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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

Le riforme market oriented di Xi e il cambio di passo della locomotiva cinese. Il processo a Bo Xilai: dietro  lo scontro al vertice del partito "comunista" cinese

È un nostro chiodo fisso: non si può intendere il senso di marcia di quello che sta accadendo in Europa, l’attacco dei governi e dei padroni contro i lavoratori in Europa, la difficoltà di questi ultimi a difendersene senza collegare le vicende europee a quello che sta accadendo in Asia, ed in particolare in Cina.
Dalla Cina arrivano “novità” importanti: nel corso del 2013 vi sono stati la diminuzione del tasso di crescita reale dall’11% degli anni precedenti all’8%, il passaggio del testimone dalla coppia Hu Jintao e Wen Jiabao alla coppia Xi Jinping e Li Keqiang, il processo al loro rivale, l’ex-segretario del partito di Chongqing, Bo Xilai. Cominciamo da questo terzo avvenimento, dal contrasto apertosi nella direzione del partito “comunista” cinese. Alcuni mezzi di informazione lo hanno ridotto alla concorrenza tra alti papaveri “rossi” per sedersi sulla poltrona del potere. C’è probabilmente anche questo, com’è fisiologico che sia nella politica borghese, qual è quella che domina la scena anche in Cina. Il contrasto è, tuttavia, più profondo: Bo Xilai è l’esponente di una frazione del partito “comunista” cinese, con rilevanti appoggi popolari in alcune regioni del paese, che esprime un programma politico diverso da quello portato avanti ieri da Hu-Wen e ora da Xi-Li. Qual è il programma di Bo? Quello della difesa e dell’emancipazione dei lavoratori nella prospettiva del socialismo, come abbiamo letto su alcuni giornali di sinistra? Neanche per il sogno.
Bo Xilai e la famiglia da cui proviene sono stati tra i protagonisti della liberalizzazione dell’economia avviata da Deng Xiaoping. Il padre di Bo Xilai, Bo Yibo, fu estromesso dalla stanza dei bottoni nel 1965 per le sue proposte di apertura del paese alle relazioni con l’Occidente. Tornò ad assumere ruoli ministeriali dal 1979 (come vice primo ministro) al tempo dell’avvio delle riforme di Deng. In quegli anni mosse i primi passi anche la carriera politica di Bo figlio. Nel 1992 Bo Xilai divenne sindaco
di Dalian, dal 1995 assunse la direzione del partito del distretto, dove promosse la politica di Deng. Dal 2004 al 2007 ha ricoperto la carica di ministro degli esteri. Nel 2007 è entrato nel comitato centrale del partito e ha assunto la carica di segretario della municipalità di Chongqing, di cui ha supervisionato lo sviluppo capitalistico in collaborazione con la direzione centrale del partito e dello stato capeggiata dalla coppia Hu-Wen...
Lasciamo stare, quindi, la rappresentazione di Bo Xilai come un campione degli interessi, immediati e storici, del proletariato. Ciò non significa, tuttavia, che il contrasto tra Bo Xilai e l’attuale direzione di Xi e Li sia un gioco delle parti. Il contrasto è reale. È un contrasto sorto negli ultimissimi anni in seno alla direzione borghese cinese su come calibrare i passi futuri dello sviluppo capitalistico del paese. La natura del contrasto trova una spia nella prima notizia ricordata in apertura: la riduzione del 30% del tasso di sviluppo del paese.

Nel 2013 la locomotiva cinese ha, quindi, rallentato la sua marcia. Questa riduzione è stata in parte pilotata dalla manovra monetaria della banca centrale al fine di controllare la speculazione nel settore immobiliare.  Essa è, tuttavia, anche il frutto di un mutamento profondo in corso nell’economia cinese. Cosa bolle in pentola?

È quasi esaurita l’epoca, durata più di trent’anni, in cui le imprese (statali e private, cinesi e occidentali) potevano intascare elevati tassi di profitto grazie ad un favorevole mix di fattori: immenso esercito di lavoratori poveri provenienti dalle campagne; immenso mercato in cui costruire quasi da zero infrastrutture, città e stabilimenti industriali; vantaggioso trasferimento dall’Occidente di tecnologie produttive già ampiamente sperimentate e notevolmente più efficienti di quelle medie disponibili nel paese; convergenza tra le esigenze di crescita capitalistica della Cina e le brame dell’Occidente imperialista, dai primi anni ottanta alla ricerca spasmodica nell’Est e nel Sud del mondo di forza lavoro abbondante, laboriosa, poco pretenziosa sul piano dei salari e dei diritti. (1) La "spinta propulsiva" di questo tipo di crescita capitalistica sta per esaurirsi.

