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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

La grande Intifada araba scuote il mondo intero.

Contro l’aggressione occidentale alla Libia!

In soccorso di quale "primavera libica" sono partiti l’Onu, i bombardieri e i mezzi d’informazione delle potenze capitalistiche d’Occidente?

Mentre scriviamo i cacciabombardieri italiani, francesi, britannici continuano a sganciare i loro missili all’uranio impoverito su Tripoli. Come abbiamo denunciato nei nostri interventi, tra cui il volantino che riportiamo in ultima pagina, questa aggressione lanciata dall’Onu e dalle potenze imperialiste non ha nulla di umanitario. È un’altra guerra di oppressione e di rapina neo-coloniale. Come successo altre volte in passato, i governi occidentali stanno cercando di mascherare le fetide finalità di questa aggressione con una gigantesca mistificazione propagandistica.

Secondo questa propaganda, i governi europei si sarebbero mossi per permettere alla popolazione lavoratrice araba, dopo la vittoria da essa riportata in Tunisia e in Egitto con la cacciata di Ben Ali e Mubarak, di riportare la vittoria anche in Libia contro Gheddafi. A sentire questo ritornello, anche la Libia sarebbe stata percorsa da un moto popolare di segno sociale analogo a quello che ha cacciato Mubarak e Ben Ali. A differenza di quanto accaduto in Egitto e in Tunisia, però, le forze armate della Libia, sempre a sentire la canzone ufficiale, non si sarebbero schierate con i manifestanti ma contro di essi. Da qui, la risoluzione dell’Onu, con l’obiettivo di impedire le stragi che, sempre secondo la propaganda ufficiale, le forze armate libiche si accingevano a compiere e di difendere la primavera araba anche in Libia.

Questa ricostruzione è una colossale menzogna (1), tessuta ad arte per conquistare il silenzio o il consenso dei lavoratori europei e dei popoli egiziano e tunisino ad un intervento militare in Libia e nell’Africa settentrionale rivolto, al fondo, contro gli uni e contro gli altri. Anche questa volta, come accaduto in passato (2), anche recente, crediamo che uno dei migliori anticorpi al bombardamento mediatico  sia quello di sottrarsi all’overdose di notizie dell’ultimora e dei "servizi in diretta" e di ritornarvi, per decifrarli, solo dopo essersi soffermati, con uno sforzo di studio e discussione collettivo, sulle premesse storiche della situazione attuale. Le considerazioni preliminari sulla recente storia della Libia svolte nell’articolo che segue intendono offrire uno spunto in questa direzione.

La rivoluzione anti-imperialista del 1969

La prima considerazione ruota attorno ad un fatto di fondamentale importanza che, tuttavia, soprattutto in Italia, è avvolto nell’oblìo: la Libia nel mirino dell’Onu e dei missili all’uranio impoverito nasce nel 1969 da un moto popolare simile a quello che, nel 1952, aveva seppellito in Egitto la monarchia di re Faruk asservita alle potenze occidentali. Ad essere buttata giù, in Libia, è una monarchia che la Gran Bretagna e le potenze occidentali avevano messo in piedi dopo la seconda guerra mondiale al posto dell’infernale dominio coloniale esercitato sul paese direttamente da una di esse, l’Italia. A cadere è un protettorato occidentale, alla cui testa vi sono cricche di proprietari terrieri e professionisti cresciuti all’ombra del colonialismo italiano e divisi per appartenenze claniche e regionali, che svolge un ruolo di primo piano nella risposta dell’imperialismo all’incandescente risveglio delle genti di colore che scuote il mondo arabo, l’Asia e l’Africa. A buttare giù la monarchia di re Idris, denunciata, del tutto a proposito, dalle piazze effervescenti del Cairo, di Beirut, di Baghdad come il cavallo di troia imperialista contro le lotte e le aspirazioni dei popoli arabi, fu un moto popolare rivolto contro l’ordine sociale e politico dominante in Libia e proteso a confluire nel più ampio moto antimperialista in atto nell’area. Ne furono protagonisti non solo i giovani ufficiali delle forze armate, ma anche i lavoratori urbani cresciuti di numero anche in Libia in pochi anni dopo la scoperta del petrolio avvenuta nel 1961.

