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Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

Crisi in Italia, crisi in Europa

No alla cura Bce - Ue - Monti.

Non è vero che non ci siano alternative.

Il governo Berlusconi-Bossi, per anni e anni all’opera contro i lavoratori e i loro diritti, è franato. La situazione politica italiana,dal punto di vista dei lavoratori, è, tuttavia, quanto mai nera. Non solo e non tanto perché il nuovo governo, il governo Monti, farà piovere sulle spalle dei proletari, italiani e immigrati,una caterva di macigni. Quanto perché la maggior parte dei lavoratori è disposta ad accettare la politica dei sacrifici di cui si è fatto alfiere il nuovo governo.

Larga parte del mondo del lavoro si aspetta che la "professionalità" dei ministri e la parziale indipendenza dell’esecutivo dal corrotto e corporativo sistema dei partiti renda credibile la promessa di Monti di ripartire equamente i sacrifici e, soprattutto,di metterli a frutto efficacemente per il risanamento della baracca italiana ed europea, nell’interesse di tutte le classi sociali della nazione.

In realtà, il sostegno della politica di Monti e del suo europeismo conduce i lavoratori su un sentiero tragico. È quello che intendiamo discutere negli articoli che seguono.

L’epoca dei grandi dinosauri

Cera una volta...

Intendiamoci. Non che la situazione  economica e sociale non sia davvero critica. Lo è. E più di quanto indichi il livello, preso isolatamente, raggiunto dal debito pubblico in Italia: il 120% del pil. Questa percentuale rappresenta un livello di guardia per l’economia capitalistica italiana ed europea perché è collegata, riflesso e concausa, ad una crisi mondiale dell’ordine capitalistico a guida statunitense instaurato con la seconda guerra mondiale.

Abbiamo parlato di questa crisi più volte nei numeri precedenti del "che fare" ed abbiamo ricollegato ad essa il crollo finanziario statunitense del 2008, la recessione seguita nelle economie dei paesi occidentali, la guerra monetaria in corso tra dollaro-euro-yuan, l’Intifada in Tunisia e in Egitto del 2011. A questa crisi si connettono anche gli scricchiolii della costruzione europea.

È finito il tempo in cui le imprese europee, italiane comprese, dominavano indisturbate il mercato mondiale insieme con quelle degli Usa e del Giappone. È finito il tempo in cui le une e le altre potevano disporre delle materie prime a prezzi stracciati grazie al fatto che i paesi dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa erano deboli, ricattati o dominati da classi dirigenti affittate. È finito il tempo in cui l’Europa, insieme agli Usa e al Giappone, disponeva del monopolio assoluto delle tecnologie industriali e distanziava nettamente il livello di produttività delle imprese dei paesi capitalistici del cosiddetto Est e Sud del mondo. È finito il tempo in cui le potenze europee potevano impunemente  imporre i loro interessi ai paesi recalcitranti appoggiandosi, con una spesa militare limitata, al dispositivo militare Usa e alla Nato. Ed è finito il tempo in cui queste condizioni permettevano alle borghesie europee di sostenere un (per esse) dispendioso compromesso sociale con il proletariato europeo.

È, inoltre, finito anche il tempo in cui le borghesie europee hanno potuto prolungare questa "armonia", come è accaduto negli ultimi trent’anni, grazie alla possibilità di raggiungere con i propri investimenti un enorme e super-ricattabile esercito di lavoratori in Nordafrica, in Estremo Oriente e in America Latina e di trasformarlo per un pugno di dollari/euro in manodopera di un lucroso sistema di subappalto industriale planetario. Da alcuni anni i salari medi e di "diritti" dei lavoratori cinesi, asiatici, africani e latinoamericani sono in crescita grazie a un ampio movimento rivendicativo.

Le multinazionali e gli stati occidentali, così preoccupati della democrazia in Venezuela, a Cuba, in Libia, in Iraq e nella ex-Jugoslavia, hanno fatto fuoco e fiamme contro le rivendicazioni dei lavoratori cinesi e contro la decisione del governo cinese di varare un codice del lavoro condizionato dalle iniziative di lotta dei proletari e dei contadini poveri. Alle multinazionali occidentali, comprese quelle italiane, è apparso incredibile veder risorgere proprio a Pechino, due anni fa, le leggi anti-flessibilità che, anche grazie alle condizioni esistenti fino all’altro ieri nel far west cinese, stanno picconando in Occidente. Il cambiamento è così profondo che alcune multinazionali statunitensi hanno iniziato a riportare in patria i loro investimenti produttivi e la multinazionale di Taiwan al centro del movimento di scioperi in Cina, la Foxxon (secondo The Economist il più grande datore di lavoro in Cina, dopo l’esercito), ha deciso l’introduzione di un milione di robot nei prossimi tre anni!