Nessuna novità storica, imprevista o imprevedibile, come si legge spesso nelle analisi correnti (anche di sinistra) delle vicende cinesi. La tiritera ripete in mille salse la monotona tesi che le vicende cinesi sfuggono a qualsiasi schema interpretativo. Una simile dichiarazione di impotenza non ci sorprende in chi ha fatto del pensiero debole il proprio forte. Il marxismo rivoluzionario non è di questa partita.

Gli sviluppi cinesi, di cui lo scontro in seno alla direzione del partito è un anello, si inquadrano perfettamente entro il suo schema di analisi del funzionamento del capitalismo. Un accenno a quello che prevede questo schema, rimandando, per uno studio militante, direttamente a Il Capitale di Marx, non è, quindi, un’oziosa divagazione.

Plusvalore assoluto, plusvalore relativo

Pur diverse nei dettagli, le teorie economiche ufficiali concordano su un punto: l’economia capitalistica avrebbe l’obiettivo di soddisfare i bisogni della popolazione umana. Il vangelo degli economisti racconta che l’industriale, rilevata la domanda di un certo bene già in circolazione o appena progettato, si prende la briga di portarlo sul mercato sotto forma di merce, di usare l’eccedenza di valore che intasca per ampliare l’investimento futuro, allargare (in quantità e varietà) le merci offerte sul mercato, ampliare e arricchire i bisogni soddisfatti dei consumatori. Per Marx ed Engels questa rappresentazione ribalta l’effettivo rapporto tra mezzo e fine. In tanto i capitalisti producono i beni richiesti dalla riproduzione allargata (lasciamo stare quanto felice!) dell’umanità, in quanto questa attività economica è il mezzo per raggiungere un altro fine: quello di ricavare una somma di denaro superiore a quella investita.

Il secondo punto decisivo per comprendere il funzionamento della società borghese è quello relativo all’origine di questa eccedenza. Anche qui le teorie ufficiali sono volgari e mistificanti. Per Marx l’eccedenza di valore (che egli chiama plusvalore) è il frutto del lavoro dei salariati e solo di esso. Per Marx tutta la ricchezza prodotta ex-novo in un ciclo produttivo nasce, in realtà, da questo lavoro. Una parte della giornata lavorativa (chiamata parte necessaria della giornata lavorativa) fornisce il reddito dei lavoratori, il loro salario. Un’altra parte (il plusvalore) viene incamerata da chi possiede la proprietà dell’intrapresa, dai capitalisti. È come se una parte della giornata lavorativa degli operai fosse dedicata a produrre la ricchezza che fa campare loro e le loro famiglie e l’altra parte della giornata lavorativa servisse ad aumentare la somma di denaro posseduta dai capitalisti.

Conclusione: se l’obiettivo dell’attività economica capitalistica è il plusvalore, allora tale attività, considerata nel suo svolgimento nel corso degli anni, non può essere altro che investimento di valore per generare una massa di plusvalore progressivamente più ampia. Il capitale è, quindi, la produzione e la riproduzione della vita sociale per generare valore che deve valorizzarsi. È valore in processo. È il movimento infernale del valore che si trasforma in macchine, materie prime, lavoratori per tornare ad essere valore aumentato grazie all’incorporazione di una quantità di ore di lavoro non pagato via via crescente. La brama di dollari di un Paperon de’ Paperoni rappresenta l’anima  del capitale molto meglio delle mistificanti teorie ufficiali.

Il capitale ha a disposizione due metodi principali per realizzare il suo obiettivo di aumentare senza posa la massa del plusvalore. Il primo metodo, da Marx chiamato plusvalore assoluto, si basa sull’aumento dell’energia lavorativa di cui i lavoratori sono espropriati mediante la crescita della giornata lavorativa sociale a parità della quota di questa giornata riservata al sostentamento della classe lavoratrice. La crescita della giornata lavorativa può avvenire mediante l’aumento del numero dei lavoratori occupati, l’allungamento della loro giornata lavorativa, l’allungamento della loro vita lavorativa e l’intensificazione della loro prestazione.