Il moto popolare libico e la direzione di esso, incarnata nel colonnello Gheddafi, non si limitarono ad abbattere la monarchia tribale ed eterodiretta di re Idris. Sull’onda di questa vittoria, essi realizzarono significativi cambiamenti entro i confini libici e nello scontro politico mondiale: cacciarono le basi militari che gli Usa e la Gran Bretagna avevano ampliato o installato in Libia proprio dopo (e contro) la vittoria dei Giovani Ufficiali nasseriani in Egitto; imposero alle multinazionali un aumento della quota che queste ultime dovevano versare al governo libico per lo sfruttamento del petrolio del paese; espropriarono ed espulsero le decine e decine di migliaia di coloni italiani installatisi in Libia durante il periodo fascista e proprietari di aziende agricole e industriali (3); assegnarono una parte delle proprietà ai contadini poveri libici; destinarono i ricavi ottenuti dalla vendita del petrolio all’avvio di un programma di sviluppo e diversificazione dell’economia (con investimenti in campo petrolchimico, metallurgico, meccanico), all’alfabetizzazione e all’istruzione di massa della popolazione, alla costruzione di servizi sanitari, allo sviluppo di sistemi di irrigazione per modernizzare l’agricoltura del paese e aumentare la quota del fabbisogno alimentare fornito da essa; cercarono di opporsi alla parabola controrivoluzionaria con cui la direzione della repubblica egiziana stava cadendo, con Sadat, nella braccia dell’imperialismo e di Israele. Non va sottovalutato, infine, il valore del tentativo della direzione nazional-borghese libica di organizzare lo stato sulla base di istituzioni in grado di favorire la partecipazione popolare alla gestione politica del paese (Jamahirya) più delle regole astratte della democrazia formale. La realizzazione di questo articolato programma nazional-borghese avviato dalla direzione della rivoluzione libica non si scontrò solo con le manovre imperialiste. Essa dovette fare i conti anche con un arco di forze sociali interne: da un lato, quelle dei notabili locali aggrappati ai tradizionali legami tribali; dall’altro lato, quelle legate alle attività capitalistiche private (circa 40 mila imprese) che mal digerirono la direzione statalista intrapresa dalla politica economica del governo e che la direzione della Jamahirya cercò di neutralizzare con varie misure economiche e politiche, tra le quali la progressiva introduzione del commercio e della distribuzione statale delle merci, l’assegnazione della direzione delle imprese private ai comitati di produzione costituiti da gruppi scelti di lavoratori, la requisizione delle case sfitte ( e anche affittate) dalle mani dei proprietari e l’assegnazione di esse alle famiglie con redditi più bassi, l’eliminazione della libera professione, la sostituzione della valuta che obbligò tutti i libici a dichiarare i propri beni e a cambiare i liquidi posseduti nei nuovi dinari.

In pochi anni, in Libia la scena sociale cambiò profondamente. Non solo per l’espulsione delle cavallette occidentali e per la fuga degli strati rivilegiati libici (la cui diaspora è diventato uno dei vivai dell’attuale opposizione di Bengasi), ma soprattutto per l’erosione delle strutture patriarcali e claniche su cui le potenze imperialiste si erano appoggiate nella loro politica di oppressione. L’Occidente capitalista è stato così premuroso verso il progresso del popolo libico che, dopo qualche anno di cautela, agli inizi degli anni ottanta, in continuità con la vivisezione del paese esercitata, innanzitutto per mano italiana, prima del 1969 (3), lanciarono una spietata controffensiva contro la rivoluzione antimperialista in Libia. L’affondo era strettamente legato all’aggressione che le potenze occidentali scatenarono in quel periodo contro l’intero mondo araboislamico (con la guerra per interposta persona - tramite l’Iraq - contro l’Iran, con l’abbassamento del prezzo del petrolio, con l’aumento dei tassi di interesse) e all’attacco che esse rivolsero parallelamente contro i lavoratori in Europa. Alla Libia di Gheddafi fu riservata, però, una cura del tutto particolare.

A dare il via alla crociata furono gli Usa di Reagan, con i bombardamenti del 1986 e l’introduzione delle sanzioni unilaterali. Seguirono le sanzioni multilaterali varate dall’Onu, questo covo di briganti, nel 1992 sospese solo nel 1999-2000. Arriviamo, così, al secondo elemento che va ricordato per comprendere quello che è accaduto di recente in Libia. Non sarà mai eccessivo il tempo dedicato a riflettere sulle conseguenze di questa aggressione non solo in termini di vite umane immediatamente messe in gioco ma anche in termini di sviluppi storici a più lunga scadenza.

