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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

La grande Intifada araba scuote il mondo intero.

Egitto: i giorni del riscatto

Con la sollevazione iniziata il 25 gennaio scorso l’Egitto ha confermato il ruolo chiave che ha da sempre nella storia del Medio Oriente e di tutto il mondo arabo. Perno fondamentale negli scorsi tre decenni del controllo statunitense e imperialista sull’intera area, esso è divenuto da mesi il laboratorio di avanguardia del riscatto delle masse sfruttate e oppresse arabe.

Da Nasser a Mubarak

Abbiamo indicato nell’introduzione a questo dossier il quadro generale delle trasformazioni sociali, economiche e politiche che sono alla base dell’Intifada araba guardata nel suo insieme. Aggiungiamo qui alcune considerazioni che riguardano in modo specifico l’Egitto del secondo dopoguerra e la sua evoluzione fino ai giorni di "piazza Tahrir".

L’Egitto ha conquistato la sua piena indipendenza dal colonialismo britannico con la soppressione della monarchia (nel 1952) e l’avvento al potere di Nasser e del gruppo di ufficiali da lui guidato (nel 1954). Il paese viene allora investito da un’ondata di riforme che, seppure calate dall’alto e pagate – un prezzo molto pesante!- con l’annullamento della partecipazione attiva dei lavoratori alla vita del paese e la dura repressione delle loro lotte (e di ogni forma di dissenso), lo trasformeranno in profondità. La riforma agraria (che resterà incompiuta), l’elettrificazione (e la costruzione della grande diga di Assuan), un programma di alfabetizzazione di massa che consentì un ampio accesso all’istruzione, a cui corrispose la garanzia di posti di lavoro per tutti i laureati, l’istituzione di un sistema sanitario e pensionistico furono altrettanti pilastri di una modernizzazione capitalistica interamente promossa e controllata dallo stato.

Nella politica internazionale Nasser si mosse in continuità con la lotta popolare al neo-colonialismo che aveva preparato la sua ascesa al potere. Nel 1954 viene varato un piano di nazionalizzazioni: innanzitutto della gestione del traffico nel Canale (che scatenò l’aggressione di Francia e Inghilterra) ma anche delle banche, di tutte le aziende con più di 200 addetti, nonché delle grandi proprietà terriere. Fallito il reiterato tentativo di instaurare una collaborazione con gli Stati Uniti, Nasser partecipa in prima fila alle guerre contro Israele e al movimento dei non allineati, si pone come capo- fila della lotta anti-imperialista dei paesi arabi, e giunge all’apice del suo prestigio con il progetto di unità dei paesi arabi che vide nella creazione della Repubblica Araba Unita il suo momento di maggiore espressione.

L’esperimento, che prevedeva l’unità con la Siria (sbilanciata a favore del Cairo), durò solo tre anni (dal 1958 al 1961), ma questo fallimento non minò la sua popolarità, che rimase intatta anche dopo la sconfitta nella guerra dei sei giorni con Israele (1967), ed è tuttora viva in tutta la regione. Con Sadat (al potere dal 1970) avviene un capovolgimento della politica nasseriana sia sul piano interno che su quello internazionale. Vengono rimesse in discussione le nazionalizzazioni e riaperte le porte agli investimenti stranieri con la politica di Infitah, di "apertura" del paese.

L’Egitto diviene così il pioniere del neo-liberalismo in tutto il mondo arabo. Nello stesso tempo esso si pone come l’architrave dell’egemonia statunitense e occidentale in tutta l’area medio-orientale firmando (nel 1977) la pace separata di Camp David con Israele, e dando mano libera ad Israele di concentrare le sue forze militari contro la resistenza popolare in Palestina e in Libano, e agli Stati Uniti di garantirsi l’accesso a buon mercato alle risorse petrolifere dei paesi del Golfo.

Il patto di ferro siglato allora con Washington è stato l’asse portante della politica di stato egiziana anche durante il lungo regno di Mubarak che ha proseguito le politiche di impronta neo-liberista di Sadat prima con una certa cautela, memore delle rivolte popolari seguite nel ‘77 all’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, poi, soprattutto negli ultimi dieci anni, con una forte accelerazione, sotto la pressione dei prestiti e delle clausole strangolatorie imposte dal FMI e dalla Banca mondiale.

