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Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

La strage contro la donna. I killer e il mandante

Nei primi dieci mesi del 2012 oltre 100 donne sono state uccise nella sola Italia dai loro ex o attuali mariti o partner. Una donna ogni due giorni. Erano state 137 nel 2011, 127 nel 2010, 119 nel 209… Nel mondo una donna su tre, nel corso della sua vita, è vittima di violenza domestica e per questa violenza una donna muore ogni tre giorni. Una strage di genere.  Nella grande maggioranza dei casi, la violenza è opera di uomini a cui le donne erano  o erano state affettivamente legate. I mass-media li presentano come “folli” o come “troppo possessivi” o come mele marce che nulla hanno a che fare con la nostra quotidiana normalità.  Uomini-mostri, insomma, che hanno agito in preda a un raptus o sotto l’effetto di alcool. E’ davvero così?

E’ rassicurante pensare che si tratti di casi estremi o isolati. I numeri, però, ci dicono che no è così, in Italia come nel mondo. Tanto che, nonostante giornalisti, sociologi e criminologi abbiano provato a delinearlo, non esiste un “profilo del maschio violento”, così come non esiste quello della donna vittima di violenza: la violenza è perpetrata da uomini di ogni età, di ogni classe sociale e livello culturale e colpisce donne di ogni età, area geografica e ceto sociale. Il 73% degli autori degli omicidi commessi in Italia nell’ultimo anno svolgeva un lavoro regolare e nel 75% dei casi lavori medio-alti.  Il 66% delle donne uccise lavorava fuori casa; le regioni in cui muoiono più donne vittime di violenza sono quelle dell’Italia dl nord. Nell’80% dei casi la violenza non è riconducibile ad alcuna problematica legata all’alcolismo, alla tossicodipendenza o a disturbi psichici: nella quasi totalità dei casi gli autori degli omicidi sono stati giudicati come persone che sapevano quello che stavano facendo; soprattutto, l’omicidio rappresenta il culmine di una violenza abituale e sistematica che si trascina da tempo e che l’ambiente circostante tollera o registra come normale fino a quando la donna ne viene colpita fino a morirne.

Fino alla soglia della civiltà…

La violenza in famiglia non rappresenta, quindi, un “inciampo” nella vita di coppia o qualcosa di “estremo” che capita all’interno delle private mura domestiche, ma qualcosa di più… Che ha a che fare sicuramente con la diffusione, cresciuta negli ultimi anni, di rapporti sociali, relazionali e lavorativi frustranti; con i tagli ai servizi sociali; con le crescenti difficoltà economiche delle famiglie, che si riversano in maniera particolare sulle donne; con le enormi difficoltà che esse incontrano quando decidono di avviare una separazione o di rendersi autonome dal marito o dal padre. Ma la violenza sulle donne chiama in causa qualcosa di ancora più profondo, di intrinseco alla società capitalistica stessa. Chiama in causa la dominazione di un sesso sull’altro su cui essa è fondata. Un effetto inevitabile delle differenze biologiche tra la donna e l’uomo, al pari della caduta di un oggetto lasciato a se stesso sotto l’azione della gravità? Non scherziamo: fino alla rivoluzione neolitica, fino alla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, fino alla conseguente nascita della proprietà privata e dello stato, fino a quando l’esistenza della specie umana dipende in misura più rilevante dalle forze prettamente biologiche, fino a quel passaggio storico i gruppi umani non conoscevano la dominazione degli uomini sulle donne. Essa nasce, invece, proprio in conseguenza e come ponte per quel passaggio storico. E da allora, man mano che procede lo sviluppo dei mezzi tecnici che permettono alle collettività umane di ridurre il peso delle forze biologiche nella produzione e riproduzione della propria esistenza, parallelamente si approfondisce l’oppressione della donna.

Lasciamo stare, quindi, una (inesistente) mitica natura umana come chiave per comprendere le radici dell’oppressione della donna. Ma allora a cosa attribuirla? All’arretratezza culturale? Peccato che in Italia, tanto per dire, la maggioranza degli assassinii avviene nelle regioni settentrionali e che la strage delle donne impazza anche negli Usa, il paese faro dell’Occidente: Negli Usa ogni 9 secondi una donna viene violentata o aggredita dal partner o da chi ha con lei un rapporto intimo. E allora? A cosa ricondurre la sottomissione della donna di cui la violenza è espressione? Alla violenza stessa? Al monopolio delle armi e della forza da parte del sesso maschile che quello femminile non è stato e non è in grado di ribaltare? Si, le armi e la forza hanno giocato e giocano un ruolo vitale. Ma esse, prima ancora di essere state e di essere la causa, sono state e sono piuttosto il mezzo col quale si è stabilita e consolidata l’oppressione femminile. E’ su questo aspetto che vogliamo soffermarci in questo articolo, proponendo a chi ci legge, anche se in una forma appena abbozzata, la chiave di lettura che emerge da alcuni brani di Engels e Marx.