Lo strangolatorio embargo sotto la bandiera dell’Onu

A causa delle sanzioni, la Libia cominciò ad avere difficoltà ad acquistare i pezzi di ricambio e le attrezzature per la sua abbastanza avanzata industria petrolchimica. Quelli che riusciva a racimolare, li comprava sul mercato nero a prezzi esorbitanti. Il blocco delle esportazioni, le difficoltà di manutenzione e di ammodernamento dell’industria estrattiva, il crollo dei prezzi petroliferi indotto con varie misure dall’Occidente causarono il crollo degli introiti petroliferi.

I piani di sviluppo agricolo e industriale della Libia furono quasi paralizzati. Si ridusse o si interruppe del tutto lo sviluppo delle forze armate, mentre gli "amici" dei popoli arabi, le potenze occidentali, continuavano a destinare miliardi di dollari ai propri bilanci militari e a vendere armi di ogni tipo ai loro burattini locali come Mubarak. L’inflazione decollò. Nel periodo delle sanzioni l’economia libica crebbe meno dell’1% l’anno.

Il tenore di vita della gente, cresciuto ininterrottamente dal 1969, subì una battuta d’arresto. Fece la sua comparsa la disoccupazione giovanile. Sottoposta alla cura riservata a Cuba dagli anni sessanta e minacciata dagli anni sessanta e minacciata di essere riportata, come l’Iraq di Saddam Hussein, all’età della pietra, la direzione della repubblica libica, alla fine del XX secolo, cedette, in parte, alle pressioni dell’imperialismo: diede il suo aiuto alla "coalizione dei volenterosi" nella seconda guerra all’Iraq; accettò di ergersi a cane da guardia contro i lavoratori immigrati dall’Africa verso l’Europa, divenendo complice nella politica di divisione dei popoli africani portata avanti da sempre dall’Occidente; aprì le porte del mercato interno alle multinazionali del petrolio, agli investitori occidentali e ai ceti borghesi libici costituiti da professionisti, commercianti e imprenditori, spesso ritornati dall’Europa e dai paesi vicini dove erano espatriati negli anni precedenti.

La direzione dello stato libico non cedette, tuttavia, nella misura richiesta dalle potenze imperialiste e dai meschini appetiti borghesi locali. Lo fece, invece, con l’intenzione di prendere fiato e riaprire in prospettiva, pur in un quadro moderato sul piano politico  internazionale, il rafforzamento dello sviluppo capitalistico libico. Il governo libico e la direzione dello stato hanno, infatti, cercato di procedere gradualmente con le liberalizzazioni. Si sono preoccupati di mantenere nelle mani dell’apparato statale, forza economica concentrata, il controllo delle leve fondamentali delle decisioni politiche e dei flussi finanziari e, anzi, di rafforzarle con la creazione di un fondo sovrano libico pari a 150 miliardi di dollari. (Che le banche occidentali hanno, da marzo, congelato per trasferirlo nelle mani del Cnt di Bengasi!) Anche in politica estera, Gheddafi ha accompagnato la collusione con l’imperialismo nell’infame guerra all’Iraq e nell’altrettanto infame gestione dell’emigrazione dall’Africa verso l’Europa, con il tentativo di mantenere spazi autonomi di manovra in Africa, dove, soprattutto negli ultimi anni, forte del sostenuto sviluppo economico libico, ha tessuto un fronte di stati alleati per portare avanti una politica economica meno succube agli interessi neocoloniali europei, più aperta alla Cina e al suo "modello di aiuto" ai popoli africani(4).

Negli stessi anni, dagli inizi del XXI secolo al 2010, l’imperialismo ha giocato, in senso opposto, una partita simmetrica.

Ha cercato di utilizzare le politiche di liberalizzazione per rimettere i piedi in Libia, ricominciare a farvi affari e mettersi a coltivare un suo vivaio indigeno. Le potenze imperialiste hanno occhieggiato alla rinascita dei ceti imprenditoriali e professionali privati libici e hanno puntato su di essi, come sponda sociale, oltre che su alcuni alti papaveri dell’apparato statale, per far saltare, alla distanza, la blindatura dell’economia e delle forze armate libiche incarnata da Gheddafi.