Questo patto ha fatto affluire in Egitto massicci investimenti esteri. L’Egitto è divenuto così il secondo paese africano per investimenti stranieri, con una forte presenza dei capitali statunitensi, e la crescente partecipazione di Arabia Saudita, Cina, Indonesia, Turchia. Anche l’Italia s’è accaparrata la sua parte nel supersfruttamento del lavoro e delle risorse egiziane con ben 500 imprese, tra cui Eni, Impregilo, Italcementi, Pirelli, Marzotto, Banca Intesa, Asa International (che gestisce lo smaltimento della metà dei rifiuti del Cairo), e numerose imprese piccole o medie.

Questi investimenti hanno ammodernato in certa misura la struttura industriale del paese, ma i loro benefici sono stati in larga parte requisiti dagli stessi investitori esteri che godono dei vantaggi speciali assicurati loro dalla creazione di zone speciali (le SEZ, zone economiche speciali e le QUIZ, zone economiche qualificate, create nel 2004 sulla base di un accordo commerciale con Israele) vicino Ismailia, intorno al Cairo, ad Alessandria, al Canale di Suez, nel Delta del Nilo e di recente anche nel sud a Beni Suef.

Attraverso questa prolungata politica della "porta aperta" agli investimenti esteri, un passo dopo l’altro l’Egitto è diventato sempre più dipendente dal potente alleatoprotettore statunitense e dal mercato globale. Si pensi solo al fatto che oggi l’Egitto riceve ogni anno 2 miliardi di dollari di aiuti economici dagli Stati Uniti, di cui 1.3 vanno all’esercito (con la clausola di acquistare solo armi statunitensi), mentre ha perso l’autosufficienza alimentare.

Sullo sfondo di questo processo maturano le contraddizioni di classe esplose all’inizio del 2011.

La fase preparatoria

 L’eruzione è preceduta da una fasepreparatoria di alcuni anni, nella quale si è progressivamente affacciato sulla scena della lotta un variegato fronte sociale. Il suo protagonista fondamentale è stato il proletariato industriale. Dal 2004 al 2008, il paese è stato scosso da alcune ondate di scioperi che, dal centro propulsore dei grandi distretti tessili del delta del Nilo, hanno rivendicato il pagamento o l’aumento dei salari (pari a circa 50 euro al mese per lunghissimi orari settimanali), hanno contestato l’operato del sindacato di stato, hanno posto il problema della creazione di un sindacato indipendente, hanno cercato di fronteggiare le conseguenze della politica di liberalizzazione e l’estrema precarietà del lavoro. Dal 2004 al 2008 sono stati coinvolti negli scioperi (più di 1900 in tutto il paese), complessivamente, ben due milioni di lavoratori. Merita ricordare in particolare, per il suo significato nazionale e politico, la grande e prolungata lotta degli operai tessili di Mahalla al-Kubra. Nel dicembre 2006 la lotta parte dal reparto confezioni, interamente femminile, per l’ottenimento dei bonus che compongono una consistente parte del salario e coinvolge ben presto tutta la fabbrica, per poi estendersi a macchia d’olio ad altri impianti tessili e ad altri settori industriali. La lotta, su cui momenti salienti rimandiamo ai materiali presenti sul nostro sito, è una specie di prova generale della sollevazione contro il regime.

La seconda componente sociale che ha arato il terreno alla sollevazione di gennaio-febbraio 2011 è stata la diffusione molecolare delle proteste contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. A fianco degli operai, alle proteste partecipano i diseredati delle città e i lavoratori del pubblico impiego.

