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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

La grande intifada araba scuote il mondo intero

La grande Intifada araba scuote il mondo intero.

Un sommovimento di storica ampiezza agita da alcuni mesi il mondo arabo, a cominciare dal suo paese-chiave: l’Egitto. In questo nostro Dossier proviamo a spiegare perché lo "tsunami" popolare e proletario che sta investendo l’ordine costituito in questa area di importanza strategica per il capitale globale, sarà benefico tanto per i lavoratori arabi quanto per i lavoratori del mondo intero. E perché, quindi, c’è da sostenerlo incondizionatamente affinché vada avanti fino in fondo per conseguire gli obiettivi che si è dato. A tal fine, uno dei compiti cruciali a cui si è chiamati è quello dell’organizzazione della lotta "senza se e senza ma" contro l’aggressione delle potenze occidentali alla Libia, è la demistificazione dei suoi reali obiettivi, è l’impegno a dotarsi delle armi dottrinarie del marxismo che questa lotta sollecita.

Il retroterra economico, sociale e politico dell’Intifada araba

Per intendere la portata e le prospettive del movimento popolare e proletario che ha scosso e sta scuotendo il  mondo arabo, cerchiamo innanzitutto di metterne a fuoco le radici. Come raccontiamo negli altri articoli del dossier, nello sviluppo della sollevazione hanno, ovviamente, giocato un ruolo cruciale la condizione di miseria e di supersfruttamento riservata ai lavoratori in Egitto, in Tunisia, nel Bahrein, il peggioramento di tale condizione negli ultimi anni per effetto dell’aumento dei prezzi alimentari, la repressione spietata in atto da anni in questi paesi contro ogni tentativo di difesa delle condizioni proletarie e dei diritti democratici, che per la classe lavoratrice significano, innanzitutto, libertà di organizzazione politica e sindacale, diritto di sciopero, possibilità di manifestare, libertà di stampa, ecc.

A sedimentare la forza proletaria e popolare richiesta per mettersi in moto contro queste catene, strette attorno ai polsi dei lavoratori e dei diseredati dell’Egitto, della Tunisia e dei paesi della penisola arabica già da anni e anni, è stato, però, un processo più profondo, che ha investito non solo i paesi arabi ma l’intero Sud del mondo e che segna un vero e proprio tornante nell’evoluzione storica dell’umanità: il processo di impetuoso sviluppo, industrializzazione e modernizzazione di stampo capitalistico che ha investito la Cina, che si è trasmesso all’intera Asia, al Sud America fino ad alcune zone dell’Africa e che negli ultimi trenta anni ha profondamente modificato il panorama economico e politico a scala mondiale.

Un "risveglio politico globale"

Oggi i grandi e moderni complessi industriali hanno cessato di essere monopolio quasi assoluto dell’Occidente. Il cuore della produzione manifatturiera (a sua volta, cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica) s’è allargato dall’Europa e dal Nord America all’Asia e agli altri continenti emergenti. Nazioni e popoli costituenti la maggioranza dell’umanità fino a ieri relegati in ruoli di secondo o terzo ordine sono stati catapultati in primo piano sulla scena mondiale e non sono più disposti a restare confinati nei retrobottega della storia, ad accettare supinamente il dominio esercitato sul pianeta dalle potenze capitalistiche e dai popoli occidentali.

Alla base di questa vera e propria rivoluzione industriale planetaria vi è stato e vi è l’intrecciarsi contraddittorio di due fondamentali (e per nulla convergenti) spinte storiche. La prima è quella del moto di liberazione anti-coloniale con cui, nel corso del XX secolo, i popoli asiatici ed africani hanno spezzato il vecchio dominio europeo e hanno tentato di avviare, per questa via, attraverso la costruzione di proprie entità statali, una modernizzazione capitalistica "autocentrata" non più asservita agli interessi di saccheggio delle potenze coloniali. La seconda è quella rappresentata dall’enorme massa di capitali che gli stati e le multinazionali occidentali, soprattutto a partire dagli anni ’80, hanno investito in Asia, Africa e America Latina per mettere le mani sull’abbondante manodopera cresciuta in questi continenti dopo i moti anti-coloniali, attingere alla loro forza-lavoro inizialmente a bassi salari, pochi diritti e scarsa capacità di organizzazione, rispondere al calo dei rendimenti di borsa registrato negli anni settanta e rimettere in riga i lavoratori occidentali.

