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Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

Il "Patto per la produttività": una bordata contro il contratto nazionale

 Nel numero 69 del che fare (aprile 2008) scrivevamo: "Per decenni il contratto nazionale è stato uno dei fattori di unità materiale e, quindi, di forza politica del mondo del lavoro. Tramite esso l'operaio della piccola impresa o delle aree geografiche meno industrializzate è riuscito ad ottenere o mantenere  una serie di garanzie salariali e normative che per conto proprio non avrebbe mai potuto strappare. In questo modo i lavoratori delle "fasce più deboli"  sono diventati più tutelati  e, quindi, meno utilizzabili dal padronato come arma di ricatto per imporre condizioni peggiorative  alla restante parte della classe operaia. Il lavoratore della grande industria settentrionale, "aiutando" quello della piccola impresa meridionale, ha, in fin dei conti, aiutato se stesso".

È per questi motivi che adesso, dopo aver sfondato sul versante delle pensioni e dell'articolo 18, il fuoco confindustriale e governativo è puntato contro la trincea della contrattazione nazionale collettiva. Il patto di produttività firmato il 21 novembre 2012 è un affondo in questa direzione. Sotto l'attenta regia governativa, padroni, Cisl e Uil hanno stipulato un "accordo quadro" che ridisegna le relazioni industriali, il ruolo i limiti e gli obiettivi della contrattazione sindacale. La Cgil, che pure aveva promosso e siglato il documento del 17 ottobre 2012 da cui la trattativa è partita, non ha firmato.

I punti dell'accordo

 L'accordo parte dal presupposto che i lavoratori italiani possono sperare di porre un freno al peggioramento delle loro condizioni solo se, alleandosi col governo e con le aziende, favoriranno il rilancio della produttività e della competitività del paese e che, troppo spesso, le norme di legge e i contratti nazionali sono di intralcio proprio a questo rilancio. In coerenza con questa valutazione, si stabiliscono i seguenti punti.

 - Saranno rafforzati i contratti di secondo livello (aziendali) a scapito di quelli nazionali prevedendo, come da accordo del 28 giugno 2011, di derogare "in peggio" a quanto sancito in sede di contrattazione nazionale (1).

- Va inserita a livello di contrattazione aziendale la possibilità di demansionamento (e di  relativa decurtazione del salario) dei dipendenti (2).

- Le ferie, gli orari, i turni, i carichi di lavoro, l'andamento salariale non possono più essere regolati da norme centralizzate, ma devono essere adeguati flessibilmente, caso per caso, alle specifiche esigenze aziendali. Basta con le otto ore! Se il mercato tira si facciano turni di dieci/dodici ore e saltino pure le ferie. Il tutto si recupererà (se si recupererà) in altri momenti, quando la "domanda" langue e la produzione rallenta (3).

- Nei contratti aziendali non si dovrà più tenere conto delle stesse leggi ove queste siano di ostacolo alla produttività. Ciò è in linea con i contenuti dell'articolo 8 varato nell'agosto 2012 dal governo Monti. L'articolo prevede la possibilità di derogare "in peggio" non solo rispetto ai contratti nazionali, ma anche rispetto alle norme legislative (4).

- Vanno previste contrattualmente norme che favoriscano la sostituzione di manodopera "anziana" con giovani sottopagati e con minori diritti.

- Per favorire "una rapida conclusione" della trattativa, il governo Monti ha promesso sgravi fiscali per oltre un miliardo e mezzo di euro sulle quote di salario che verranno legate all'andamento produttivo aziendale. Il messaggio da decifrare non è complesso: si vuole indurre il lavoratore a "convincersi" della "conveienza" (oltre che della "necessità") di perseguire la via aziendale  invece della difesa collettiva del contratto nazionale.

Il patto non porterà solo a peggiorare le condizioni lavorative della classe operaia, ma anche a scardinare uno dei residui baluardi della sua unità e quindi della sua capacità di resistenza ed organizzazione collettiva. Il patto contribuirà a vincolare i lavoratori ai piani aziendali e metterli per questa via in competizione gli uni contro gli altri, spingendoli a vedere il salvagente nell'accettazione della concorrenza al ribasso con i lavoratori degli altri paesi per accaparrarsi "brandelli di ricchezza mondiale" (5).

Difendersi coi referendum?