La terza componente è legata  all’iniziativa di associazioni giovanili sostenute da settori piccolo borghesi o borghesi tout court, che contestano la repressione e la brutalità della polizia, la gestione corrotta e monopolistica del potere da parte dell’élite raccolta attorno a Mubarak, e che intendono reagire alla frustrazione dei propri sogni di promozione sociale (secondo il ministro del lavoro Hassan el-Borai la disoccupazione dei giovani laureati si avvicina al 45%), allo stato di umiliazione in cui è ridotto il paese. Tra queste associazioni (alcune delle quali si formano a cavallo delle elezioni del 2005, quando, sfruttando le timidissime aperture fornite dalla nuova legge elettorale, tentano (invano) di impedire l’ennesima  riconferma elettorale di Mubarak alla presidenza) vi è il "Movimento egiziano per il cambiamento" (Kifaya), che chiede la fine della "dittatura di Mubarak" perché non è in grado di "salvaguardare gli arabi dal progetto sionista-americano". Sulla medesima linea si collocherà di lì a poco il Movimento dei giovani del 6 aprile che prospetta "il risorgimento politico economico e sociale del paese". (1)

La campagna elettorale del 2010, il giro di vite con cui l’ha accompagnata il governo, i risultati delle elezioni ancora una volta favorevoli a Mubarak, l’annunciato passaggio del testimone da Mubarak padre a Mubarak figlio, esponente di spicco dell’oligarchia al potere e della finanza britannica, confermano a coloro che, per spinte sociali diverse, si erano mobilitati, che la svolta richiesta nella politica del paese richiede la resa dei conti con Mubarak.

L’esplosione, e piazza Tahrir

La miccia è fornita dall’esempio tunisino e dalle manifestazioni di protesta che le associazioni giovanili rganizzano per mercoledì 25 gennaio nei quartieri popolari della capitale, sterminata megalopoli di 15 milioni di abitanti. Il primo tentativo di installarsi in piazza Tahrir è sgomberato dalla polizia. Ma ormai la valanga è innescata. Il venerdì successivo, 28 gennaio, alimentata dagli incontri per la tradizionale preghiera e dall’attivizzazione delle associazioni islamiste di base, la mobilitazione è così ampia e inarrestabile che avrà la forza di riconquistare piazza Tahrir, di farne il quartiere generale della lotta e di difenderla dai ripetuti assalti della polizia e delle forze dell’ordine.

A questo punto, si schierano con il movimento di lotta, che vede in campo operai, lavoratori del pubblico impiego, delegazioni contadine e bracciantili arrivate dalle campagne, lavoratori fluttuanti dell’economia informale, giovani provenienti dai ceti medi professionali e finanche rampolli di qualche ricca famiglia egiziana, e che ha assunto a suo primo obiettivo la cacciata di Mubarak, anche i Fratelli musulmani (un’organizzazione moderata di ispirazione islamica con un forte radicamento sociale tra gli ingegneri, i medici, gli avvocati, nonché tra i diseredati delle città e delle campagne) che non avevano partecipato alla sua promozione.

Quanto all’esercito, esso assume, nel suo insieme, una posizione di neutralità, e in forza di essa i suoi vertici cercano abilmente di guidare la mobilitazione popolare verso una transizione graduale, gestita in parte dallo stesso Mubarak e comunque pilotata dai piani alti dei palazzi del potere, verso un nuovo gruppo dirigente del paese.

Per alcuni giorni, il paese vede intrecciarsi lo scontro di classe, anche armato, nel paese e le febbrili trattative ai vertici. Al Cairo e in molte altre città bruciano le sedi dell’odiato partito nazional-democratico di Mubarak. Enormi manifestazioni e scontri con la polizia si susseguono in tutto il paese, con una partecipazione trasversale di giovani e meno giovani, ragazzi e ragazze: restano per terra più di ottocento shahyd (martiri), a cui si aggiungono i feriti e gli arrestati, molti dei quali spariti nel nulla.

Ma la paura è finita, e la sanguinosa repressione non ferma la mobilitazione. Piazza Tahrir diviene il punto di incontro dei manifestanti e icona della lotta sotto gli occhi di tutto il mondo arabo e di tutto il mondo. La piazza è presidiata giorno e notte da giovani, famiglie intere, molti lavoratori delle fabbriche, anche se non ancora in modo organizzato, tantissime donne. La polizia sparisce dalle strade.