In una prima fase, durata grosso modo fino all’inizio del XXI secolo, questo articolato e lungo processo di mondializzazione della produzione manufatturiera e dei mercati finanziari ha permesso al capitale e alle potenze statali occidentali di realizzare il loro obiettivo. Successivamente sono progressivamente sorti per essi molteplici intoppi. Da un lato, le classi  dirigenti dei più robusti paesi del Sud del mondo, tra i quali la Cina, l’India, il Sudafrica, il Brasile, hanno contestato alle grandi potenze imperialiste di essere le uniche beneficiarie dello sviluppo capitalistico del Sud del mondo e le uniche depositarie delle decisioni sulle sorti delle istituzioni capitalistiche internazionali. Per esse lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni è stato solo un altro capitolo del cammino iniziato secoli fa contro la sottomissione all’Occidente. Dall’altro lato, ha cominciato progressivamente a far sentire la propria voce anche la massa dei nuovi proletari formatasi in Asia, Africa e America Latina, con un movimento mondiale di ascesa dei lavoratori del Sud del mondo che ha compiuto i suoi primi passi nell’America Latina (si ricordi, ad esempio, l’Argentinazo) e che ha poi investito progressivamente molti paesi asiatici, incluse alcune "tigri", per arrivare fin dentro la Cina, il Vietnam, il Bangladesh. Questo "risveglio politico globale", come è stato chiamato da Bzrezinski, uno dei consiglieri di Obama, ha avuto l’effetto di corrodere in profondità l’ordine mondiale a guida Usa impiantato durante e dopo la seconda guerra mondiale e consolidato nel 1989-1990 con lo sfondamento del muro dell’Est e l’aggressione all’Iraq. L’impatto si è moltiplicato da quando, nel 2008, l’economia dei paesi occidentali  è entrata in recessione e, nello stesso tempo, quella dei paesi asiatici, africani e latinoamericani ha proseguito nella sua marcia ascendente.

Nei primi mesi del 2011, il "risveglio politico globale" ha investito anche il mondo arabo, l’area del pianeta che dagli anni novanta l’Occidente aveva trasformato in una specie di antemurale contro il boomerang sociale  e politico innescato dalla sua stessa espansione in Asia, in Africa e in America Latina. Ha investito anche il mondo arabo perché, specialmente nell’ultimo decennio, la mondializzazione della produzione capitalistica e la diffusione più capillare che mai

dei rapporti sociali capitalistici hanno coinvolto progressivamente anche quest’area a cavallo tra l’Africa e l’Asia, integrandola in modo stretto nel mercato capitalistico mondiale e facendo di questa integrazione, e dell’impulso allo sviluppo dei rapporti sociali capitalistici locali che essa ha implicato, un elemento della ristrutturazione in corso a livello planetario.

Una crescita squilibrata

Pur se con forti disparità geografi- che e con le specificità derivanti dalla storia e dal ruolo ricoperto dall’area nella divisione internazionale del lavoro, il mondo arabo, sotto l’impulso di un’iniziativa capitalistica indigena, dell’intervento delle multinazionali occidentali e dell’effetto "contagio" proveniente da paesi limitrofi come la Turchia e l’Iran in rapido sviluppo, ha conosciuto una rapida modernizzazione capitalistica. Dal 2000 al 2008, gli investimenti esteri nell’area sono passati dallo 0,4% di quelli mondiali al 5,3%, raggiungendo la cifra di 89 miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo a parità del potere d’acquisto è cresciuto a ritmi sostenuti. È cresciuta la produzione manifatturiera e insieme ad essa sono cresciute le costruzioni e l’industria delle infrastrutture. Negli ultimi trent’anni la massa dei salariati è quasi raddoppiata. Grazie a dieci anni di prezzi medio-alti del petrolio, alla distruzione dell’Iraq e all’esponenziale incremento degli scambi con l’Asia (giunti sino al 50% dell’interscambio totale), la crescita è andata avanti a ritmi sostenuti nella penisola arabica, creandovi un polo finanziario e politico che ambisce a conquistare l’egemonia sull’intera area (v. articolo a pag. 8). La crescita capitalistica ha, però, coinvolto anche il Maghreb. Qui, è stata trainata dai proventi della vendita del petrolio e dai piani di investimento statali in Libia e in Algeria (1). Ha, invece, trovato il suo volano negli investimenti esteri nel caso della Tunisia (dove costituiscono il 60% degli investimenti totali) e dell’Egitto (dove costituiscono il 20% degli investimenti totali): prima di tutto quelli privati statunitensi ed europei (per l’Egitto 14 miliardi di dollari nel 2008, quattro volte più che nel 2005), dietro i quali si sono infilati rapidamente quelli sauditi (divenuti nell’area mediorientale dal 2008 più cospicui di quelli statunitensi) e quelli cinesi.