Il quadro mondiale in cui si colloca l’iniziativa delle imprese e degli stati europei è, quindi, radicalmente cambiato. È iniziato un terremoto che segna una discontinuità epocale nel trend delle relazioni tra i popoli della Terra iniziato nel 1492. Ne danno un colpo d’occhio i dati riportati sul peso nell’economia mondiale della produzione manufatturiera, degli scambi commerciali e degli investimenti esteri dei paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Ne sono un sintomo il sorpasso degli Usa da parte della Cina come principale fornitore manufatturiero della Ue e l’aiuto finanziario chiesto nei mesi scorsi da alcune potenze europee alla Cina e il consiglio che Pechino ha rivolto alle capitali europee, dopo averlo inviato anche a Washington, di smetterla di "vivere al di sopra dei propri mezzi".

Lo scatto di reni della Germania

Mettendo a frutto il proprio potenziale finanziario e l’annessione dell’Europa orientale compiuta dopo il 1989, la Germania è stata il paese europeo che più prontamente ha saputo reagire a questo mutato quadro mondiale e, eccezione tra i paesi europei e occidentali, a ribaltarlo a proprio favore. La profonda ristrutturazione dell’apparato produttivo e del mercato del lavoro compiuta dalle imprese e dallo stato sotto i governi Kohl e Schroeder si sta, però, rivelando insufficiente.

A differenza dell’alleato statunitense e dell’emergente potenza capitalistica cinese, la rete delle imprese costituenti il capitale tedesco, pur dominante in un’area vasta come la Mitteleuropa, sconta la mancata integrazione entro un blocco economico e statale continentale. Ha scritto Carlo De Benedetti sul Sole24ore del 24 novembre 2011: "In un mondo che torna a essere terreno di pascolo per i grandi dinosauri, la forza dei piccoli mammiferi è quella di organizzarsi in gruppo, altrimenti non hanno futuro.

Questo vale anche per i mammiferi un po’ più grandi, quelli che potrebbero avere la tentazione di credere di poter fare da soli. E i partner tedeschi farebbero bene a capirlo presto." Alla formazione di questo blocco continentale ostavano e ostano, oltre alle storiche gelosie reciproche delle borghesie europee, le situazioni economiche dei paesi dell’Europa mediterranea. Soprattutto dopo la recessione occidentale del 2008, il governo e il capitale finanziario tedeschi hanno cercato di coordinare la modernizzazione delle economie di questa area e di elevarne la competitività.

Parallelamente hanno condotto una campagna propagandistica per convincere l’opinione pubblica interna dell’interesse nazionale tedesco a sostenere i sacrifici richiesti dalla formazione di un’Unione Europea più solida. Al contrario di quello che i mezzi di informazioni italiani ci sciroppano, questa campagna ha riscontrato largo consenso, come attestato dalla crescita nelle ultime tornate elettorali dei partiti più europeisti (la Spd e i Verdi) e dalla schiacciante maggioranza parlamentare con cui Berlino ha approvato nei mesi scorsi l’istituzione del fondo "salva-stati" di 440 miliardi di euro e del versamento tedesco di 211 miliardi.

L’esigenza tedesca di rafforzare la competitività e la centralizzazione della Ue è diventata pressante, quando, nel 2011, la asmatica ripresa europea post-2008 ha iniziato ad arrancare, quando si sono cominciati a far sentire gli effetti corroboranti del piano Obama sulla competitività delle concorrenti imprese Usa, quando la scarsità di capitale liquido in cui si stavano venendo a trovare i paesi dell’Europa mediterranea li stava consegnando alla Cina. Era cominciato a succedere in Grecia e in Portogallo. Stava cominciando a succedere in Italia, con il ministro dell’economia Tremonti, il leghista che aveva fulminato la Cina come il nuovo diavolo, sorpreso a tessere trattative con il colosso finanziario China Investiment Corporation per l’acquisto di buoni del tesoro italiani in cambio dell’ingresso nella cabina di comando delle grandi società italiane ancora in piedi, dall’Eni all’Enel, e dell’acquisizione di importanti strutture portuali e ferroviarie per l’esportazione delle merci cinesi in Europa. A questo punto la Germania ha serrato la fila e ha messo i governi di Atene e Roma spalle al muro.