Quando parliamo di violenza, essa va intesa con un duplice significato. Il primo, è quello di violenza immediata, agita, aperta o velata, fisica, sessuale o psicologica che essa sia. Il secondo significato attiene, invece, alla violenza insita nelle condizioni di esistenza che inducono “spontaneamente” la subordinazione femminile. Considerata sotto questo secondo significato, la violenza non assume necessariamente le caratteristiche di atto violento immediato, così come siamo abituati a conoscerla attraverso i fatti di cronaca. E richiede alcune condizioni preliminari, determinati da precisi rapporti produttivi e sociali. Per spiegare questo concetto, prendiamo a prestito l’esempio presentato da Engels per confutare la teoria della violenza come motore della storia e per far emergere i fattori alla base della nascita dei rapporti di dominazione: L’esempio è quello relativo all’asservimento di Venerdì da parte di Robinson.

Ammesso e non concesso, dice Engels, che si possa rappresentare la storia umana attraverso le vicende di questa mitica coppia (in confronto la fantasia di Adamo ed Eva è meno inesatta!), chiediamoci come si possa compiere tale asservimento. Certamente non per il semplice piacere da parte di Robinson di sottomettere Venerdì: Robinson vuole che Venerdì lavori per lui e gli procuri un profitto. Ma come può Robinson trarre un profitto  per sé dal lavoro di Venerdì? A condizione che Venerdì produca più mezzi di sussistenza di quanti ne servono a Robinson per mantenere Venerdì atto al lavoro. Per riuscire a fare questo, a Robinson non è sufficiente possedere la spada. Ha bisogno anche di strumenti di lavoro garanti di un certo livello di produttività e di un certo patrimonio di beni. Ma come è stata raggiunta questa dotazione? E’ stato necessario che la produttività sociale del lavoro raggiungesse un certo livello e che si determinasse un certo grado di disuguaglianza nella distribuzione dei beni prodotti. Il soggiogamento di Venerdì è possibile, conclude Engel, in quanto è funzionale alla divisione del lavoro impulsata dal più avanzato grado della produttività raggiunto dal lavoro, resa possibile  a sua volta, se calcoliamo la mitica relazione di coppia nella rivoluzione neolitica, dall’introduzione della lavorazione dei metalli, dell’allevamento del bestiame e dell’agricoltura. Certo,Venerdì non si piegherebbe a questa divisione del lavoro se non vi fosse costretto. Ma a costringerlo non è semplicemente la minaccia della spada. La spada “convince” Venerdì perché la divisione ineguale del lavoro richiesta dalle attività produttive che si sono sviluppate offre l’unico modo in cui anche lui può sopravvivere e riprodursi. Quando oggi un disoccupato è costretto ad accettare un lavoro precario e sottopagato, a cosa si piega? Alla costrizione della fame. Quando una giovane donna dell’Est “sceglie” di prostituirsi in un sexy shop di Amsterdam, sceglie liberamente?

In ogni caso, a far cessare ogni esitazione di Venerdì è un mezzo, la spada, che è essa stessa frutto dello sviluppo della produttività del lavoro e il cui monopolio da parte di Robinson è anch’esso un risultato dello sviluppo storico. Da dove viene, infatti, la spada? E perché non supporre che un bel giorno Venerdì possa apparire davanti  a Robinson con un revolver carico in mano e rovesciare il rapporto di dominazione? “Il revolver avrà la meglio sulla spada e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, che la violenza non è un semplice atto di volontà, ma che esige, per manifestarsi, condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono, inoltre, essere prodotti, il che dice allo stesso tempo che la vittoria della violenza poggia sulla produzione delle armi e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, e quindi sulla potenza economica, sull’ordine economico, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza” (Anti-Duehring).

L’oppressione femminile nasce  insieme all’oppressione di classe.

Come si applichi questa impostazione alla comprensione della nascita dell’oppressione del sesso femminile, Engels lo mostra in un altro testo, pubblicato 7 anni dopo l’Anti-Duehring: “L’origine della proprietà privata, della famiglia e dello sttao”.