Non va giù, ad esempio, alle multinazionali e ai governi occidentali l’alta quota, fino al 90% dei proventi, che il governo libico impone di versare nelle proprie casse sulle vendite di petrolio (5)! Non va giù che gli investimenti debbano, in ogni caso, subire il controllo della direzione statale!

Non va giù che Gheddafi continui a tessere una sua tela per lo sviluppo capitalistico africano non suddita alle esigenze degli imperialisti occidentali e che il suo fondo sovrano di 150 miliardi di dollari sia investito (negli Usa, in Gran Bretagna ed Europa) secondo finalità non del tutto rispondenti a quelle del capitale imperialista.

Ci vuole, sussurrano nelle capitali occidentali, più libertà nella gestione del potere, così da permettere agli scalpitanti rappresentanti dell’imprenditoria capitalistica privata libica e agli esponenti moderati della classe dirigente libica di prendere in mano il volante della macchina  statale, allentare i freni di Gheddafi e consegnare il paese ai veri dittatori del mondo.

Già due volte, dal 1969, vi era stato uno scontro su questa linea di demarcazione nel gruppo dirigente libico. Per due volte, l’ala nazionalista aveva riportato la vittoria, con l’inevitabile coda di esponenti della nomenclatura messi da parte, incarcerati o invitati all’emigrazione. Questa volta l’imperialismo sente di arrivare alla resa dei conti in condizioni meno sfavorevoli e si prepara a sfruttare le occasioni che le avrebbe, prima o poi, offerto lo sviluppo degli avvenimenti interni e internazionali. L’attesa resa dei conti arriva agli inizi del 2011.

Piegare Tripoli completamente

Il sostenuto sviluppo economico dei sette anni precedenti, che fanno diventare la Libia un cantiere in cui fervono intraprese industriali (6); il parallelo e contrastante rafforzamento economico e politico, da un lato, dello stato libico e, dall’altro, degli strati borghesi accumulatori privati smaniosi della completa liberalizzazione; l’urgenza per i capitalisti occidentali di trovare un nuovo pugnale, dopo la caduta di Mubarak e Ben Ali, puntato contro il mondo del lavoro arabo e africano; il pericolo per gli interessi delle potenze occidentali costituito dai progressi compiuti dal lavorìo portato avanti da Gheddafi in Africa; il rafforzamento degli accordi tra la Libia e la Cina; la ricalibratura in senso dirigista e "nazional-popolare" compiuta dalla politica di Gheddafi nel 2009-2010 (7): queste e altre circostanze annodate insieme da un corso degli avvenimenti nient’affatto favorevole al dominio occidentale sul mondo spingono l’imperialismo, nel gennaio-febbraio 2011, alla conclusione che è giunto il momento di far partire, dopo quello delle sanzioni e quello della melina, il terzo capitolo dell’aggressione alla Libia con quattro obiettivi fondamentali: 1) stabilire una piattaforma militare in Libia dopo il crollo dei burattini agli ordini dell’Occidente in Tunisia ed Egitto; 2) intimorire ed arginare preventivamente i moti popolari sviluppatisi al Cairo e a Tunisi; 3) affondare il tentativo di Gheddafi di portare avanti il piano di sviluppo intrapreso nel paese e in Africa; 4) contenere, accerchiare e respingere la penetrazione cinese in Africa.

Ecco allora scattare la macchina propagandistica dell’Occidente mirante a far credere che nella Libia orientale sia in corso una sollevazione popolare simile a quella egiziana e tunisina, e a presentare l’intervento occidentale e onuista come un aiuto a tale moto popolare (8). Intanto le diplomazie occidentali incoraggiano, dirigono e danno spago alla cosiddetta "opposizione di Bengasi", un variegato fronte composto da gruppi di fuoriusciti (sono loro a convocare via internet la "giornata di protesta" del 17 febbraio), da frange dell’apparato statale, dalla congerie di  professionisti e di ceti medi accumulatori ritornati in Libia dall’estero o cresciuti ex-novo negli ultimi anni, in combutta, da mesi, con l’Occidente per buttare a mare ciò che resta, anche per effetto del mantenimento dell’esercizio monopolistico del potere, del controllo sullo sviluppo e sulla difesa del paese dalla totale ingerenza dell’Europa e degli Usa.

