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Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

Africa, gigante in marcia

Comprendere il ruolo che l’Africa sta svolgendo nella politica mondiale è indispensabile per comprendere quello che sta accadendo in Libia e quanto la guerra di Libia sia l’avvisaglia della catena di apocalittiche guerre cui l’imperialismo ci sta conducendo.

Nel parlare dell’Africa si incoccia con una (nient’affatto innocente) favoletta. Per essa l’Africa sarebbe un continente alla deriva, marginale nel circuito del mercato mondiale. Che lurida menzogna! A rivelarne la falsità basterebbe, da sola, la guerra contro la Libia, nel corso della quale è emerso il peso del paese nel rifornimento di idrocarburi verso l’Occidente.

Ma è l’intero continente a svolgere (oggi come ieri) un ruolo di primo piano nell’accumulazione capitalistica mondiale: con le sue miniere, con le sue piantagioni e con la fornitura di forza lavoro sotto-pagata e ricattata, nelle aziende agricole e nelle industrie installate nel continente e in quelle installate in Europa.

Non meno falsa e lurida è l’altra faccia della favoletta neocolonialista che ci appesta i timpani. Essa dipinge i popoli dell’Africa vittime della loro apatia, inesorabilmente risucchiati in lotte e guerre tribali, da cui possono essere salvati solo dalla mano umanitaria dell’uomo bianco.

I popoli e i lavoratori dell’Africa sono, invece, protagonisti di un possente moto per svincolarsi dalla cappa della dominazione occidentale e per conquistare un futuro da esseri umani. Come parte del nostro appoggio incondizionato a questo moto, vogliamo contribuire a spazzare l’oblìo che lo circonda e/o le nefandezze con cui esso è calunniato.

Questo moto ha alle sue spalle una tradizione gloriosa. Quella plurisecolare della resistenza opposta dalle società africane pre-capitalistiche alla conquista colonialista e, poi, quella della lotta di liberazione dal colonialismo del secondo dopoguerra.

I popoli dell’Africa giunsero a questa seconda fase nella seconda metà degli anni cinquanta, più tardi rispetto ai loro fratelli asiatici e latinoamericani. Questo "ritardo" non fu l’effetto della debolezza del cosiddetto "uomo africano". Ma dell’abisso da cui i popoli africani dovevano risalire. L’Africa era stata azzannata dall’Europa colonialista prima dell’Asia. Era stata privata delle sue forze migliori, indispensabili per la coltivazione della terra e per la difesa militare, dalla tratta triangolare degli schiavi. Era stata privata di ogni stato indipendente, a differenza di quanto era accaduto in Asia (1). Dopo la seconda guerra mondiale aveva, inoltre, dovuto subire la concentrazione delle forze del colonialismo franco-britannico in ritirata dall’Asia.

Eppure, malgrado questa congiura, i popoli africani e i lavoratori neri riuscirono a scrollarsi di dosso il colonialismo storico. In questa lotta e grazie a questa lotta, che nel caso del Sudafrica è durata un secolo!, i popoli africani sono riusciti a riconquistare ai loro stessi occhi la dignità e la fierezza che la civiltà capitalistica europea aveva minato. Sono riusciti a espellere il senso di inferiorità che essi avevano interiorizzato.

In questa lotta sanguinosa, i settori più avanzati del movimento anticoloniale giunsero alla conclusione che i popoli e gli stati appena diventati indipendenti avrebbero potuto realizzare la modernizzazione industriale dell’economia e della società africane solo unendo le forze e superando la frantumazione del continente voluta dal colonialismo. Solo costituendo la federazione degli stati uniti africani.

Questo orientamento trovò un suo primo momento di coagulo nella conferenza di Accra del 1958.

Panafricanesimo

Nel dicembre di quell’anno si riunirono nella capitale del Ghana, uno dei paesi allora all’avanguardia del moto di liberazione, i movimenti politici e i partiti in lotta per l’indipendenza.