Berlusconi-Bossi dimissionati dai loro padrini

Questa pressione della Germania si è incontrata con l’interesse della frazione più lungimirante e meno pidocchiosa delle borghesie di Italia, Spagna e Grecia. Quella italiana, in particolare, cercava da tempo di imprimere una svolta alla politica del governo Berlusconi. In che senso?

Nel senso di orientarla a favore dei lavoratori? Neanche per sogno! Ai grandi capitalisti italiani, gli dèi che unsero la scesa in campo di Berlusconi al fianco di Fini e di Bossi, erano e restano pienamente soddisfatti della politica attuata da Berlusconi contro i lavoratori e della partecipazione italiana alla "guerra infinita" garantita dal cavaliere di Arcore. La politica di Berlusconi-Bossi è, invece, risultata insufficiente sull’altro versante decisivo per il rilancio della competitività del sistema-Italia: modernizzazione delle infrastrutture, canalizzazione del risparmio verso gli investimenti nei settori tecnologicamente avanti, politiche volte a superare il nanismo dimensionale che caratterizza la rete industriale italiana, aumento dell’efficienza dell’amministrazione pubblica e del settore dei servizi, utilizzo dei differenziali di sviluppo tra il nord e il sud per il rilancio dell’intero capitale nazionale. Più, nel corso del 2011, la situazione economica diventava critica, più la maggioranza, anziché affrontare questi nodi, si è avvoltolata nei suoi intrighi, nella difesa delle rendite delle camarille legate al blocco di potere berlusconiano, un intreccio di piccoli industriali e professionisti specializzati nel riempirsi le tasche in campi protetti dalla competizione internazionale o foraggiati dagli appalti statali.

I grandi capitalisti e la Confindustria hanno, così, preso via via le distanze dal governo che avevano contribuito a mettere in piedi. Lo hanno cominciato a subissare di critiche, senza peraltro tornare ad affidarsi all’opposizione di centro-sinistra, considerata ancora troppo condizionata dai sentimenti del mondo del lavoro. Si sono accordate con le organizzazioni sindacali per presentare al governo il manifesto delle forze produttive del paese del luglio 2011, firmato anche dalla Cgil.

Hanno sostenuto la relativa demarcazione dal governo Berlusconi-Bossi di una potente e socialmente ramificata forza di conservazione sociale, quella delle istituzioni ecclesiastiche, come si è visto con il meeting di Rimini di Comunione e Liberazione dell’agosto 2011 e con l’assemblea di Todi dell’ottobre 2011. Draghi, poco prima di lasciare la Banca d’Italia per sedersi alla presidenza della Bce, s’è sbracciato: "Possibile che un sistema sociale, un’imprenditoria, una manodopera che furono i protagonisti della lunga fase di crescita impetuosa abbiano consumato tutta la loro forza? No. Il paese è ancora ricco di imprese di successo, non mancano nella società indicazioni di una vitalità tutt’altro che spenta. E allora perché è così difficile realizzare interventi in grado di invertire il trend negativo degli ultimi anni? La risposta viene dalla storia. In sintesi, quando l’economia ristagna, si rafforzano i meccanismi di difesa e promozione di interessi particolaristici, si formano robuste coalizioni distributive, dotate di poteri di veto.

 È compito insostituibile della politica trovare il modo di rompere questo circolo vizioso " (la Repubblica, 13 ottobre 2011). E, alla fine, il della politica", anche in Italia, questa soluzione l’ha trovata, grazie alla tela pazientemente tessuta dal Quirinale e il determinante sostegno della Germania e delle istituzioni della Ue.

Al momento in cui scriviamo, il governo Monti ha appena ottenuto la quasi unanime fiducia del parlamento. La marcia per mettere in ordine le finanze dell’Italia (in parallelo a quelle della Spagna e della Grecia) può riprendere il suo cammino.

Cosa significa mettere ordine?

Significa elevare la competitività del capitale europeo, acquisire la forza finanziaria e statale che permette di garantire il rifornimento, a prezzi convenienti, delle materie prime, di fare acquisizioni sul mercato mondiale, di potersi domani riarmare per lo scontro che si prospetta e che deciderà chi reggerà lo scettro del sistema capitalistico mondiale. Ciò richiede una serie di cambiamenti, economici e politici, al cui centro è l’aumento della quota della ricchezza prodotta in una giornata lavorativa sociale che viene intascata dai capitalisti sotto forma di profitti.

Un primo gruppo di misure puntano a ottenere questo obiettivo in modo diretto.