  Da alcuni mesi è partita un'iniziativa referendaria finalizzata all'eliminazione dell'articolo 8 e al ripristino dell'articolo 18. La promuovono Sel, IdV, Rifondazione Comunista, PdCI, la Fiom e i giuristi Alleva e Romagnoli. Noi riteniamo che essa non permetterà di ottenere il duplice obiettivo che si propone né che possa risvegliare l'attenzione dei lavoratori e il dibattito su quanto sta accadendo.

 Nel 1970 fu la forza della lotta operaia ad imporre lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori e l'articolo 18. Oggi è la forza delle aziende a determinare il suo "comodo" smantellamento. Le leggi non sono altro che la ratifica "scritta"  dei rapporti di forza tra le varie classi sociali ed è illusorio pensare  di recuperare elle urne quanto si è perso nei posti di lavoro, nelle piazze, nella società.

Negli ultimi decenni il padronato italiano e occidentale no ha costruito la sua capacità di colpire nelle cabine elettorali, ma intervenendo a tutela delle proprie esigenze nei luoghi di lavoro e nella società. I pugni di Monti, per quanto siano apparsi "improvvisi e inaspettati", sono stati preparati da un lungo lavorio ai fianchi. La controffensiva padronale contro le conquiste operaie dell' "autunno caldo"  cominciò già all'inizio degli anni '80 con i licenziamenti di massa   (poi trasformati in cassaintegrazione) operati da Romiti (il Marchionne di allora) a Mirafiori e con il taglio della "scala mobile" (6)  fatto dal governo Craxi nel 1984. Da allora sono seguiti altri più o meno sostanziosi  arretramenti, il cui danno fondamentale è stato quello di aver contribuito a erodere l'unità  e la forza politica e sindacale del movimento operaio.

Si pensi a quanto avvenuto sulle pensioni. Dopo aver fermato in piazza la contro-riforma di Berlusconi nel 1994, si è accettata quella di Dini che, a partire dal 1996, ha sancito un regime pensionistico diversificato fra "giovani" e "anziani". E in materia di mercato del lavoro? Anche qui sono passate misure su misure (dal pacchetto Treu del 1997 alla legge 30 del 2002) che, con la falsa promessa di favorire l'occupazione giovanile, hanno ridotto le garanzie normative e salariali per i neo assunti senza incontrare alcuna resistenza. Se molti giovani proletari (sbagliando!) hanno guardato con indifferenza allo smantellamento dell'articolo 18 e alla riforma delle pensioni è anche perchè per loro questi due pilastri della precedente condizione operaia erano stati già manomessi.

Questo arretramento è stato favorito dalla politica con cui il movimento operaio ha pensato di potersi difendere, quella del "meno peggio", e dalla propaganda dei partiti della sinistra e dei vertici sindacali (Cgil inclusa) a favore dell' "idea" (suicida) di potere salvaguardare la condizione proletaria subordinando i propri interessi a quelli dell'azienda e della nazione. Il risultato è stato disastroso: a fronte di una temporanea e transitoria "riduzione del danno", l'organismo proletario ha subito l'indebolimento delle sue difese, e si è esposto impreparato all'offensiva padronale. Che nel frattempo operava anche al di fuori dei confini italiani e acquisiva un tremendo mezzo di ricatto con cui mettere ko  la residua organizzazione difensiva dei lavoratori: la formazione di una fabbrica planetaria, con reparti equiparabili a quelli occidentali istallati nel Sud del mondo, e la formazione di un mercato del lavoro mondializzato nel quale i lavoratori occidentali sono direttamente in concorrenza con quelli della Cina, dell'India, del Sudafrica, della Serbia, dell'America Latina. Divisi, indeboliti, paralizzati da questa lunga controffensiva, i lavoratori hanno accettato passivamente le bordate del governo Monti, convinti che non ci fosse alternativa all'amara medicina imposta dal governo. Ora, come pensiamo che questa situazione possa essere invertita tramite il ricorso alle urne? Senza contare che a depositare la loro scheda nelle urne saranno anche classi e strati sociali borghesi, ben contenti dell'articolo 8 e dell'eliminazione dell'articolo 18. I promotori della campagna referendaria possono sbizzarrirsi a volontà  nell'indicare ai ceti sociali intermedi che è possibile rilanciare la competitività del sistema Italia senza comprimere i diritti dei lavoratori. Il sistema capitalistico reale, non quello sognato dai promotori del referendum , non funziona così. Funziona come dice Marchionne o Monti o Squinzi. È proprio su questo che, invece, bisogna cominciare a ragionare: sull'impossibilità di salvare capra e cavoli.