La conferenza formulò l’obiettivo di unificare i territori liberati entro formazioni statali regionali fino alla federazione degli Stati Uniti di Africa. Oltre ad essere dettato dalle leggi di sviluppo dell’economia capitalistica, quest’obiettivo rappresentava (e rappresenta) l’unica condizione in grado di contrastare la controffensiva che l’imperialismo stava lanciando contro l’incandescente risveglio delle genti di colore.

Alla continuazione dell’uso della violenza aperta e alla testarda volontà di rafforzare i loro presìdi, tra cui quello strategico del Sudafrica, le potenze occidentali stavano, infatti, affiancando (laddove non avevano potuto impedire che le ex-colonie divenissero indipendenti o governate da partiti nazionalisti) la strategia della divisione, della balcanizzazione dei nuovi stati, spesso attraverso la coltivazione e la lusinga verso le minoranze collaborazioniste indigene.

Da allora, questa politica ha riportato numerosi successi. Il primo si ebbe nel Congo, in uno dei teatri cruciali della guerra tra imperialismo e popoli africani che si stava combattendo alla fine degli anni cinquanta: secessione del Katanga, assassinio (sotto la supervisione della missione dell’Onu) di uno dei dirigenti del panafricanesimo, Lumumba; ed infine riunificazione del paese sotto la mano di Mobutu e la regia "telecomandata" degli Usa. Dopo di allora, l’imperialismo ha riportato altri successi simili in Africa occidentale, in Africa centrale con le guerre nell’area dei Grandi Laghi, nel Corno d’Africa (regione "che rimane la testa di ponte per il controllo delle rotte petrolifere e della penisola arabica", Il Sole24ore del 2 gennaio 2008). Ha così fatto implodere le unità statali già costituite, ha aggiunto ai confini esistenti, assurdi dal punto di vista storico, linguistico e della complementarità economica, altri confini, altre barriere, pur di continuare a svenare il continente, a fargli svolgere il ruolo di miniera di metalli strategici e di forza lavoro. Ha impedito che il moto iniziato nell’Africa settentrionale e in Africa nera potesse saldarsi con la lotta antimperialista nelle colonie dell’Africa australe, che conquistò la sua vittoria negli anni 1975-1980 in Angola, Mozambico, Zimbabwe e poi, nel 1994, nel Sudafrica.

Insieme ai ricatti economici e ai meccanismi "spontanei" dello scambio ineguale, questa lurida politica balcanizzatrice, con la sua miscela di corruzione e di truppe mercenarie, ha soffocato l’embrione di modernizzazione agricola, industriale e sociale avviato sull’onda del moto indipendentista in alcune regioni dell’Africa.

L’Africa è tornata ad essere terra di emigrazione, di fame.

Il "rinascimento africano"

Eppure il moto che animò l’assise di Accra non è stato affatto sconfitto.  Anzi, proprio dalla fine del XX secolo e negli ultimi anni, sotto la spinta della vittoria in Sudafrica e dell’onda lunga dello sviluppo economico partita dall’Asia e dall’America Latina, esso ha ripreso la sua marcia. Osservatori e analisti di vario orientamento, compresi volontari dell’associazionismo cattolico, raccontano di un’Africa cantiere aperto animato da un vento di ottimismo, di cui è un indicatore, per quanto distorto e ingannevole, la crescita del pil.

In questa "rinascita" si intrecciano due piani di resistenza ai tentacoli imperialisti. Da un lato, quella di alcuni stati africani. Dall’altra, quella che vede protagonisti gli operai, i diseredati che affollano le baraccopoli delle grandi città, i contadini poveri. Sull’una e sull’altra si innesta la politica di penetrazione economica e strategica della Turchia, del Brasile e soprattutto della Cina. Il Sudafrica guidato dall’Anc è l’espressione di maggior peso di questo processo.