Il secondo metodo, da Marx chiamato plusvalore relativo, lascia invariata la giornata lavorativa sociale ed aumenta l’energia lavorativa di cui il capitale espropria i lavoratori riducendo la parte della giornata lavorativa in cui i lavoratori producono il valore equivalente alle merci che entrano nel loro paniere di consumo. Questa compressione avviene per mezzo dell’aumento della produttività del lavoro e della corrispondente diminuzione del valore delle merci che entrano nel consumo dei proletari. Il metodo del plusvalore relativo richiede un cambiamento nelle tecniche produttive, di cui il primo esempio si è avuto alla fine del Settecento in Gran Bretagna con l’invenzione delle macchine tessili e della grande industria moderna.

Nello sviluppo "logico"-storico dell’accumulazione capitalistica si susseguono (intrecciandosi e condizionandosi a vicenda) due fasi, quella in cui la massa del plusvalore cresce con il metodo assoluto e quella in cui i capitalisti, a corto di artigiani e contadini o disoccupati pronti ad essere assunti nell’industria e, anzi, incalzati (in conseguenza di ciò) dalla pressione delle rivendicazioni dei lavoratori occupati, trovano nell’aumento della produttività del lavoro la leva principale per aumentare la massa del plusvalore. Per trent’anni la Cina è stata immersa nella prima fase. Negli ultimi anni lo sviluppo capitalistico cinese ha cominciato a premere per passare alla seconda fase. Lo riconoscono, a modo loro, anche le fonti ufficiali. Sentiamo.

I due programmi borghesi in campo

"I paesi a basso reddito possono competere nel mercato internazionale puntando sulle produzioni ad alta intensità di lavoro, sulle merci a basso costo e sulle tecnologie sviluppate all’estero. Tali paesi ottengono elevati aumenti nella produttività grazie alla riallocazione del lavoro e del capitale dalle attività agricole arretrare alle attività manifatturiere moderne. Non appena i paesi accedono a un livello di reddito medio, la forza lavoro rurale sottoccupata decresce e i salari crescono, erodendo la competitività" (Word Bank, China 2030, 2013, p.12, documento preparato con la collaborazione di studiosi compresi nella squadra di Xi e Li). "Il presidente cinese Xi Jinping, in un giro di ispezione nella Cina centrale, ha chiesto l’approfondimento delle riforme e l’attuazione di strategie di sviluppo trainate dall’innovazione. (...) Xi ha messo in rilievo che le trasformazioni del modello della crescita economica dovrebbero avere come centro la modernizzazione delle strutture industriali e la soluzione del problema della sovraccapacità. Xi ha esortato le imprese cinesi ad avvalersi prontamente delle opportunità offerte dalla rivoluzione scientifica e tecnologica.

Xi ha anche visitato la Central South     University, un centro di ricerca tecnologico e laboratorio di stato. Xi ha sottolineato che per superare la strozzatura che sta soffocando lo sviluppo economico della Cina occorre far leva sull’innovazione e sulla tecnologia" (Xinhua, agenzia ufficiale cinese, 5 novembre 2013). Già: preparato e generato dal quarantennio di accumulazione capitalistica primitiva maoista, il grande balzo in avanti denghista, dopo trent’anni di cavalcata, non riesce ad accrescere la massa del plusvalore al ritmo precedente. Non vi riesce perché l’esercito dei contadini disposti a inurbarsi è diventato insufficiente (e tale rimarrà a meno della modifica della politica del figlio unico e di un’altra accelerazione nel mutamento dei rapporti sociali nelle campagne nell’espropriazione dei contadini poveri, nel rinnovamento delle tecniche agricole). Non vi riesce perché, grazie a questa carenza di manodopera, il proletariato ha acquisito un potere contrattuale che gli ha permesso, sulla base di lotte e mobilitazioni vere (ne abbiamo parlato nei precedenti numeri), di contenere la durezza dello sfruttamento, di elevare il proprio salario e di conquistare un iniziale spazio di contrattazione sindacale nei posti di lavoro. La classe dei capitalisti (statali e privati) cinesi può superare questa "strozzatura" se passa a un’accumulazione intensiva, se implementa un balzo nella produttività del lavoro, se le sue imprese si dispongono a usare le materie prime (soprattutto l’energia e l’acqua) con maggiore efficienza, se tali imprese cominciano a usufruire organicamente anche del plusvalore estratto dai lavoratori degli altri paesi del Sud del mondo entrando nel gotha del capitale finanziario mondiale, al momento monopolizzato dall’Occidente.