“Quanto meno il lavoro è sviluppato, quanto più è limitata la quantità dei suoi prodotti e quindi anche la ricchezza della società, tanto più l’ordinamento sociale appare prevalentemente dominato da vincoli di parentela. Tuttavia sotto questa articolazione della società fondata su vincoli di parentela si sviluppa sempre più la produttività del lavoro, [nascono l’agricoltura, l’allevamento e la lavorazione dei metalli] e con ciò si sviluppano la proprietà privata e lo scambio, le disparità di ricchezze, la possibilità di utilizzare forza-lavoro estranea e la base dello sviluppo di antagonismi di classe”. E così, prima o poi, “l’antica società fondata su unioni gentilizie salta in aria nell’urto con le nuove classi sociali sviluppatesi e al suo posto subentra una nuova società, che si compendia nello Stato, le cui unità inferiori non sono più unioni gentilizie, ma associazioni locali, una società in cui l’ordinamento familiare viene interamente dominato da quello della proprietà e nella quale si dispiegano liberamente quegli antagonismi e quelle lotte di classi di cui consta il contenuto di tutta la storia scritta fino ad oggi” (L’origine della proprietà privata, della famiglia e dello stato ).

Lo sviluppo di questa società, in cui la donna è estranea alla branca della produzione diventata centrale (allevamento, agricoltura, lavorazione dei metalli ) e che richiede ( come non era accaduto in passato nelle comunità di cacciatori e pescatori) l’incremento delle braccia atte al lavoro e al comando, lo sviluppo di questa società ha bisogno che la donna si trasformi  in strumento di produzione di esseri umani e oggetto di piacere. La donna è così rinchiusa nella prigione domestica, vincolata ( diversamente dall’uomo ) alla monogamia e inferiorizzata.

Questa sottomissione non avvenne pacificamente e senza urti, fu il frutto di una guerra tra i sessi combattuta per secoli, di cui è rimasta traccia in alcuni miti. Ma la volontà di soggiogamento da parte del maschio è sorta ed è risultata  vittoriosa perché era richiesta dai mutati rapporti di produzione e di scambio, dalle esigenze di sviluppo della società umana impostata su questa nuova base antagonistica. In questo senso, la violenza ha agito come forza economica concentrata.

La società borghese eredita e funzionalizza a sé la sottomissione del sesso femminile trasmessale dalle società classiste e sessiste pre-capitalistiche. Perché? Perché il mantenimento dell’unità domestica come cellula della riproduzione della specie, che comprende la produzione e riproduzione gratuita della forza lavoro ( cos’altro sono i figli delle famiglie proletarie?), affidata principalmente alla donna, costituisce un elemento chiave anche per la società borghese moderna. Il capitale non può rinunciare alla formidabile fonte di lavoro gratuito svolto dalle donne, che è il lavoro per l’allevamento dei figli e per la ricostituzione della forza lavoro. E come può il capitale assicurarsi gratuitamente la produzione e la riproduzione della forza lavoro se non assoggettando il soggetto, in questo caso il sesso femminile, che svolge questo lavoro? Ricordate l’esempio di Robinson e di Venerdì?  Robinson assoggetta Venerdì non per il piacere di farlo ma per il fine, che è il profitto.

La violenza contro la donna è insita nei rapporti sociali capitalistici che inducono alla sottomissione della donna. E’ la normalità non-violenta delle libere relazioni sociali capitalistiche ad essere intrinsecamente violenta! E, come accaduto nelle precedenti epoche storiche, l’impersonale sistema di dominazione capitalistica fa scattare la violenza  agita non appena la donna non accetta completamente questa sottomissione o prova a ribellarsi ad essa.

Nel sistema capitalistico questa insubordinazione e l’aspirazione femminile alla piena eguaglianza con il sesso maschile è ispirata e promossa dal crescente inserimento della donna nel lavoro extra-domestico. Questa trasformazione epocale, che è stata impulsata dalle stesse esigenze del capitale e che è la base potenziale della liberazione della donna, erode il dominio del sesso maschile su quello femminile, erode le istituzioni famigliari in cui è stata imprigionata tradizionalmente la donna, sollecita oggettivamente la ( finalmente realizzabile per i mezzi tecnologici oggi ormai acquisiti) socializzazione dell’economia domestica. La sollecita senza però che il capitale la possa accettare per le ragioni del profitto e della competitività cui vincola, non può non vincolare, la sua accumulazione.

 Appoggiarsi sulle istituzioni statali?

Ecco perché per noi marxisti la lotta per la liberazione della donna è inestricabilmente legata a quella per il rivolgimento dei rapporti sociali capitalistici. Questo non significa rimandare la prima in attesa della vittoria della seconda. Siamo convinti che sia necessaria una battaglia specifica, ininterrotta, mirata a rompere tutti quei vincoli materiali, culturali e psicologici che cooperano alla interiorizzazione della donna nella vita privata e in quella “pubblica”. Che in questa battaglia occupa un posto di primo piano la denuncia e l’organizzazione della difesa del femminicidio. Che, a tal fine, vanno promosse iniziative di sostegno alle donne vittime di violenza, di informazione verso la nuova generazione, di denuncia dei collegamenti tra gli episodi di violenza e il contesto sociale in cui si collocano, di contrasto dell’approccio medico alla violenza.