Gli investimenti della Cina non sono certo dettati dal disinteressato amore per i popoli africani. La penetrazione dei grandi gruppi finanziari e industriali cinesi e delle imprese di minori dimensioni al loro seguito è animata dalla ricerca del profitto, dalla ricerca disperata dei minerali, delle terre agricole per alimenti di cui lo sviluppo capitalistico cinese abbisogna.

Di fatto, però, questo interscambio sta portando alla costruzione di infrastrutture in zone strategiche dell’Africa e al superamento di barriere tra Africa, Asia e America Latina che risultavano vantaggiose solo per l’imperialismo. Sta permettendo a popolazioni di centinaia di milioni di persone di essere meno alla mercé dell’imperialismo.

Sotto la pressione delle esigenze di un’economia che, più che negli anni cinquanta, per non essere soffocata, richiede intraprese collocate in un orizzonte almeno continentale, sono riprese le iniziative di coordinamento tra gli stati del continente. Tra le più significative vi sono la formazione di tre istituti finanziari africani (il Fondo Monetario Africano, la Banca Centrale Africana e la Banca Africana per  gli Investimenti), la messa in opera di una rete satellitare di telecomunicazioni continentale, il tentativo di formare un’area di libero scambio dal Cairo a Città del Capo, l’obiettivo di arrivare ad una moneta unica, il "dinaro d’oro". Queste iniziative scontano la carenza di capitali, i ricatti dell’imperialismo, ma danno gambe concrete al programma che ad Accra era destinato a rimanere su un piano di virtualità. Queste iniziative hanno trovato i protagonisti più attivi, non sempre tra loro concordi, nel Sudafrica guidato dall’Anc e nella Libia di Gheddafi.

La Libia di Gheddafi era uno dei più convinti sostenitori (anche di fronte alle resistenze del Sudafrica) del "dinaro d’oro" e aveva finanziato una quota consistente del primo satellite per comunicazioni africano(2).

Il Sudafrica retto dall’Anc, da parte sua, si è distinto per l’invio di truppe in missione di peace keeping in paesi come Burundi, Repubblica Democratica del Congo e Costa d’Avorio, nel tentativo di trovare una "soluzione" africana alle guerre in corso e contenervi l’opera di aperta manomissione delle potenze imperialiste e delle loro pedine indigene. Dietro la proiezione di Pretoria vi è la forza di un’economia capitalistica tutt’altro che arretrata e con articolate ramificazioni in Africa: il capitale sudafricano, il cui pil ammonta a un terzo di quello dell’intero continente, è presente nel sistema bancario dell’Africa centrale, gestisce le ferrovie del Camerun, buona parte delle fonti energetiche dello

Zambia, le reti di telecomunicazione dell’Africa australe, estese catene di super-mercati in Nigeria ed Uganda e detiene la posizione dominante nello sfruttamento delle miniere angolane. Il Sudafrica è, inoltre, il fulcro del Sads, un accordo regionale centrato sul Sudafrica (in parziale contrasto con la realizzazione del progetto degli Stati Uniti d’Africa sostenuto soprattutto da Gheddafi) tra quattordici paesi, che prevede la costruzione di una zona di libero scambio commerciale.

Queste iniziative e il recente ingresso del Sudafrica nel gruppo del Brics (con i connessi accordi sulla possibilità di effettuare transazioni commerciali ricorrendo alle rispettive monete nazionali e non più al dollaro) hanno fatto scattare l’allarme rosso nelle centrali imperialiste. L’imperialismo affamato di oro, diamanti, coltran, uranio, affamato di braccia, come poteva rimanere a guardare l’avanzamento di questo processo? Tanto più dopo la primavera araba, quella vera, in Egitto e in Tunisia.

