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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

La crisi del sistema monetario internazionale (serie di articoli sul n.73) In particolare questo segue l'articolo "Gli Stati Uniti a muso duro"

La vera alternativa

Questo non significa che siamo alla vigilia di una guerra tra Stati Uniti e Cina. Perché, invece, ci potranno essere nel breve periodo, tra accesi conflitti, anche dei terreni di mediazione. Una prima concessione la Cina l’ha ottenuta con la crescita del suo peso nel Fmi a spese degli europei. Una seconda concessione, ipotizza Roubini, potrebbe riguardare Taiwan, o un graduale ampliamento della funzione dei diritti speciali di prelievo. Ma si tratterebbe comunque di momentanei armistizi che preludono all’avvio degli scontri decisivi. Il fatto è che con lo scoppio di questa crisi, che i giornali finanziari anglo-americani continuano a definire “la peggiore crisi di sempre” (M. Wolf), è finito l’assetto del sistema capitalistico mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale, e nulla e nessuno potrà farlo risuscitare dalla tomba. La dittatura mondiale del dollaro e di Wall Street è finita. E si è aperta una caotica fase di transizione nella quale, una volta spazzate via le alternative fasulle, ne resterà in piedi una sola: o la criminale follia, l’apocalittico olocausto di una terza guerra imperialistica combattuta su tutto il globo per definire quale super-stato e quali mega-imprese dovranno dettare legge nel tragico day after, o la rivoluzione proletaria internazionale per liberarci insieme dallo sfruttamento del lavoro e dall’incubo delle guerre capitalistiche.

La soluzione “repubblicana” proposta dalla Cina che preveda una moneta “democratica” e una sorta di governo “cooperativo” del mondo che coinvolga le maggiori potenze non sta in piedi, né in campo monetario, né in campo politico. Qualcuno, negli Stati Uniti, ci crede. Stiglitz è convinto, ad esempio, che la cooperazione tra le potenze capitalistiche, un “onesto accordo” tra esse è l’unica via per venire a capo del disordine attuale. Ma la storia del capitalismo esclude in modo categorico una simile possibilità. Il modo di produzione capitalistico è dispotico verso e sul lavoro salariato, ma lo è anche nelle relazioni tra capitali e tra stati. Per le sue ferree leggi di funzionamento la concorrenza tra capitali è sempre la premessa della formazione di poteri oligopolistici e monopolistici. E nell’inevitabile scontro tra questi poteri si forgiano concentrazioni di potere politico ed economico sempre più gigantesche. Il cammino storico che il capitalismo ha compiuto nell’evoluzione dalle prime città-stato borghesi italiane fino al mostruoso complesso statuale statunitense del ventesimo secolo lo testimonia, e piccona tutte le illusioni di cooperazione pacifica e “democratica” nel quadro del capitalismo. Per essere “governato” il mercato mondiale attuale, con il livello raggiunto dallo sviluppo e dalla socializzazione delle forze produttive, richiederebbe una super-moneta ed un super-stato ancora più potenti e dispotici di quanto lo siano stati il dollaro e l’imperialismo statunitense  nell’ultimo secolo. In astratto, in una prospettiva non certo vicina, solo la Cina potrebbe assurgere, forse, al ruolo di un sostituto della super-potenza yankee nella funzione di capo-bastone del sistema capitalistico mondiale per come esso si configura oggi. I circoli dirigenti statunitensi ne sono ben consapevoli; ed è per questo che stanno rompendo gli indugi per sbarrargli la strada. Non vogliono, non debbono dare tempo alla Cina, né ai suoi potenziali alleati.

Tanto Washington quanto Pechino, ovviamente, puntano a coinvolgere i “propri” lavoratori nello scontro. Washington rispolvera, allo scopo, la sua rancida retorica “anti-dittatoriale” e si rivolge soprattutto (non solo) ai lavoratori del mondo occidentale per alimentare e far incanaglire il loro “spontaneo” timore nei confronti del colosso cinese dal lavoro a basso costo e semi-schiavile capace di gettarci sul lastrico, dunque da fermare il prima possibile (impedendogli in tutti i modi di vedere l’altra Cina, la Cina dei lavoratori, la Cina dei lavoratori in lotta contro lo sfruttamento interno ed esterno). Pechino, a sua volta, rispolvera dalla tomba frammenti di retorica “anti-imperialista” e anti-americana, quando accusa gli Usa di voler vivere a credito sulle fatiche e sul lavoro delle altre nazioni continuando a consumare assai più di quello che produce, e sa di poter godere in Cina e in larghe aree dei continenti di colore (e non solo) di un’approvazione popolare ampia, retaggio di vere lotte e di veri sentimenti anti-imperialisti – ma occulta opportunamente agli occhi del mondo come un parassitismo analogo a quello yankee si stia sviluppando nelle classi privilegiate cinesi.

A questa doppia, ingannevole retorica da sfruttatori bisogna opporre che le guerre monetarie, le guerre economiche, le guerre militari che si stanno fucinando non sono guerre per i lavoratori, ma guerre contro i lavoratori. Perché ai lavoratori possono portare solo licenziamenti, miseria, massacri. In guerre del genere per i lavoratori non ci sono guadagni, ci sono solo perdite. In guerre del genere ci guadagnano solo i signori delle monete, dell’economia, degli stati: i lavoratori, tutti i lavoratori non possono che uscirne vinti, schiacciati.

La storia passata è ricchissima di esempi in tal senso, ma basterà un riferimento recente. La crisi del debito greco. Dietro di essa c’era un attacco evidente all’euro, un tentativo di destabilizzare l’euro, a vantaggio – evidentemente – del dollaro (ma ne potrebbe trarre un vantaggio anche lo yuan). In cosa si è risolta questa crisi? Nel brutale peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori greci. L’euro al momento è salvo, fino ai prossimi, certi attacchi: il conto lo hanno pagato i lavoratori greci, nonostante la loro coraggiosa resistenza. Li abbiamo lasciati soli, soli contro tutti i governi euro-atlantici, intenti a darsi reciproche coltellate, ma coalizzati contro di loro. Ma il nostro silenzio non è un danno solo per i fratelli greci, è un danno anche per noi perché la loro sorte e la nostra sono indivisibili. Ed infatti, a distanza di pochi mesi, quello stesso attacco sta ora di nuovo proponendosi su scala più ampia, contro i lavoratori irlandesi, portoghesi, spagnoli e, dopodomani, italiani.

Abbiamo constatato altre volte, con realismo, che il grado di autonomia della classe lavoratrice da cui ripartiamo è vicino al punto zero. Tuttavia i duri fatti, anche qui in Europa, stanno cominciando a scuotere i lavoratori dalla loro atonia, a spingerli oltre la loro paura. In modo timido qualche prova di ripartire c’è. Nel sostenerla, nell’“integrarci” ad essa, spetterà a piccoli nuclei di comunisti come il nostro mostrare come c’è una sola soluzione non catastrofica, ma liberatoria al caos del momento presente: è la presa nelle mani dell’economia mondiale da parte dei lavoratori di tutto il mondo associati; è la formulazione di un piano comune di soddisfacimento dei bisogni umani autentici; è assoggettare la nostra attività produttiva al nostro intelletto collettivo; è scuoterci di dosso ogni forma di soggezione al capitale e di nazionalismo sciovinista; é batterci fino in fondo contro questo sistema sociale per incamminarci, sulle sue rovine, verso una società di liberi ed uguali che si sia finalmente lasciata dietro le spalle la merce, la moneta e lo stato.

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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