il “patto sociale” stabilito in Europa nel XX secolo è diventato insostenibile per il mantenimento dell’area Ue nel pugno di potenze che dominano il mondo. È diventato, ad esempio, inaccettabile che l’allungamento della vita media lasci alcuni anni non direttamente sottoposti alla torchiatura capitalistica tra il pensionamento e l’inabilità al lavoro per la vecchiaia. Un simile regime pensionistico poteva andar bene quando il motore capitalistico europeo girava a pieno ritmo e quando il numero dei pensionati rispetto a quello dei lavoratori attivi era notevolmente inferiore a quello odierno. Oggi esso è diventato una palla al piede inaccettabile per il capitale europeo.

Mentre il governo di Berlusconi e la rete capitalistica che esso rappresenta stanno, di fatto, accettando la retrocessione, non è così per i centri capitalistici più potenti dell’Unione Europa, soprattutto per quelli tedeschi.

La Germania ha bisogno di un blocco continentale.

Dal 1990, questi ultimi hanno compiuto sensibili progressi verso la razionalizzazione dei processi produttivi e l’integrazione dell’area mitteleuropea nei gangli dell’economia tedesca. Hanno messo a frutto, anche per erodere le conquiste sociali dei lavoratori tedeschi e rendere più flessibili e precari i rapporti di lavoro in Germania, l’abbondanza di manodopera esistita sul mercato europeo negli ultimi vent’anni, soprattutto per l’arrivo di milioni di lavoratori immigrati. La crescita delle esportazioni tedesche in Cina, l’estesa presenza del capitale finanziario tedesco in Cina, il consolidamento delle une e dell’altra nel 2008-2010, in un triennio grigio per la gran parte del capitale occidentale, sono solo un effetto del rilancio della competitività compiuta dal sistema-Germania. Tra il 2001 e il 2009 le esportazioni della Germania verso la Francia, l’Italia, la Spagna sono rimaste stagnanti, sono diminuite sensibilmente quelle verso gli Usa. Sono invece aumentate notevolmente quelle verso la Cina: “Il 2009 è stato l’anno in cui per la prima volta nella storia moderna il flusso di esportazioni tedesche, se calcolato in volume, è stato più intenso verso la repubblica popolare cinese che verso gli Stati Uniti” (I quaderni speciali di Limes, “L’euro senza stato”, aprile 2009, pag. 107).

In virtù di questo rilancio, il capitale tedesco vuole e può combattere per mantenere il ruolo di potenza capitalistica mondiale e per avere un ruolo autonomo nello scontro per la supremazia mondiale che si profila tra Washington e Pechino. Ma la Germania non può farsi valere in questo scontro senza rafforzare attorno a sé, in posizione subordinata, un blocco produttivo e finanziario continentale, in modo simile a quello che hanno già fatto gli Usa e la Cina. Un blocco che, per essere tale, deve essere funzionalizzato ad almeno due criteri di competitività generali.

Prima di tutto, deve essere ricostituito in Europa occidentale un esercito di disoccupati, in modo da costringere i proletari ad accettare lavori precari, insicuri, snervanti per la lunghezza e l’intensità della prestazione lavorativa. Per quante contro-riforme siano state compiute nei vari paesi europei dagli anni ottanta, il mercato del lavoro dell’Ue è ancora troppo rigido rispetto alle esigenze di competitività imposte dal mercato mondiale. Verso la metà del primo decennio del XXI secolo, poi, i padroni avevano visto ridursi eccessivamente il numero di disoccupati. Era addirittura iniziata l’emigrazione in Romania dall’Asia meridionale.

Di qui, l’esigenza per il capitale europeo di misure per precarizzare pesantemente i rapporti di lavoro e per ridurre i sussidi di disoccupazione. Di qui, l’esigenza di aumentare l’età lavorativa media. Di qui, l’esigenza di far arretrare a tal punto la condizione proletaria nei paesi dell’Europa mediterranea da far ripartire l’emigrazione verso quelli dell’Europa settentrionale, dove sono i centri dell’accumulazione continentale. Il secondo carburante richiesto dal rilancio della competitività del capitale europeo coinvolge la riduzione del salario indiretto dei lavoratori, quello legato alla copertura previdenziale, sanitaria e agli altri servizi sociali, così da costringere le famiglie proletarie, anche attraverso questa via, ad accettare il prolungamento della giornata lavorativa e così da aumentare la quota della ricchezza sociale centralizzata nei forzieri delle banche.

Nel 2010 è emerso che un gruppo di paesi europei era fuori da questo orizzonte. Con possibili effetti a catena sulla tenuta di uno strumento fondamentale dell’imperialismo europeo: la moneta unica europea. Non solo: la Cina, sfruttando l’indebolimento della Grecia, stava insediandosi nelle strutture portuali del paese, come testa di ponte per la penetrazione, via Balcani, nel mercato dell’Europa continentale, nel cortile di casa tedesco.(2) Di fronte all’emergenza greca e al rischio che essa diventasse la palla di neve per una valanga sul resto dell’Europa, il governo tedesco e le banche tedesche hanno agito con fermezza e sono riuscite a portare a casa un passo verso il rafforzamento della competitività del sistema-Europa.(3)