"Noi vogliamo libertà", rivendicano questi settori sociali. Già, la libertà di mettere a frutto per i vostri traffici (senza i lacci che ancora permangono nei gangli vitali della repubblica libica) la manodopera (libica e soprattutto immigrata) e il petrolio che la Libia controlla, svendendoli (e svendendovi) all’imperialismo. La libertà di disporre degli spazi di manovra politici per buttare a mare (senza finire in carcere per mene anti-nazionali come è successo negli ultimi decenni a molti esponenti di questa genìa) i margini di autonomia dalle grinfie dell’Occidente che ancora mantiene la politica di Gheddafi. La libertà, ovviamente, di conservare, però, quei lacci così proficui per i vostri affari che egli ha contribuito a stabilire sul popolo della Libia e sugli sfruttati dell’Africa, come ad esempio le leggi sull’immigrazione e sul trattamento dei quasi due milioni di lavoratoriimmigrati nelle imprese libiche, a cui, semmai, ritenete si riservi una condizione sin troppo libera...

La promessa lanciata da avvocati e imprenditori "amanti della libertà" di una ricaduta positiva di una simile "liberazione" su tutta la popolazione libica ha trovato o potrà trovare, incoraggiata dai bombardamenti di Tripoli, una qualche eco nella massa popolare di Bengasi e dell’area circostante? Non escludiamo in assoluto una cosa del genere. In ogni caso, e questo è il punto cruciale, il segno sociale e politico di tale mobilitazione è ben diverso da quello dominante nelle piazze egiziane e tunisine. L’invocazione dei bombardieri della Nato, gli accordi di svendita all’Occidente delle finanze e del petrolio del paese, la promessa di mantenere e, semmai, rafforzare la cappa di piombo sui lavoratori immigrati presenti in Libia e altre "richieste di libertà" del genere ne sono una prova lampante.

Il nostro antimperialismo

Sentiamo già la obiezione: "Ma così sostenete Gheddafi, così dimenticate la politica antiproletaria che il leader della Libia ha portato avanti negli ultimi anni, soprattutto nei rapporti con i lavoratori dell’Africa, accettando di fare della Libia un tassello del congegno del razzismo di stato dell’Occidente!" Niente affatto.

 Primo. Non abbiamo mai sostenuto la rivoluzione antimperialista in Libia attraverso il sostegno della sua direzione borghese. Anche quando essa ebbe l’ardire di sfidare l’imperialismo, il nostro sostegno incondizionato ha mirato a favorire lo svincolamento della resistenza del popolo libico e dei popoli arabi dalla prospettiva dell’antimperialismo borghese, geneticamente incapace di condurre una vera guerra all’oppressione del capitale occidentale e destinato inevitabilmente a giungere a patti con esso, verso quella dell’antimperialismo internazionalista (9). Non abbiamo gridato, quindi, ad alcun tradimento, quando Gheddafi si è accordato con le potenze occidentali sulla pelle degli stessi popoli arabi e africani. Ci siamo, invece, battuti, erano gli anni dell’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan, per contrastare gli effetti della svolta della politica libica sulla resistenza delle masse lavoratrici al dominio imperialista. Lo abbiamo fatto, battendoci, innanzitutto, per spezzare l’isolamento in cui tale resistenza era (ed è) lasciata dai lavoratori occidentali, individuando in questo isolamento e nella sudditanza all’imperialismo imperante nella gran parte della sinistra europea ed internazionale (10) le cause principali dell’arretramento politico registrato in Libia, sottolineando quanto le sanzioni e le manovre portate avanti dall’Italia e dagli altri paesi imperialisti fossero dirette a costringere i lavoratori libici, prima ancora che Gheddafi, a cercare scampo dalla furia imperialista trasformandosi in suoi ascari.

Secondo. La lotta contro la parabola della politica di Gheddafi e per il rilancio della rivoluzione antimperialista nella stessa Libia ha bisogno della demistificazione dei veri interessi sociali, interni alla Libia ed internazionali, che si nascondono dietro le rivendicazioni democratiche oggi innalzate in Libia. Proprio perché riteniamo che la conquista di spazi di agibilità sindacale e politica sia un momento vitale della rivoluzione antimperialista nel mondo arabo, Libia compresa, proprio perché ci battiamo, ad esempio, contro la complicità di Gheddafi con le potenze imperialiste nella politica razzista contro i lavoratori immigrati in Europa, denunciamo che l’"opposizione di Bengasi", quand’anche sostenuta popolarmente, va nella direzione opposta!