Anche nel mondo arabo, il capitale e gli stati occidentali hanno fatto del tutto per incamerare integralmente i frutti dello sviluppo capitalistico locale e per trasformarlo in una nuova catena per ribadire (anche di fronte al "risveglio politico mondiale" delle altre aree del Sud del mondo) il loro dominio sulla regione. Il loro obiettivo è andato in porto, finora, soprattutto in paesi come la Tunisia (10 milioni di abitanti) e l’Egitto (80 milioni di abitanti) con scarse o limitate rendite petrolifere e tributari del mercato mondiale per gli investimenti  esteri, per i beni strumentali, per le esportazioni, per il servizio del debito estero e per il fabbisogno alimentare(2). In questi paesi, la diffusione dei rapporti capitalistici è avvenuta all’insegna della privatizzazione e della de-nazionalizzazione delle imprese più profittevoli, della riduzione dei sussidi pubblici all’acquisto dei beni di prima necessità, della diminuzione degli impiegati pubblici, della creazione di zone speciali gestite dal capitale multinazionale senza la presenza, diversamente da quanto accaduto in altri paesi dell’area e del Sud del mondo, di ritorni significativi per il capitale nazionale.                                    

In conseguenza di ciò, la trasformazione di milioni e milioni di contadini poveri e produttori indipendenti in proletari e la crescita della massa proletarizzata della popolazione, in una quota non piccola costretta a vivacchiare nei meandri dell’economia informale o a penare in micro-imprese assoldate alle catene conto-terziste controllate dal capitale globale, è avvenuta all’insegna della diffusione dei bassi salari e del peggioramentodelle condizioni di esistenza per i lavoratori impiegati nelle industrie di stato e coperti dalle conquiste strappate nel periodo successivo all’indipendenza. Le trasformazioni sociali generate da questo processo, il quadro internazionale di ascesa del continente afro-asiatico e di crisi dell’ordine euro-statunitense in cui esse si sono inserite non potevano, però, tardare a portare alla svolta a cui abbiamo assistito all’inizio del 2011.

Le aspirazioni borghesi e quelle proletarie.

Questo processo di integrazione subordinata nella mondializzazione capitalistica di cui, allo stesso tempo, ha rappresentato un’articolazione, ha favorito, soprattutto in Egitto, la crescita economica e, nello stesso tempo, ha tarpato le ali ad una diffusa aspirazione borghese di rilanciare  una politica di sviluppo nazionale autonomo, di agganciarsi all’onda lunga "asiatica", di superare la politica di Mubarak e Ben Ali integralmente sdraiata dinnanzi ai voleri delle potenze occidentali e profittevole solo per quella risicata fetta della borghesia locale strettamente connessa ai due regimi.

Questa aspirazione si è incarnata in un variegato mosaico sociale e politico: in un’ala delle forze armate, che in Egitto controllano direttamente e indirettamente una quota significativa del patrimonio industriale e finanziario del paese e che è diventata insofferente della piega presa dalle liberalizzazioni varate da Gamal Mubarak; in gruppi di imprenditori privati di varia formazione che comprendono anche capitalisti arricchiti in un primo momento all’ombra delle liberalizzazioni gestite da Gamal Mubarak e adesso desiderosi di essere sostenuti da una   politica statale non prona agli indirizzi del capitale internazionale per inserirsi profittevolmente nel favorevole quadro internazionale; in uno strato sociale, più vasto dei precedenti, composto da settori piccolo-borghesi, soprattutto giovanili e istruiti, che hanno visto tarpate le loro aspirazioni di promozione sociale, che non hanno potuto trovare una sistemazione stabile, come avveniva fino a qualche anno fa, nella pubblica amministrazione e  che sono stati respinti, anch’essi, nella precarietà o costretti all’emigrazione, magari nei dinamici paesi del Golfo dove hanno osservato che, all’ombra dello stato, si è formata una borghesia privata intraprendente e un ceto medio professionale, composto anche di immigrati, in rapido arricchimento.