Questo mutamento non può realizzarsi spontaneamente, per effetto delle scelte a cui le singole imprese sono costrette dai vincoli di mercato e che, in parte, sono già in corso di esecuzione. (2) Il passaggio all’accumulazione intensiva richiede anche un intervento finalizzato dello stato, una politica statale di ampio respiro che promuova e guidi le scelte dettate spontaneamente dalle relazioni di mercato. Tanto più che tale trapasso non è solo un’operazione produttivo, tecnologica e finanziaria, ma implica e richiede un riorientamento nei rapporti tra le classi all’interno della Cina, e prima di tutto tra quella dei capitalisti, altamente stratificata, e quella dei proletari. Non è più rinviabile, ad esempio, la costruzione di un sistema di servizi sociali (educazione, previdenza, sanità) per la massa dei lavoratori inurbati dalle campagne. Essa è richiesta dall’esigenza di contenere le contraddizioni sociali già emerse negli ultimi anni e dall’esigenza di allargare il consumo di massa (altro aspetto dell’accumulazione intensiva) come traino per la produzione industriale, non più sufficientemente carburata dalla ormai quasi ultimata costruzione delle attrezzature industriali e infrastrutturali in Cina.

Senza una politica statale di indirizzo il sogno della borghesia cinese è destinato a incagliarsi nell’intreccio tra l’esplosione della lotta di classe all’interno del paese e l’accerchiamento imperialista diretto dagli Usa. Sull’urgenza di questa svolta nella crescita del paese e nella politica statale Xi Jinping e Bo Xilai sono d’accordo. Il contrasto tra Xi Jinping e Bo Xilai nasce sul ruolo assegnato allo stato in questo trapasso e sulle misure da attuare per favorirlo. La direzione attualmente in sella ha etichettato la sua politica con la formula "approfondimento delle riforme economiche [iniziate da Deng]". Essa prevede la riduzione del ruolo diretto dello stato nell’attività economica, la riduzione dei privilegi di cui godono le imprese statali nell’approvvigionamento energetico e finanziario, il riorientamento della produzione industriale verso l’esportazione e verso le merci di largo consumo ad uso interno, la liberalizzazione dei prestiti bancari, la progressiva convertibilità della moneta, la parziale privatizzazione della terra, l’introduzione di una tassa fondiaria e/o immobiliare con cui i governi locali possano finanziare la costruzione di un sistema di welfare misto fondato sulla doppia gamba statale e privata (sul modello della Svezia) senza incappare nell’oneroso (per i padroni) modello tradizionale europeo statalista.

Questo programma si contrappone a quello di Bo Xilai, che, invece, intende puntare ancora sul ruolo privilegiato assegnato alle imprese di stato nell’allocazione delle risorse, sulla continuazione della crescita trainata dai lavori infrastrutturali e dall’edilizia, su un sistema di welfare statalista e sul mantenimento della proprietà collettiva della terra (3). Il programma di Bo viene considerato rischiosissimo dall’attuale dirigenza cinese: si teme che esso conduca a un blocco dello sviluppo capitalistico cinese, non stimoli le imprese cinesi a portarsi al livello di competitività delle imprese occidentali, non permetta di rispondere all’aspirazione del ceto medio e della massa proletaria di accedere (ciascuno con i propri coefficienti di reddito) ai consumi di massa, indebolisca la Cina rispetto allo scontro prospettico con gli Usa che si intravede all’orizzonte. Facciamo parlare ancora il rapporto della World Bank, elaborato con la partecipazione di alcuni esponenti della squadra di governo di Xi e Li.