La ripresa del movimento antimperialista anche all’interno della Libia, la lotta dall’interno del paese contro gli accordi infami siglati da Gheddafi con l’imperialismo, la tessitura di una politica di affratellamento tra le varie componenti, al momento divise e gerarchizzate, del mondo del lavoro in Libia passano per la lotta netta contro l’aggressione occidentale al paese, passano per la lotta altrettanto netta contro gli addentellati politici e sociali che questa aggressione ha all’interno della Libia, passano per la formazione in Libia di un nucleo di militanti antimperialisti autonomi dallo schieramento imperialista, dai suoi cavalli di troia autoctoni e dai loro fetidi programmi. A tanto non si potrà giungere senza che i lavoratori dell’Occidente e la vera Intifada in atto in Egitto, in Tunisia, in Palestina, in Bahrein si smarchino dalla posizione suicida di attesa o di indifferenza dalla quale stanno assistenza alla tragedia libica, e senza che un nucleo di proletari, qui e lì, si organizzi dietrola bandiera dell’antimperialismo internazionalista.

Note

(1) Anche stavolta, come già accaduto nella preparazione propagandistica delle aggressioni alla "ex"-Jugoslavia e all’Iraq, il porno-giornalismo al servizio dei dittatori imperialisti ci ha abbuffati con notizie inventate di sana pianta, come ad esempio quella delle fossi comuni...

(2) Emblematica è per noi la vicenda della guerra nella "ex"-Jugoslavia.

 (3) Si veda la scheda sul nostro sito tratta dal libro di A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Bari, 1991.

(4) Come racconta Dinucci sul manifesto del 22 aprile 2011, la Libia ha creato negli ultimi anni tre organismi finanziari africani, la Banca africana di investimento (con sede a Tripoli), la Banca centrale africana (con sede a Abuja in Nigeria) e il Fondo monetario africano (con se a Yaoundré in Camerun), per favorire lo sganciamento dei paesi africani dalla dipendenza dal Fmi e quelli dell’Africa centrale dalla moneta agganciata al franco francese che Parigi è riuscita ad imporre alle sue ex-colonie.

(5) Ne ha parlato anche il Wall Street Journal, come riferisce il manifesto del 2 maggio 2011: "Dopo l’abolizione delle sanzioni nel 2003, le compagnie petrolifere occidentali sono affluite in Libia con grandi aspettative, ma sono rimaste deluse. Il governo libico, in base a un sistema noto come Epsa-4, concedeva le licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciavano alla compagnia statale libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del petrolio estratto: data la forte competizione, arrivava a circa il 90%. ‘I contratti Epsa-4 erano quelli che, a scala mondiale, contenevano i termini più duri per le compagnie petrolifere’,  dice Bob Fryklund, già presidente della statunitense ConocoPhillips in Libia. Appare così chiaro perché, con un’operazione decisa non a Bengasi ma a Londra, Parigi e Washington, il consiglio nazionale di transizione di Bengasi abbia creato la ‘Libyan Oil Company’: un involucro vuoto, tipo società chiavi in mano per investitori nei paradisi fiscali. Essa è destinata a sostituire la Noc, quando ‘i volenterosi’ avranno preso il controllo delle zone petrolifere. Il suo compito sarà di concedere licenze a condizioni estremamente favorevoli per le compagnie britanniche, francesi e statunitensi. Verrebbero penalizzate, invece, le compagnie che, prima della guerra, erano le principali produttrici di petrolio in Libia: anzitutto l’Eni, che nel 2007 ha pagato un miliardo di dollari per assicurarsi concessioni fino al 2042, e la tedesca Wintershall al secondo posto. Ancora più penalizzate le compagnie russe e cinesi".

(6) I tassi di crescita, al netto dell’inflazione, sono stati: +5.9 nel 2006, +6.0 nel 2007, + 2.8 nel 2008, -1.6 nel 2009, + 10.3 nel 2010, con un settore privato in crescita del 6% anche nel 2009. In cinque anni dal 2006 al 2010 il prodotto interno è cresciuto in Libia del 25%.