Un sentimento di collera si è, parallelamente, fatto strada, sull’altro versante della società, nel proletariato e nella massa dei diseredati  delle città dell’Egitto, della Tunisia, dello Yemen. In virtù dell’estensione dei propri ranghi, della durezza della propria condizione e dell’osservazione di quanto stava accadendo intorno a loro, in altri paesi arabi e in altri paesi del Sud del mondo, anche i proletari hanno sentito di possedere la forza per partecipare in una posizione più dignitosa ai frutti della modernizzazione capitalistica in atto nei loro paesi. Gli scioperi pur locali ma determinati scoppiati dal 2005 in Egitto e in Tunisia (come anche nei paesi del Golfo con protagonisti i lavoratori immigrati dall’Asia) sono stati il tuono annunciante la tempesta in arrivo, l’imminente scesa in campo per agganciarsi, dal punto di vista proletario, all’onda lunga di ascesa in atto da anni in Asia, in Africa australe e in America Latina.

Di qui, la sedimentazione in seno alla massa della popolazione tunisina ed egiziana di un sentimento di umiliazione nazionale e sociale per essere rimasti indietro. Indietro anche rispetto ad alcuni paesi dell’Africa nera o allo stesso Sudan che si stanno dotando, con gli investimenti cinesi, di moderne infrastrutture. E ciò nonostante – si pensi all’Egitto – le grandi  potenzialità e il ruolo-guida svolto in passato nei massimi tentativi di "rinascita araba".

Regimi fradici

Queste aspirazioni non potevano certo trovar rappresentanza nelle ristrettissime elite militar-affaristiche raggruppate intorno a Mubarak e a Ben Ali e infeudate alle potenze occidentali. Sono state loro a gestire, in combutta con l’imperialismo, l’integrazione subordinata, sulla pelle dei rispettivi popoli, nel mercato mondializzato. Sono state loro a garantire con un regime militar-poliziesco spietato che questa integrazione avvenisse senza proteste, che fosse schiacciata ogni forma di sindacalismo indipendente dai governi e, tanto più, di organizzazione politica che avesse a riferimento le classi lavoratrici, a soffocare sul nascere anche le richieste ultra-moderate di gestione del potere meno vincolata al vantaggio esclusivo della cricca nelle stanze dei bottoni.

Ma proprio le istanze sociali suscitate dalla trasformazione economica e sociale avvenuta anche nel mondo arabo e il mix di aspirazioni e frustrazioni cresciuto più profondamente proprio nei paesi con un passato antimperialista glorioso come l’Egitto non potevano più essere mantenute silenti dai regimi militar-polizieschi come quello di Mubarak o di Ben Ali. Simili regimi possono essere efficaci solo in società dove vi è un esiguo proletariato, la massa della popolazione è costituita da contadini sparsi sul territorio e la borghesia è tanto esile da avere come prospettiva esclusivamente  quella di vivere dell’elemosina elargita dall’imperialismo come ricompensa per i suoi servigi resi a danno delle masse lavoratrici del paese e della regione. Le società egizianee tunisine non corrispondono più a questa situazione. Quando nel corso del 2010 i prezzi alimentari hanno ripreso a correre  (proprio per effetto della corsa dell’economia del Sud del mondo, del  monopolio esercitato dalle multinazionali occidentali nel settore e la riduzione dei prezzi controllati da parte dei governi arabi) la misura è diventata colma. È scattata una sollevazione capace di coinvolgere, per le ragioni indicate in precedenza, la (quasi) totalità della società, ma di cui è stato protagonista il proletariato industriale, risultato la classe sociale decisiva nel preparare il terreno allo sviluppo della mobilitazione popolare e nel dare le spallate necessarie per conseguire i primi successi. Per Egitto e Tunisia la cosa è lampante, e ne diamo nelle pagine seguenti ampia documentazione.

Ma è vero anche per l’Oman, dove la rivolta, con tanto di palazzi del governo dati alle fiamme, è scoppiata nella città industriale di Sohar, o per il Bahrein, la più proletarizzata delle monarchie del Golfo, sede della V Flotta statunitense. Si tratta anche qui di rivolte urbane. Anche quando non vedono numericamente determinante il proletariato moderno, sono animatee innervate dagli strati della popolazione più sfruttati e schiacciati delle zone suburbane delle città.