L’imperialismo non è rimasto a guardare. L’aggressione alla Libia e l’assassinio di Gheddafi sono un tassello della controffensiva che l’imperialismo, sotto l’accorta regia del primo presidente nero degli Stati Uniti, sta mettendo in campo. A questo tassello si accompagnano la secessione del Sudan meridionale, l’invio di un contingente di militari in Africa centrale (nell’area compresa tra la repubblica del Congo, l’Uganda e il Sudan meridionale), la decisione di spostare il centro direttivo della divisione del Pentagono proiettata sull’Africa, l’Africom, dalla Germania all’Africa.

Questo nuovo assalto occidentale all’Africa è la sperimentazione dello scontro mondiale che si prepara tra l’Occidente e le potenze capitalistiche emergenti, tra l’uno e le altre contro il proletariato e le masse diseredate del mondo intero. Gli altri teatri di prova sono in Medioriente, Siria e Iran, e poi in Asia, nelle aree periferiche della Cina, in Asia centrale, nel confine tra India-Pakistan-Cina, nel mar Cinese meridionale.

Qualcosa (giustamente) non quadra.

Noi marxisti rivoluzionari appoggiamo incondizionatamente il moto proletario che si esprime in questa rinascita dell’Africa. Non perché riteniamo che l’indirizzo politico nazional-borghese che oggi guida questo articolato processo possa condurlo fino alla vittoria, giacché la liberazione dell’Africa non si può realizzare con una politica di ingresso concordato o meno nel mercato mondiale.

Dove porti l’indirizzo oggi dominante nel "fronte degli stati emergenti", lo abbiamo visto proprio in occasione della aggressione alla Libia. Il Sudafrica e la Cina si sono astenute sulla risoluzione 1973. La Cina poteva bloccare la risoluzione dato che detiene il diritto di veto nel consiglio di sicurezza. Invece s’è lavata le mani, per calcoli borghesi, statali, nient’affatto in armonia con quelli del moto universale degli oppressi.

Noi appoggiamo incondizionatamente il moto proletario e popolare in corso in Africa perché esso spinge in avanti lo scontro, mette in difficoltà l’imperialismo, gli riduce le risorse con cui può mantenere nell’atonia politica il proletariato delle metropoli e, nello stesso tempo, favorisce l’emergere dell’esigenza di una prospettiva politica rivoluzionaria nelle stesse lotte in Africa.

Abbiamo ricordato sopra l’esperienza della rivoluzione congolose della fine degli anni cinquanta.

Ebbene, la traiettoria percorsa in un brevissimo lasso di tempo da Lumumba, l’allargamento della sua visione e l’embrionale passaggio dalla critica politica alla critica economica dell’imperialismo che le potenze occidentali si affrettarono ad interrompere anche con l’assassinio del lottatore antimperialista, impersona questa dinamica potenziale futura.

I più avanzati militanti della lotta proletaria e antimperialista in Africa intuiscono che il loro continente sta diventando terra di scontro tra potenze imperialiste ed emergenti, che c’è un contrasto anche tra la politica cinese e quella delle stesse borghesie africane, ed, infine, che occorra cercare, attraverso gli scontri e le trincee fissate dalla storia, una via autonoma per i lavoratori tra l’imperialismo e il blocco borghese che si sta costituendo anche in Africa attorno alla Cina.

Questa tensione ha trovato espressione nella posizione assunta dalla confederazione dei sindacati sudafricani (il Cosatu) in occasione del vertice del Brics dell’aprile 2011. Ne riportiamo alcuni stralci.

"Il Cosatu dà il benvenuto a ogni iniziativa volta a rafforzare le relazioni Sud-Sud e la solidarietà in un mondo dominato da un pugno di paesi ricchi del Nord. (..) Riteniamo l’adesione del nostro paese al Bric un importante passo per realizzare questo obiettivo fondamentale nella lotta per riorganizzre l’architettura del mondo in senso egualitario e per influenzare gli avvenimenti del presente e del futuro.