(7) Nel 2010 il governo libico ha aumentato la spesa per gli investimenti pubblici e almeno del 10% i salari pubblici. Nello stesso anno sono ridotti i cordoni allargati negli anni precedenti dal sistema bancario verso le imprese private, soprattutto quelle delle costruzioni.

(8) Per un inquadramento storico della costituzione e del ruolo dell’Onu vedi l’articolo pubblicato sul n. 19 del che fare nel 1991, quando questo covo di briganti votò le risoluzioni per l’aggressione all’Iraq. Il titolo dell’articolo è "L’Onu: strumento di ‘pace e libertà’ o ‘covo di briganti imperialisti’?".

(9) Ricordiamo, in particolare, alcuni articoli che possono essere letti e scaricati dal nostro sito: "Il nostro antimperialismo", che fare n. 6 del 1986 (dopo i bombardamenti sulla Libia); "Dalla parte dei barbari", che fare n. 7 del 1986; "Il secondo tempo della rivoluzione antimperialista nel mondo arabo-islamico", che fare n. 19 del 1991; "L’antimperialismo islamico e quello comunista", che fare n. 56 del 2001; "Dalla parte degli iracheni, nostri fratelli", che fare n. 60 del 2003. Un organico inquadramento della nostra concezione della rivoluzione ininterrotta nei paesi dominati/controllati dall’imperialismo è contenuto nella seconda parte del nostro quaderno sull’Iran (1985) intitolata: "La rivoluzione in Iran e la rivoluzione proletaria mondiale".

(10) Quanto i partiti della sinistra, anche cosiddetta rivoluzionaria, ed i loro dirigenti siano allineati a difesa dei fondamenti dell’ordine imperialista, quanto essi aiutino le potenze imperialiste a travestire con "nobili finalità" le infami missioni neo-colonialiste, lo dimostra un’intervista che abbiamo letto su due siti, Znet e alencontre, che sono stati attivi nella denuncia e nell’opposizione alla guerra all’Iraq e all’Afghanistan. L’intervista è rilasciata da G. Achcar, un esponente della variegata area di orientamento trotzkista. Dopo una squallida ricostruzione della storia della rivoluzione antimperialista in Libia che passa sotto completo silenzio l’embargo Onu sul paese, ecco come l’esponente "antimperialista socialista" si perita di spiegare che la risoluzione Onu 1973 e l’intervento delle potenze imperialiste da essa chiesto possono svolgere un "ruolo antimperialista" nello scontro di classe che si è aperto nel mondo arabo dopo le sollevazioni tunisina ed egiziana. "[La risoluzione 1973 adottata dal consiglio di sicurezza dell’Onu il 17 marzo 2011] è formulata in modo da prendere in considerazione e sembra rispondere alla richiesta degli insorti [libici] di una zona di esclusione aerea. (...) Ciò detto, la formulazione della risoluzione non fornisce sufficienti garanzie per impedire che essa sia utilizzata a fini imperialisti. Anche se l’obiettivo fissato è quello della protezione della popolazione e non quello  di un cambiamento di regime, la decisione di sapere se un’azione risponde oppure no a questo obiettivo è lasciata alle potenze che intervengono e non agli insorti, e neanche al consiglio di sicurezza. La risoluzione è confusa. Ma vista l’urgenza di prevenire il massacro che sarebbe inevitabilmente seguito ad un assalto di Bengasi da parte delle truppe di Gheddafi e l’assenza di ogni mezzo alternativo in grado di proteggere la popolazione, nessuno può ragionevolmente opporvisi.(...) Ciò detto, e senza opporci alla zona di esclusione aerea, dobbiamo dar prova di diffidare delle azioni degli stati che la applicano e preconizzare un controllo attento di queste azioni affinché non oltrepassino il mandato del consiglio di sicurezza. (...) In sintesi, penso che una prospettiva anti-imperialista non può e non deve opporsi a una zona di esclusione aerea, vista l’assenza di alternative plausibili per proteggere la popolazione in pericolo." Davvero un bel servizio all’imperialismo!


Nella prima  cartina  pubblicate sul giornale si  mostra la collocazione geografica dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere libiche. La seconda cartina  si riferisce al Sudan. Essa evidenzia che le risorse petrolifere del Sudan sono collocate nella zona meridionale del paese, quella che è stata indotta alla secessione dagli Usa e dall’Ue. La gran parte delle concessioni petrolifere del Sudan meridionale sono nelle mani di società cinesi.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

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