Il segno proletario sulla rivolta

Il proletariato industriale ha impresso il suo segno di classe all’intero moto popolare. L’ha fatto ponendo la piazza, la mobilitazione di massa come l’elemento centrale della protesta già con gli scioperi anticipatori di Mahalla al-Kubra in Egitto e di Gafsa in Tunisia (3). L’ha fatto portando dentro l’Intifada la sua spinta all’auto-organizzazione, alla creazione di organismi proletari e popolari, necessari per dare continuità e spina dorsale al movimento: comitati di sciopero, comitati popolari, comitatiper la difesa della rivoluzione (in Egitto), comitati di autodifesa, vettovagliamento e controllo operaio sui dirigenti corrotti (in Tunisia), comitati popolari per l’approvvigionamento e il servizio d’ordine a Manama (in Bahrein) e così via. L’ha fatto con l’intreccio tra la piazza e gli scioperi operai e degli altri settori del mondo del lavoro.

L’ha fatto, in special modo, con il ricorso, in Tunisia ed in Egitto, all’arma  dello sciopero generale politico, capace di paralizzare la produzione e l’amministrazione statale in quanto combina le richieste materiali immediate e particolari in fatto di salari, condizioni di lavoro, etc. proprie dei singoli settori con un obiettivo generale relativo agli assetti del potere e ai rapporti di forza tra le classi. L’ha fatto presentando ovunque la rivendicazione di sindacati indipendenti dagli stati. L’ha fatto aiutando i dimostranti più inesperti a non avere paura dello scontro con le forze della repressione e a capire che proprio l’attività di masse di oppressi e di sfruttati è la principale forza deterrente contro polizie ed eserciti, e rispetto ai progetti di restaurazione, a mezzo violenta repressione, dei regimi indeboliti e traballanti.

Non è un caso che Mubarak abbia deciso di abbandonare la scena e gli altri settori della classe dirigente egiziana come anche dell’amministrazione Obama lo abbiamo sollecitato ad abbandonarla quando i lavoratori egiziani stavano per entrare in sciopero con l’obiettivo politico di abbattere il regime. Ash’ab iurid isquat al-nizam, ovvero "il popolo vuole abbattere il regime" è stato per giorni e giorni lo slogan martellato dalle dimostrazioni egiziane fino alla caduta di Mubarak. Ma il dispotismo (istidbad) dei propri governi è stato nel mirino dei rivoltosi ovunque. E ovunque la richiesta che è salita dalle piazze è stata la caduta dei regimi, la creazione di Assemblee costituenti, o di nuove costituzioni, o di repubbliche al posto delle monarchie, la punizione degli assassini e dei torturatori di stato, la liberazione dei prigionieri politici, insomma nuovi assetti politici e statuali che portino il segno, in qualche maniera, delle aspettative e dei bisogni delle masse lavoratrici insorte, della loro volontà di non essere più alla mercé dei potentati interni ed internazionali, degli sfruttatori interni e internazionali che le stanno maciullando.

Primi risultati e prospettive

Abbiamo visto come, oltre al proletariato, siano stati direttamente  interessati alla cacciata dei governi di Mubarak e Ben Ali anche strati piccolo borghesi e borghesi tout court. Entrambi, a modo loro, hanno partecipato al moto popolare e sono stati loro, con le loro rappresentanze politiche e militari, a prendere in mano il potere.

Non contro la piazza e il volere delle masse lavoratrici ma con il consenso dell’una e delle altre. Che hanno sentito e accettato come proprio, nella loro larga maggioranza, l’avvio di una fase di transizione alla democrazia gestito in Tunisia da elementi borghesi non sporcati dalla collaborazione con Ben Ali (il cui partito è stato sciolto) e in Egitto da quella parte dell’esercito che, dimostrando un sentimento nazionale, ha rifiutato di macchiarsi del sangue dei rivoltosi e ha acconsentito a liquidare Mubarak. A favorire questo sbocco politico della sollevazione sono intervenute in entrambi i paesi le vecchie forze borghesi "islamiche" moderate di opposizione, Ennahda e i Fratelli mussulmani, sicché i nuovi governi di Tunisi e del Cairo sono ora impegnati, da un lato, a riportare la "normalità" sgombrando le piazze e, dall’altro, a dare in qualche modo soddisfazione, in politica interna e in politica internazionale, al movimento che li ha insediati.