Questo cammino non può, però, avere come interlocutori o alleati lo stato e le sue istituzioni (carabinieri, polizia, enti locali ). Non perché, come rilevano alcune associazioni delle donne, lo stato democratico “non esercita la dovuta diligenza per prevenire abusi domestici o perché non attua comportamenti di protezione”, quanto perché esso è, per le ragioni accennate sopra, garante di questa oppressione e dei rapporti sociali che la richiedono. E’, ad esempio il garante sociale del rilancio della competitività richiesto dalla conservazione dell’accumulazione capitalistica. E’ garante, in nome di questo rilancio, delle contro-riforme che erodono e smantellano le conquiste che il movimento proletario e femminista hanno strappato per alleggerire il doppio sfruttamento del lavoro delle donne. Si veda ad esempio l’attacco alle pensioni e in particolare al diritto conquistato dal movimento proletario, di imporre per le donne un’età pensionabile inferiore, come riconoscimento di una parte del lavoro domestico e di riproduzione svolto.

Non inganni l’attenzione (pelosa) riservata dalla Fornero, dalla Buongiorno e dalla Carfagna (degne esponenti tanto del letamaio del Cavaliere quanto delle esigenze del capitale) alla violenza sulle donne e il varo di misure legislative apparentemente finalizzate a contrastarla.

I dirigenti  della borghesia sanno che non possono continuare ad esercitare il dominio sulla donna quale strumento di produzione di forza lavoro e oggetto di piacere attraverso le tradizionali istituzioni famigliari. Non possono farlo senza nello stesso tempo ostruire il pieno utilizzo delle donne nel mercato del lavoro, senza minare il tentativo di far leva sull’aspirazione all’emancipazione della nuova generazione per rinfocolare la concorrenza nei posti di lavoro. Non è un caso che negli Usa, da oltre un decennio, le istituzioni presentano documenti ufficiali in cui si sfornano i danni economici provocati dalla violenza sulle donne, soprattutto per le giornate lavorative perse stimate in 8 milioni all’anno.

Le campagne degli ultimi governi italiani e degli altri governi occidentali sulla violenza contro la donna servono a un duplice scopo. Da un lato, si vuole scaricare sul singolo maschio, soprattutto se proletario, che preme il grilletto l’intera responsabilità dell’assassinio e coprire il mandante effettivo della strage-rappresaglia. Dall’altro lato, si vuole contenere la violenza agita dai singoli maschi nella famiglia per mettere ancor più esattamente a disposizione del patriarcalismo collettivo capitalista la capacità lavorativa, procreativa e sessuale della donna. La “lotta”  borghese alla violenza contro la donna consiste nel sottrarla a quella agita entro la famiglia per sottoporla a quella impersonale del maschio collettivo, più profonda, più raffinata, forma corrispondente al funzionamento del capitale mondializzato.

No, la lotta contro la violenza sulla donna non può contare sui governi democratici e sulle istituzioni repubblicane. Li deve inserire tra i suoi nemici. Essa, deve, invece, contare, innanzitutto, sul protagonismo delle donne e sull’auto-organizzazione delle donne. E ad essa è interessato anche il proletario, non di rado l’assassino della donna. Il lavoratore ha qualcosa da “perdere” all’immediato da questa battaglia. Ha da “perdere” quella colonia in cui riversare le sue frustrazioni, in cui esercitare il diritto a dominare l’altro sesso, che la società borghese, in quanto maschio - anche se proletario - gli ha riservato, contro se stesso. Ha da guadagnarne, però, su più fronti. La valorizzazione della forza lavoro femminile ( conseguenza dell’inferiorità sociale della donna ) costituisce per il capitale una formidabile e irrinunciabile fonte di valorizzazione della forza lavoro anche maschile, nel momento in cui la donna entra, da sfruttata, nel mercato del lavoro. Ha da guadagnare in quanto uomo, non nel senso di maschio, questa volta, ma quanto a conquista di un’umanità elevata dalla condizione animale a cui lo relega la società borghese. Nei Manoscritti economici e filosofici   Marx sottolinea quanto l’uso della violenza nel rapporto tra uomo e donna “riveli” sino a quale punto “l’uomo, come essere appartenente a una specie si sia fatto uomo”. "Il rapporto del maschio con la femmina è il rapporto più naturale dell’uomo con l’uomo. Vi si vede fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è diventato umano". 

Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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