Tuttavia, abbiamo riserve e preoccupazioni sui tangibili vantaggi di questo raggruppamento, soprattutto se considerato nelle modalità in cui è avvenuto finora. (...) La trasformazione in senso multilaterale del mondo non deve coincidere con l’integrazione dei paesi del Brics nel non-democratico club monopolistico delle potenze del mondo con l’esclusione dei paesi rimanenti.

(...) Noi chiamiamo a battersi per relazioni Sud-Sud che integrino tutti i paesi e i popoli del mondo in via di sviluppo e che rappresentino gli interessi e le aspirazioni di tutti i popoli del Sud unito. Come potrà il resto del continente africano trarre beneficio da questa riorganizzazione se noi ci isoliamo dal resto del continente e dai suoi popoli? (...) Questo deve portarci a contrastare la tendenza a mettere in avanscena gli stretti interessi nazionalistici dei paesi facenti parte del Brics, come è accaduto nel Movimento dei Non Allineati e al G-77, dove la solidarietà è rimasta un’intenzione e non si è tradotta in un’azione quotidiana, permettendo la permanenza di divisioni e competizioni tra paesi che dovrebbero, invece, cooperazione strettamente nella loro azione."

(1) Le premesse geografiche e storiche della differente evoluzione dell’Africa rispetto a quella dell’Eurasia sono analizzate in due preziosi articoli pubblicati sul giornale Programma Comunista: "La civile Africa nera" sul n. 13 del 1958 e "Le grandi epoche della storia africana" sul n. 14 del 1958.

(2) Leggiamo in un articolo di J. P. Pougala del 24 aprile 2011 (Perché l’Occidente vuole la caduta di Gheddafi?): "È stata la Libia di Gheddafi che ha offerto a tutta l’Africa la sua prima rivoluzione nei tempi moderni, collegando tutto il continente tramite telefoni, televisioni, trasmissioni radiofoniche e diverse altre applicazioni tecnologiche come la telemedicina e l’insegnamento a distanza. E grazie al ponte radio WMAX è stata resa disponibile una connessione a basso costo in tutto il continente, anche nelle zone rurali. Iniziò tutto nel 1992, quando 45 nazioni africane stabilirono il Rascom (Regional African Satellite Communication Organization), facendo così in modo che l’Africa potesse avere il proprio satellite e abbattere i costi di comunicazione nel continente.Quello era un momento in cui le telefonate da e verso l’Africa erano le più costose del mondo a causa dei 500 milioni di dollari annui di tassa intascati dall’ Europa per l’utilizzo dei suoi satelliti (come l’Intelsat) per le conversazioni telefoniche, comprese quelle all’interno del paese stesso. Per il proprio satellite gli Africani dovevano sborsare 400 milioni di dollari. Non avrebbero più pagato 500 milioni di dollari di locazione annuale. Quale banchiere non finanzierebbe un progetto del genere? Ma il problema è rimasto. Come possono gli schiavi che cercano di liberarsi dallo sfruttamento del loro padrone chiedere aiuto al padrone stesso per conseguire tale libertà? Non sorprende che la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, gli Stati Uniti e l’Europa hanno fatto solo vaghe promesse per 14 anni. Gheddafi ha posto fine a queste richieste inutili ai benefattori occidentali con i loro tassi di interesse esorbitanti, mettendo sul piatto 300 milioni di dollari, insieme ai 50 milioni dell’African Development Bank e agli ulteriori 27 milioni della West African Development Bank: ed è così che l’Africa ha avuto il suo primo satellite per le comunicazioni, il 26 dicembre 2007. La Cina e la Russia hanno seguito l’esempio ed hanno condiviso la propria tecnologia contribuendo a lanciare satelliti per il Sud Africa, la Nigeria, l’Angola e l’Algeria, mentre un secondo satellite africano è stato lanciato nel luglio 2010. Il primo satellite costruito e totalmente realizzato sul suolo africano, in Algeria, è fissato per il 2020. Questo satellite è destinato a competere con i migliori del mondo, ma con un costo dieci volte inferiore, una vera e propria sfida."

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