Non poteva essere che così, per ragioni oggettive e soggettive insieme, interne ai due paesi e, soprattutto, internazionali. Gli strati borghesi hanno visto nell’esercito "non compromesso" un rappresentante degli interessi capitalistici nazionali in grado di contenere la spinta popolare e promuovere la transizione verso un moderato ed "ordinato" ammodernamento degli apparati statuali e delle istituzioni in modo da renderle più consone alle trasformazioni conosciute in questi anni dalle società egiziane e tunisine e di favorire, per tal via, uno sviluppo economico relativamente meno subalterno ai centri del grande capitale internazionale.

Su una prospettiva, al fondo, analoga di rilancio del progetto di sviluppo capitalistico nazionale entro l’ascesa del mondo arabo e del Sud del mondo hanno puntato e puntano anche le masse operaie e lavoratrici, con l’aspettativa di ricavarne (se necessario anche a suon di lotte, a cui garantire adeguati spazi con il riconoscimento dei diritti sindacali e politici negati sotto la dittatura di Mubarak) un deciso miglioramento delle proprie condizioni. È inevitabile che la crescita economica dei paesi emergenti e la sostanziale assenza, al momento, di un punto di vista anticapitalistico ed internazionalista nel mondo del lavoro mondiale spingano il proletariato di Egitto e Tunisia a riconoscersi in tale prospettiva e, quindi, in ultima analisi, a confidare (sia pur in modo guardingo) nelle forze politiche borghesi che se ne fanno promotrici.

Anziché chiudere lo scontro, però, tale sbocco ne apre un nuovo capitolo, ponendo un problema decisivo, da cui, per noi comunisti, potrà nascere la dislocazione di primi nuclei proletari oltre la prospettiva nazionale borghese: le diverse classi sociali hanno diverse aspettative e danno diverse interpretazioni allo stesso programma.

Per la borghesia e l’esercito, si tratta, innanzitutto, di far rafforzare il processo di accumulazione capitalistico nazionale e di conquistare un qualche spazio sui mercati internazionali mantenendo e riattivando nel modo più pacifico possibile i rapporti con il capitale globale, seppur con alcune modifiche rispetto a quelli dell’epoca della "umiliazione". A tal fine, occorre che le piazze e le strade si svuotino, che gli operai smettano di "pensare alla politica" e tornino supinamente al lavoro. La storia delle rivoluzioni nei paesi dominati dall’imperialismo ci insegna che, per raggiungere un simile obiettivo, la borghesia nazionale, in caso di emergenza, sarebbe disposta anche a venire a patti con le deposte forze del "vecchio" regime. Per le masse lavoratrici delle città e delle campagne, invece, si tratta di vedere soddisfatte almeno alcune delle loro principali rivendicazioni portate in piazza e di poterle, eventualmente, sostenere nel nuovo quadro politico di nuovo con i mezzi della lotta di classe usati contro Mubarak.

Verso l’autonomia di classe

Uno dei primi compiti che si pone alla parte più combattiva e consapevole del proletariato tunisino ed egiziano è prendere atto del fatto che l’Intifada araba ha contenuto e contiene in sé interessi di classe diversi e divaricanti e una vera e propria lotta di classe. Di fronte a ciò e dato l’attuale contesto politico ed economico mondiale, il proletariato di questi paesi deve attrezzarsi ad una guerra di posizione.

Puntando innanzitutto a preservare e rafforzare la propria capacità di lotta e resistenza, e a demarcare e separare sempre più nettamente la sua organizzazione e la sua prospettiva politica e sindacale da quelle di tutte le forze borghesi e "nazionali", senza concedere alcuna cambiale in bianco agli esecutivi provvisori insediati a Il Cairo e a Tunisi. Per il proletariato tunisino ed egiziano (e non solo) ciò significa, e qua e là già avviene, continuare e rilanciare la lotta sugli obiettivi parziali più importanti che la sollevazione si è data, dalla ripulitura degli apparati statali, dal controllo degli operai e dei salariati sulla attività dei dirigenti dello stato alla introduzione di un salario minimo e decente garantito per tutti i lavoratori, dalla trasformazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato alla piena libertà di organizzazione e sciopero per tutti i settori del mondo del lavoro (come del resto sta avvenendo in Egitto dove sono stati creati 21 sindacati indipendenti, tra cui un sindacato dei contadini e uno dei pescatori, e in Tunisia con la lotta per il profondo rinnovamento, a partire dal basso, dell’Ugtt). Significa porsi con la massima nettezza il tema dell’unità tra sfruttati e oppressi di fede islamica, di fede cristiana e non religiosi, opponendosi con forza ad ogni tentativo di spingere in primo piano la "questione religiosa" come arma fondamentale di divisione e di contrapposizione fratricida. Significa stringere ancor più strettamente tra loro le rivendicazioni politiche e quelle economiche, rivendicazioni operaie, rivendicazioni contadine, rivendicazioni giovanili, rivendicazioni femminili nella prospettiva della necessaria scomposizione del movimento popolare così come si è dato finora, e della costituzione di un fronte unico degli sfruttati e degli oppressi.