"Vista la solida situazione fiscale della Cina, potrebbe esserci la tentazione di avviare un progetto di servizi pubblici e di welfare simile a quello delle economie avanzate. Ma la Cina deve garantire che la spesa per i servizi aumenti in modo cauto e in linea con le risorse fiscali disponibili. La Cina non ha intenzione di cadere vittima della cosiddetta "trappola del reddito alto", per cui i servizi pubblici finanziati dallo stato diventano fiscalmente insostenibili" (pp. 21-22). "Il governo (cinese) deve ritirare il proprio coinvolgimento diretto nell’ambito della produzione, distribuzione e allocazione delle risorse, e focalizzarsi maggiormente sulla progettazione e sull’attuazione di una politica e di un quadro normativo che consenta ad altri attori di partecipare alle decisioni economiche, al fine di ottenere il risultato desiderato di una crescita rapida, sostenibile e inclusiva. Per svolgere questo ruolo, il governo dovrà trasformarsi in un governo moderno, snello, pulito, trasparente e altamente efficiente, che agisca secondo la legge. Nel ridefinire il suo ruolo, il governo dovrà accelerare le riforme nel settore statale e combinarle con ulteriore sviluppo del settore privato. Dovrà anche portare avanti le riforme nell’ambito dei cosiddetti fattori di mercato (capitale, terra e lavoro) per contribuire a rafforzare le fondamenta di un’economia di mercato e promuovere una maggiore concorrenza e innovazione.

Allo stesso tempo, il ruolo delle classi sociali dovrà cambiare significativamente: la classe media dovrà diventare una forza importante nella promozione dello sviluppo armonioso, attraverso una maggiore partecipazione delle persone nel processo di sviluppo" (p.17).

Non un passo indietro dal capitalismo di stato, ma un passo in avanti verso il capitalismo di stato

La squadra dirigente di Xi e Li non prevede, dunque, la scomparsa del ruolo dello stato nell’economia. Prevede un mutamento nel tipo di intervento statale. Ad esempio, le imprese di stato (4), delle quali non si prevede affatto la scomparsa, devono continuare a svolgere il ruolo di drivers dell'accumulazione cinese, questa volta con il compito di promuovere il passaggio allo sfruttamento intensivo della manodopera e all’internazionalizzazione dell’investimento. Esse stesse devono, però, essere guidate su questa strada, superando le resistenze dei quadri dirigenti e degli occupati, riducendo le rendite di posizione di cui esse godono (prezzi scontati delle materie prime, accesso agevolato all’acquisto della terra e ai finanziamenti bancari). La liquidità controllata dalle banche o nella vasta rete informale del traffico di denaro va invece distribuita verso i settori più redditizi e innovativi (con la completa liberalizzazione dei tassi di interesse) e verso l’investimento estero (con la progressiva convertibilità della moneta nazionale, per ora operativa nell’esperimento pilota da poco avviato nella Free Trade Zone di Shanghai).

Le imprese di stato devono anzi contribuire con una quota dei loro ricavi (finora gestiti non dal tesoro cinese ma da un organismo semi-autonomo) al finanziamento del sistema sanitario, educativo e previdenziale che lo stato cinese deve mettere in piedi. Devono razionalizzare i loro stessi investimenti senza continuare a clonare infrastrutture che possono sì portare palate di profitti nelle casse di un’impresa, di un dirigente di partito locale o di un settore ma a svantaggio della profittabilità della macchina capitalistica cinese nel suo insieme. È con questa preoccupazione che nel corso del 2013 la dirigenza cinese ha accorpato il ministero delle ferrovie (finora indipendente nel budget e persino nell’amministrazione giudiziaria) in quello dei trasporti, non senza significative proteste dei funzionari colpiti nella loro libertà di manovra. Non meno capitalismo di stato, quindi, ma un altro passo verso il capitalismo di stato, verso un veroaccentramento dei singoli capitali e della massa degli sfruttati alle leggi del sistema capitalistico mondiale.

Il gruppo dirigente cinese in sella non prevede una politica liberista neanche nei confronti dei lavoratori. Anch’esso, come ha fatto Bo Xilai a Chongqing, ha "appoggiato" (occhio alle virgolette) il movimento rivendicativo dei lavoratori, soprattutto nelle metropoli costiere della Cina:  lo ha fatto perché reprimerlo era impossibile e perché, opportunamente incanalato, lo si vuole usare come un pungolo sulle aziende affinché si modernizzino e, come dice l’economia ufficiale, "risalgano la catena del valore". Anche l’attuale presidenza e l’attuale governo intendono, poi, porre fine all’hukou, permettere (gradualmente) ai mingong di godere di pieni diritti civili e sociali nelle città in cui lavorano e dare libero corso alla spinta verso una società dei consumi di massa che anima le decine di milioni di ceti medi in formazione e la massa proletaria.