Vengono allora organizzate (da un comitato guidato dai dirigenti del Pnd e dal capo dei sindacati di stato, oggi entrambi in galera insieme ad alcune altre centinaia di gerarchi del vecchio potere) le bande di baltaghya (teppisti, per lo più spacciatori in combutta con la polizia, gente assoldata dal regime, carcerati liberati per l’occasione) guidati dai servizi di sicurezza in borghese: è la famosa "battaglia dei cammelli", il cui dato folkloristico sarà sostituito ben presto da due giorni di assalti alla piazza, con mazze, bombe molotov lanciate dai tetti, armi da fuoco... Due giorni di battaglie di strada vere, strettissimi controlli per evitare infiltrazioni di poliziotti in borghese e di altri provocatori nella piazza (in due giorni ne saranno arrestati e rinchiusi nei sotterranei della metropolitana circa settecento), poi le bande, che avevano creduto di andare in passeggiata, si ritirano.

 Intanto, un "misterioso incidente" colpisce il gasdotto che porta il gas egiziano sottocosto ad Israele …

Di fronte alla seria prospettiva che lo scontro si risolva in uno stallo e in un cambiamento di facciata, incoraggiato dalla vittoria appena riportata in Tunisia, il proletariato industriale, agli inizi di febbraio, si muove per dare la spallata finale. Gli operai e i comitati che essi hanno nel frattempo costituito non si limitano più a partecipare alle manifestazioni, ad animare l’attività politica delle piazze, a cementare l’organizzazione della risposta agli attacchi armati al moto popolare, a porre sul piano con scioperi d’impresa le proprie specifiche rivendicazioni, ma passano allo sciopero generale ad oltranza politico per buttare giù Mubarak. A guidare l’iniziativa, le acciaierie e le fabbriche di fertilizzanti a Suez, i lavoratori del canale di Suez, i distretti del tessile a Kafr al-Dawwar, a Mahalla, a Shibin, le seterie di Helwan, i lavoratori dei  trasporti, delle ferrovie, dei telefoni, le zone industriali attorno al Cairo. È solo a questo punto che l’ala nazionale delle forze armate e i Fratelli musulmani, con la benedizione da oltre Atlantico dell’amministrazione Obama, costringono Mubarak alle dimissioni e rimettono il potere ad una giunta militare.

Il "popolo" vittorioso è diviso a interessi di classe contrapposti.

Ottenuto l’obiettivo comune, spedito il raìs nel suo esilio dorato al mare (a certi figuri va sempre troppo bene), i nodi dei differenti e divergenti interessi di classe che hanno animato la sollevazione hanno cominciato a venire al pettine.

Il movimento proletario, a parte le sue punte più avanzate, ha accettato che il potere fosse preso in mano, in una fase intermedia di transizione in vista di una nuova tornata elettorale, da una giunta di militari. La stessa cosa è accaduta per gli strati intermedi della società. Tutto il popolo si è riconosciuto, per il momento, nello sbocco politico preparato nelle alte sfere interne e internazionali. Ogni classe sociale ha, però, inteso a modo suo il "che fare" in questo periodo di transizione.

I lavoratori hanno pensato bene di continuare e di ampliare le mobilitazioni per imporre sul campo le loro rivendicazioni e per costituire un proprio tessuto organizzato, sindacale e politico.

Dai lavoratori dell’industria alimentare e dell’industria tessile, agli  impiegati pubblici, ai salariati delle industrie chimiche e farmaceutiche, ai 9000 operai della grande fabbrica di alluminio di Naga Hammadi, ai 15 mila impiegati e scaricatori del canale di Suez, i lavoratori hanno dato vita ad una vera e propria fioritura di scioperi e di iniziative di lotta. Parallelamente è continuato lo sforzo della classe lavoratrice di darsi degli organismi sindacali indipendenti e un’organizzazione sindacale generale: il 24 febbraio, migliaia di lavoratori dei trasporti pubblici costituiscono il loro sindacato; alla fine di febbraio si forma la "Coalizione dei lavoratori della rivoluzione del 25 gennaio"; il 14 e 15 marzo si svolge al Cairo la prima assise dei sindacati indipendenti, che vede il moltiplicarsi delle adesioni di altri settori di lavoratori. Nel loro appello del 30 gennaio i promotori di questa iniziativa riuniti nel Comitato costituente della federazione indipendente dei sindacati d’Egitto avevano dichiarato di battersi per il diritto al lavoro per tutti, per l’introduzione del salario minimo, per il diritto ad associarsi fuori dal sindacato di stato (che aveva apertamente condannato la sollevazione) e avevano fatto appello ai lavoratori perché costituissero comitati popolari di autodifesa nei quartieri e a presidio delle fabbriche.