Per far ciò bisogna puntare su quello che è stato il più grande e più importante risultato di questi mesi: la conquista della fiducia nella lotta, nella propria forza e nella propria organizzazione. Conquista, questa, che non è restata confinata all’Egitto ed alla Tunisia, ma vive anche là dove i satrapi, i re, gli autocrati, dal Bahrein al Marocco, sono tutti al loro posto, nonostante i bagni di sangue. Anche in questi casi l’Intifada ha ottenuto il grande risultato di rimettere in moto masse di proletari e di oppressi, di riportarle attivamente nello scontro di classe con i "propri" poteri oppressivi. La prosecuzione della battaglia intrapresa richiede, infine, che si affronti, senza ritardi, l’articolata controffensiva che l’imperialismo sta mettendo in campo e di cui la guerra contro la principali. sfruttati arabi hanno lanciato, almeno idealmente, un vibrante messaggio di lotta, di riscatto all’intero mondo degli sfruttati e rafforzato l’orgoglio dei lavoratori del Sud del mondo verso le grinfie dell’Occidente. Perché i nuovi governi in sella a Tunisi e al Cairo non potranno ripercorrere tal quale la politica di Ben Ali e Mubarak e neppure lo vogliono: il sommovimento avvenuto e l’indebolimento dell’attuale cupola mondiale dell’imperialismo danno loro dei maggiori margini di autonomia, e su questi margini intendono operare per tentare di far quadrare il cerchio, cioè dare respiro al proprio capitale nazionale e (un po’, anche) ai propri popoli senza però entrare in rotta di collisione con i super-dittatori del mondo e senza incoraggiare troppo le "pretese" dei lavoratori.

Le cancellerie imperialiste (spesso divise su tante questioni) sono unanimi: l’Occidente non può accettare una simile svolta nella politica araba e mondiale, non può perdere la presa su questa zona strategica del mondo, deve anzi impegnarsi al massimo per recuperare il terreno perduto. E l’Occidente non è, infatti, rimasto con le mani in mano. La repressione in Bahrein, in Oman, nello Yemen è avvenuta sotto la loro guida. I loro consiglieri diplomatici e militari sono disseminati ovunque nel mondo arabo ad immancabile difesa dello status quo. Hanno ordito con arte l’aggressione alla Libia per portare a casa, con il cambio della dipre.

Non rimanere indifferenti all’aggressione alla Libia !

Suscitata dalle stesse forze motrici oggettive che hanno incrinato la stabilità dell’ordine imperialista a guida statunitense, la grande sollevazione degli scorsi mesi ha, a sua volta, assestato un ulteriore colpo a questo ordine. Perché ha buttato giù due regimi, in Egitto e in Tunisia, che svolgevano il ruolo di baluardi degli interessi imperialisti nella regione. Perché, soprattutto, le eroiche battaglie degli rezione del paese, vantaggi ancor più grandi di quelli imposti nell’ultimo decennio alla Libia di Gheddafi, per riassegnare al paese (se ne osservi la collocazione geografica di cuneo) il ruolo che esso aveva prima della rivoluzione nazionale del 1969 (quello di testa di ponte militare occidentale contro i popoli dell’Africa del Nord), per lanciare anche dalla Libia (dopo la pilotata secessione del Sudan meridionale) la politica di contenimento e accerchiamento della presenza cinese in Africa.

Per questo, l’organizzazione della lotta contro l’aggressione Onu e Nato alla Libia è una vitale necessità per il proletariato arabo, innanzitutto per quello egiziano e tunisino. In gioco non è la difesa o meno della dirigenza di Gheddafi, ma la salvaguardia e l’allargamento all’intero mondo arabo del cammino per il riscatto nazionale e sociale intrapreso in Egitto e in Tunisia. L’esigenza di proiettarsi oltre i confini dell’Egitto è percepita dalla parte più militante della sollevazione, come dimostra la sua battaglia per porre tra le rivendicazioni della piazza la revoca dei trattati politici siglati con Israele, la fine degli accordi che attribuiscono a Israele vantaggi economici speciali, la riapertura del passaggio per Gaza e il riconoscimento del diritto al ritorno per tutti i palestinesi. La solidarietà con la lotta del popolo palestinese è un’iniziativa di enorme importanza politica, ma ad essa deve affiancarsi un’energica iniziativa in difesa della popolazione libica dai piani e dagli attacchi dei colonialisti di sempre.