L’attacco contro la classe lavoratrice

Al centro della manovra vi è l’offensiva capitalistica contro il “patto sociale” conquistato dal proletariato in Europa nel XX secolo. Questa offensiva non si limita, però, a colpire le conquiste storiche dei lavoratori, le “rigidità” ancora in piedi sul mercato del lavoro e la residua capacità di contrattazione collettiva dei propri interessi. Essa cerca anche di conquistare l’appoggio o quanto meno l’astensione di una parte dei lavoratori verso il piano di rilancio della competitività dell’Europa capitalistica, almeno di quelli della zona mitteleuropea e delle aree industrialmente più solide. Come? Chiamando i lavoratori e i sindacati a sostenere la razionalizzazione del ciclo produttivo e della società capitalistica europei, da attuarsi con l’innovazione tecnologica, la riduzione degli sprechi della pubblica amministrazione, l’aumento dell’efficienza del sistema del trasporti delle merci, lo sviluppo delle energie rinnovabili, l’elevamento del rendimento energetico dei sistemi produttivi, la riduzione dei costi dell’intermediazione commerciale, l’obbligo per le imprese finanziarie di istituire un’assicurazione da loro stesse finanziata per tutelarsi dai rischi di default senza attendersi il salvagente a spese dell’erario pubblico, la razionalizzazione della stessa spesa militare.

Dall’insieme di questi interventi, le borghesie europee o quantomeno quelle più potenti progetta di “liberare” risorse per ridurre la portata dei tagli riservati ai lavoratori, soprattutto nel cuore del sistema produttivo europeo. Questo permetterebbe al capitale europeo di mettere i bastoni tra le ruote ad un eventuale risposta di lotta globale dei lavoratori dell’Europa e di conquistarne il sostegno nello scontro con la Cina e gli Usa, impossibile da portare avanti senza la collaborazione della gente che lavora. Il governo Merkel è il rappresentante più lungimirante di questo progetto. Esso si è addirittura reso conto che occorre includere nel “patto sociale” al ribasso che sta proponendo al proletariato europeo anche una parte dei lavoratori immigrati, a cui “finianamente” si promette l’integrazione o un barlume di integrazione al prezzo della fedeltà, nella partita planetaria che si è aperta, al “Vecchio Continente”, alle potenze che per cinque secoli ne hanno vivisezionati i paesi d’origine.(4)

L’alternativa? Se si rimane sul terreno delle compatibilità capitalistiche, l’ha presentata esplicitamente Merkel di fronte al congresso del sindacato tedesco Dgb: se non la smettiamo di vivere all’infinito al di sopra dei nostri mezzi, l’alternativa è la perdita dell’intero patto sociale che è stato conquistato dai lavoratori europei nel XX secolo, è la colonizzazione da parte dei poteri voraci accampati ai confini dell’Europa. Lo ha ripetuto uno dei fautori del modello tedesco in Italia, il direttore di la Repubblica: “La Bce è l’unica banca centrale che non abbia alle sue spalle uno stato. (…) Può finire in due modi: facendo diventare l’Unione uno stato, con un suo bilancio, una sua fiscalità, un parlamento con candidature europee e non nazionali, una politica estera, una difesa comune. Ci vorranno anni, ma i passi decisivi devono essere fatti subito, quantomeno per la fiscalità, il bilancio, il governo economico europeo e le relative cessioni di sovranità. L’altra strada è quella proposta dalla Germania: invece d’una cessione di sovranità degli stati all’Unione, una delega ai paesi più forti per governare l’economia e la finanza dell’intera Unione. Insomma un Direttorio dotato di ampi poteri.” Se fallissero entrambi i percorsi, “una nuova barbarie seppellirebbe l’intera civiltà occidentale, e il nostro continente diventerebbe un arcipelago regionale gravido di contraddizioni tra deboli e debolissimi e non risparmierebbe nessuno, rafforzando soltanto le criminalità organizzate e consegnando un immenso mercato alle bocche voraci dei poteri forti mondiali” (23 maggio 2010).

Le borghesie europee sono ancora lontane dall’unità richiesta dalla realizzazione di questo progetto. Il capitale europeo e quello tedesco scontano l’assenza di uno stato unico, presente come direttore dell’orchestra capitalistica negli Usa e in Cina. Non è un handicap da poco. Ma intanto un passo in avanti è stato fatto. Se i successivi seguiranno, non si realizzeranno, certo, a freddo.

 Note

 (1)          Ne abbiamo parlato nei numeri 70, 71 e 72 del “che fare”.

(2)          La cinese Cosco Pacific ha investito 5 miliardi di dollari nel terminal container del porto di Atene. La cinese Hutchison Port di Hong Kong ha iniziato le grandi manovre per il porto di Salonicco. Alla fine del 2009 filtrano altre due significative notizie. Il governo Papandreu aveva avviato trattative con la Bank of China per l’acquisto nel gennaio 2010 di 25 miliardi di euro di bond greci in cambio della cessione del settore portuale greco. Erano, inoltre, in corso contatti per l’ingresso delle banche cinesi nel sistema finanziario greco, nelle cui mani è concentrato il controllo delle risorse del paese e di quote non insignificanti del mercato balcanico (30% in Bulgaria, 25% in Albania e Macedonia, 15% in Serbia e Romania.

(3)          Il 17 maggio 2010 di fronte al parlamento tedesco il capo del governo Merkel afferma che “l’euro è in pericolo”, che “l’euro è la base del benessere di tutti noi, anche di  noi tedeschi”.

(4)          Il 3 ottobre, ad esempio, il presidente della repubblica tedesca, Wulf, dichiara: “La Germania rifiuta tutti i muri, anche gli islamici sono islamici”.

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

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