Alcuni lavoratori si rendono conto di questa situazione e ritengono che i presìdi per raccogliere le firme forniscano in ogni caso l'occasione per intavolare una discussione con i proletari e un momento di collegamento e di organizzazione. Non è così. Al di là della propria volontà, se si punta sui banchetti per la raccolta di firme, si dice con il proprio comportamento ai lavoratori quello che a parole si contesta, e cioè che il terreno per organizzare una difesa di classe è quello della conta delle opinioni e non quello dei rapporti di forza tra le classi sociali e dello scontro di classe.

Lo sciopero del 14 novembre 2012

Certo, la scesa in lotta del proletariato non può essere suscitata artificialmente da nessuna politica e da nessuna parola d'ordine. Dipende innanzitutto dal grado di maturazione delle contraddizioni insite nella società capitalistica, dal fatto che gli stessi processi che oggi cooperano alla paralisi dei lavoratori d'Italia li spingeranno a scendere in campo contro il padronato e i  loro governi. Quello che si può e si deve fare è preparare il terreno a questo sicuro appuntamento. Come? Cominciando ad utilizzare le (sia pur minime) iniziative di lotta locali e settoriali o le giornate di mobilitazione generale per far vivere in esse l'esigenza di allargare il fronte di lotta e per trarre gli elementi di bilancio politico insiti nell'esperienza recente e passata dei lavoratori, in Italia e nel mondo.

Un esempio di queste iniziative è stato lo sciopero generale europeo del 14 novembre 2012. Come organizzazione lo abbiamo preparato e vi abbiamo partecipato indicando come dare coerente sviluppo all'esigenza che ha portato all'iniziativa, cioè quella di far fronte all'offensiva anti-proletaria in corso in Europa contrapponendo all'alleanza sovranazionale dei governi europei  un fronte di lotta esteso almeno a scala continentale. Vi abbiamo partecipato contrastando il modo in cui i vertici della Cgil, pur aderendo formalmente allo sciopero, lo hanno "preparato": intere categorie ne sono state escluse; le assemblee preparatorie non sono state convocate, se non in alcuni posti di lavoro per l'iniziativa diretta dei delegati contro il "lassismo" dei vertici della Cgil. Questo modo di organizzare lo sciopero europeo è la coerente applicazione dell'impostazione interclassista della Cgil, che inevitabilmente mal si sposa con un reale appello alla lotta operaia. Non sottolineiamo questo elemento perché pensiamo che una diversa "preparazione" della giornata "europea" avrebbe portato all'aumento consistente dei lavoratori aderenti: ben più profonde, lo abbiamo appena detto, sono le cause delle attuali difficoltà. Lo facciamo per invitare i più attenti ed attivi proletari a riflettere su come in simili occasioni, pur consapevoli della difficilissima situazione, sia utile preparare vere assemblee, tentare di costruire una reale partecipazione di piazza, provare a prendere contatti con i lavoratori delle altre nazioni, discutere su come e quanto la difesa degli interessi proletari non possa andare a braccetto con la tutela delle compatibilità aziendali e capitalistiche.

Note

(1) "Le parti sociali dal canto loro sono consapevoli degli effetti che la contrattazione collettiva, in particolare al secondo livello, può esercitare sulla crescita della produttività" e pertanto intendono "agevolare la definizione di intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle esigenze egli specifici contesti produttivi" (pag.3 dell'accordo).

(2) "L'affidamento alla contrattazione collettiva di una piena autonomia negoziale rispetto alle tematiche relative all'equivalenza delle mansioni" (pag.9 dell'accordo).

(3) "La ridefinizione dei sistemi di orari in rapporto all'innovazione tecnologica e alla funzione dei mercati finalizzate per un utilizzo degli impianti idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività convenuti" (pagg.9 -10 dell'accordo).

(4) "La contrattazione collettiva si eserciti con piena autonomia su materie oggi regolate in materia prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro" (pag.9 dell'accordo).

(5) "Queste soluzioni contrattuali di secondo livello possono anche rappresentare un'alternativa ai processi di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti anche all'estero" (pag.4 dell'accordo).

(6) La "scala mobile" era il meccanismo che tutelava in parte automaticamente i salari dall'aumento del costo della vita.

 

Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

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