 Tanto più che la controffensiva dell’imperialismo, come dimostra il contrasto emerso tra l’amministrazione Obama e il governo israeliano, non è basato solo sulla repressione e sull’intervento militare. C’è anche il tentativo, soprattutto nell’amministrazione Obama, di modificare le forme della propria dominazione e di riconsolidarla attraverso la costruzione di un rapporto di egemonia con strati della popolazione araba più ampi delle élites disarcionate. Siamo, infatti, ad un trapasso della storia. L’Intifada araba ha fatto emergere ancor più esplicitamente che l’Occidente non può continuare ad esercitare il dominio sul Sud del mondo attraverso le relazioni di potere tradizionali, quelle strutturare dopo la seconda guerra mondiale in sostituzione delle forme stabilite nei decenni e nei secoli precedenti e diventate incoerenti e inefficaci per le trasformazioni sociali intervenute a cavallo della seconda guerra mondiale.

Come nell’immediato secondo dopoguerra il mantenimento dell’oppressione di un pugno di stati e di popoli sull’Asia, sull’Africa e sull’America Latina è dovuto passare dagli strumenti del colonialismo classico a quelli del neocolonialismo termo-nucleare, così l’imperialismo si trova davanti ad una sfida analoga. A differenza di quanto avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, quando, per un concorso di circostante, tra le quali lo stadio primitivo dell’accumulazione capitalistica e della formazione delle moderne classi sociali nel Sud del mondo, oggi l’operazione gattopardesca risulta molto, molto più complicata e, in ogni caso, impossibile senza una nuova epoca di colossali sconvolgimenti sociali, economici e militari nel mondo intero. Più complicata perché, allora, l’Occidente capitalistico aveva in mano il monopolio delle leve della produzione della ricchezza sociale su basi capitalistiche. Oggi, anche grazie a quelle epiche guerre di liberazione nazionale e, pur contraddittoriamente, alla mondializzazione degli ultimi trent’anni, questo monopolio è colpito.

La lunga marcia degli sfruttati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, pur dietro a bandiere nazionali borghesi, sta compiendo un altro balzo in avanti. E ad andare avanti con essa è la lunga marcia di liberazione dalle catene dello sfruttamento capitalistico di tutto il proletariato mondiale.

E noi qui?

In che modo possiamo aggiungere dei legnetti, qui in Italia e in Occidente, a questo fuoco che arde? Cominciando ad apprendere e a socializzare la lezione fondamentale che proprio da quel mondo arabo dipinto come impaurito, passivo, indolente, ci sta venendo: il cerchio della paura e della passività che anche qui ci attanaglia, può essere spezzato; solo con la lotta e la mobilitazione di massa, prendendo nelle nostre mani la nostra sorte, possiamo, come lavoratori, affermare e imporre le nostre necessità.

Mostrando che le forze di classe contro cui si batte l’Intifada araba, e in particolare i proletari arabi, non sono solo i loro governi militari, le loro monarchie, i loro sfruttatori locali; sono pure le banche, i governi, le multinazionali, i padroni italiani e occidentali, il capitale globale, che attaccano anche noi da decenni per toglierci tutto ciò che avevamo conquistato, disorganizzarci totalmente, ridurci all’impotenza; e dunque che la "loro" lotta, finalmente una lotta d’attacco!, indebolisce i nostri nemici, anche impedendogli il pieno uso dell’arma di ricatto di una forzalavoro super-sfruttata "alle porte di casa" – che la "loro" lotta è perciò a tutti gli effetti la nostra lotta.

Battendoci, ne parliamo a pag. 9, contro la criminale guerra verso Tripoli e contro l’articolata controffensiva progettata e in corso di attuazione da parte delle potenze imperialiste.

Note

(1) Sul piano quinquennale varato di recente in Algeria vedi l’articolo pubblicato su il Sole24ore del 20 dicembre 2010.

(2) L’Egitto importa il 50% dei cereali consumati nel paese.

(3) Per le notizie su tali lotte rimandiamo ai documenti presenti da tempo sul nostro sito.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

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