La lettera della Bce e le prime dichiarazioni di Monti parlano di elevare l’età di pensionamento e di passare direttamente al contributivo per tutti. Nello stesso tempo, pur se con qualche contrasto nei modi e nei tempi, Monti, Marchionne, la Confindustria e la Bce mirano di concerto  ad allungare l’orario di lavoro con l’incentivazione del lavoro straordinario e l’aumento dell’intensità della prestazione lavorativa (riduzione delle pause, introduzione di una "nuova" organizzazione del lavoro risultante dalla combinazione del World Class Manufacturing e dell’Ergo-uas). Il governo e il padronato promettono che, se gli indici di profittabilità aziendali saranno positivi, queste misure permetteranno ai lavoratori di portare a casa qualche manciata di euro in più. Potrebbe accadere. Ma a quale prezzo per le capacità nervose, muscolari e psichiche dei lavoratori?

 Dagli studi disponibili sull’organizzazione del lavoro che la Fiat vuole introdurre nei suoi stabilimenti e che il padronato intende generalizzare, emerge che l’attività lavorativa non diventerà più leggera ed ergonomica ma ancor più alienante e stressante.

Per costringere i lavoratori ad accettare questa amara medicina, il grande capitale europeo e i suoi governi (anche qui con qualche contrasto sui modi e sui tempi) sanno che va rinfoltito l’esercito industriale di riserva per accrescere la pressione di precari e disoccupati sulla gente che lavora, va collegata al mercato una quota crescente del salario e delle prestazioni previdenziali (ecco il senso del passaggio secco al contributivo così caro al neo-ministro Fornero), va aziendalizzata la contrattazione, va liberalizzato il mercato del lavoro in ogni singolo paese europeo così da accentuare la concorrenza tra lavoratori dei diversi paesi europei. Di qui l’importanza attribuita dalla Bce e dal governo Monti al varo in Italia di una riforma del mercato del lavoro simile a quella già concordata in Grecia, in Spagna e in Francia.

Ma l’aumento del grado di sfruttamento della forza lavoro non può essere realizzato solo con l’allungamento (estensivamente e intensivamente) della giornata lavorativa sociale. Per il punto a cui è giunta l’accumulazione capitalistica mondiale e per la preoccupazione dei borghesi europei di evitare scontri sociali aperti, il capitale europeista sa che l’aumento della quota della giornata lavorativa che va al profitto richiede anche l’aumento della produttività del lavoro sociale.

È l’altro caposaldo della politica di Monti. Questo aumento richiede un balzo in avanti della tecnologia produttiva e una riorganizzazione generale della società. Richiede l’accentramento di una gigantesca massa di capitali liquidi nel campo della ricerca e delle industrie di punta. Richiede enormi investimenti nelle infrastrutture, da completare (tra cui la Tav) e da progettare, per ottenere un sistema di trasporto delle merci rapido, base indispensabile per consolidare la catena produttiva a scala continentale e sfruttare la concorrenza tra i lavoratori dei diversi paesi europei.

Dove pescare per rastrellare questa massa di capitali liquidi? Dal lavoro salariato, naturalmente, soprattutto con la riduzione della quota della spesa statale che ritorna nelle tasche dei lavoratori sotto forma di "spesa sociale". Ma anche dalle tasche delle classi borghesi. Le misure allo studio sono diverse: patrimoniale, Tobin tax, lotta all’evasione fiscale. La miscela che sarà partorita servirà a rimpolpare il tesoro da accentrare nei forzieri statali e a far accettare senza fiatare ai lavoratori la loro fetta di sacrifici.

I capitali rivolti alla ristrutturazione tecnologica dell’apparato produttivo vanno, poi, investiti in modo efficiente, superando la dispersione in mani pidocchiose e familistiche che ha impazzato con Berlusconi soprattutto negli ultimi anni. Ciò richiede, ecco un altro p unto del programma Monti, un dimagrimento e una riorganizzazione in senso efficientista dell’apparato statale, del "mondo della politica", delle professioni.

Tiriamo le fila. Anche l’aumento del prelievo statale sulla massa di borghesi arruffoni, la riduzione degli "sprechi" della macchina statale, la riduzione delle rendite di posizione delle professioni, questa sequenza di misure che sembra rendere socialmente equa la cura Monti, ha, in realtà, l’obiettivo di mettere a punto i mezzi tecnologici e statali per aumentare il tempo dell’esistenza dei lavoratori succhiato dallo sfruttamento capitalistico e trasferito nei forzieri capitalistici sotto forma di profitti. E non è finita qui: il piano di Monti ha un altro, terribile e per ora invisibile, costo per il mondo del lavoro. Quello derivante dalle conseguenze nelle relazioni internazionali di questo rafforzamento della p tenza capitalistica europea. Ne discutiamo nella seconda parte dell’articolo.

Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

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