Da alcuni di questi comitati di lavoratori sono poi partite rivendicazioni quanto mai scomode per il potere capitalistico interno e internazionale, quali la cacciata dei dirigenti corrotti, la confisca dei beni del regime e la loro distribuzione ai ceti sociali più poveri, la confisca e la ri-nazionalizzazione delle imprese privatizzate, la rimessa in discussione degli accordi con cui Mubarak&C. hanno svenduto il gas egiziano allo stato di Israele, lo scompaginamento dell’apparato repressivo scosso ma ancora in piedi, la richiesta  di giustizia per le vittime della repressione, la rivendicazione formulata dalle iniziative delle donne dell’8 marzo di potersi candidare alla presidenza.

In un primo momento, la giunta militare si è illusa di poter fermare abbastanza facilmente questa mobilitazione (sia con inviti a tornare al lavoro e a non sabotare la produzione che con vere e proprie azioni repressive mirate) e di poterne smorzare o congelare le rivendicazioni, così scomode, oltre che al capitale internazionale, alla stessa classe borghese interna. Al momento in cui scriviamo (fine maggio 2011), questi tentativi sono stati rintuzzati, la piazza politica proletaria e giovanile rimane in piedi.

Come è dimostrato dalla grande manifestazione dell’8 aprile con alcune centinaia di migliaia di persone al Cairo riunite per protestare contro il blocco della "rivoluzione", nel corso della quale un gruppo di giovani ufficiali ha letto davanti alla folla, sfidando la corte marziale, un messaggio con cui dà l’"appoggio alla "rivoluzione" chiede "le dimissioni del potentissimo ministro della difesa, il processo a tutti gli assassini e aggressori dei manifestanti, il rilascio di tutti i detenuti" e "denuncia l’attuale giunta di collusione col passato regime".

Come è dimostrato dal fatto che, dopo sessanta anni, sia stato festeggiato al Cairo e in altre città il 1° maggio, sia pure solo dalle organizzazioni di sinistra, e in esso sia stata rilanciata tanto la necessità di sindacati indipendenti quanto la necessità dei lavoratori di darsi un proprio partito. Come è dimostrato dalle forti iniziative del 13 maggio a sostegno dei palestinesi, che ne hanno incoraggiato la discesa in campo nel giorno della Nakba (l’anniversario dell’esodo forzato dalla Palestina del 1948), lo stesso giorno in cui i dimostranti hanno respinto all’insegna della "unità nazionale" la prospettiva di uno scontro sociale tra copti e islamici. Come è dimostrato, infine, dalla giornata di mobilitazione molto riuscita del 27 maggio, il secondo "venerdì della collera contro il sistema corrotto", promosso dai Comitati per la difesa della rivoluzione e dai giovani aderenti ai Fratelli musulmani (in polemica con la propria direzione), con al centro sempre la stessa necessità di portare avanti con più decisione lo smantellamento di quel che resta del vecchio regime e accelerare la "transizione democratica".

Lo scontro, quindi, è tutt’altro che chiuso. Semmai c’è la registrare un primo risvolto della sollevazione in politica estera, con l’intenzione della giunta militare, anche in conseguenza della pressione popolare, di riorientare la propria politica estera. In un primo momento, la giunta aveva confermato gli accordi internazionali con Israele, ma da poco ha riaperto il valico di Rafah, chiuso nel 2007 in occasione dell’affermazione di Hamas a Gaza, e dichiarato, per bocca del neo-ministro degli esteri, che "la  sicurezza nazionale egiziana e quella palestinese sono una sola cosa", sconfessando la decisione di Mubarak di chiudere il valico e sigillare così la prigione di Gaza.

Note

(1) Ampi stralci del documento presentato dall’associazione Kifaya il 21 dicembre 2004 si possono leggere su Limes, n. 1, 2011, pp. 97-98.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

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