Per Xi e Li l’"approfondimento delle riforme" richiede anche nuovi interventi nelle campagne. Essi ritengono sia arrivata l’ora per la privatizzazione, almeno parziale, della terra. I risultati attesi da questa misura sono molteplici: liberare una nuova massa di contadini da inurbare e con cui rinfoltire l’asfittico esercito industriale di riserva; mettere in mano a questa massa un gruzzoletto con cui acquistare la casa e le polizze assicurative previdenziali e sanitarie; superare la parcellizzazione delle strisce di terra coltivate, creare le condizioni per introdurre tecniche e macchine agricole più efficienti e alleviare una delle spine nel fianco della potenza capitalistica cinese: l’importazione della soia e dei cereali; permettere ai poteri locali di introdurre una tassa sulla proprietà terriera con cui finanziare gli interventi di welfare (sanità, educazione, edilizia popolare) senza dipendere, come accade oggi, dal ricavato una tantum della vendita di strisce di terra del villaggio alle imprese che intendono stabilirsi nell’area.

Nel programma di Xi e di Li c’è anche un calcolo capitalisticamente più lungimirante di quello di Bo verso la massa di decine di milioni di giovani sfornati dalle università cinesi e smaniosi di proseguire la scalata sociale, la "tribù delle formiche" di cui ha parlato il sociologo cinese Lian Si. Piuttosto che incanalarne l’energia verso la sistemazione statalista inevitabilmente limitata a una porzione degli aspiranti e lasciare la rimanente al rischio della deriva occidentalista, la si vuole incoraggiare (con finanziamenti delle banche e opportuni progetti di start-up guidati dall’alto dai centri economici statali) a fornire una base di massa all’innovazionetecnologica, mettendo in piedi una gigantesca Silicon Valley cinese dall’immensa ricaduta economica e sociale. Insomma, la leva statale dall’alto deve combinarsi con la creativa e libera iniziativa dal basso per mettere in campo l’innovazione tecnologica e il sostegno di massa richiesti dal consolidamento della potenza capitalistica della Cina.

La classe dirigente cinese è consapevole che un programma simile è destinato a scontrarsi con la resistenza di alcuni strati della borghesia cinese, soprattutto di quadri e dirigenti delle imprese di stato, e forse di alcuni settori di lavoratori. È consapevole, altresì, dell’urgenza del "cambio". Il "nuovo corso" era stato già impostato nel 2007, l’anno in cui, tra l’altro, è stata elaborata e approvata la nuova legge sul lavoro. Esso ha subìto una battuta d’arresto nel 2008-2011, a causa dell’esigenza del governo centrale di attutire i contraccolpi della crisi finanziaria occidentale con un gigantesco piano di finanziamento pubblico delle attività edilizie e infrastrutturali. Il piano è servito alla bisogna, ma ha anche amplificato le distorsioni maturate nella fase di sviluppo estensivo. Un ulteriore ritardo nel modificare un’imbracatura statale non più adeguata a una struttura economica e sociale divenuta ben altrimenti complessa può compromettere l’ascesa del "sogno cinese". 

Più volte nel corso del 2013 la stampa ufficiale cinese ha riportato l’allarme lanciato da Xi sull’eventualità di un collasso simile a quello che nel 1989-1990 portò al crollo del blocco organizzato attorno all’Unione Sovietica. Nel già citato rapporto della World Bank è scritto: "Se c’è una cosa che le crisi di sistema hanno insegnato, è l’importanza di evitare l’eccesso di fiducia e di restare vigili su potenziali problemi derivanti da cause sociali, economiche e naturali.

I paesi devono garantire che una tale vigilanza diventi parte integrante del sistema nazionale di gestione dei rischi"(p. 68). In particolare si sottolinea di essere in guardia di fronte alla tentazione di difendersi dai problemi (e dall’aggressione esterna) con "un ritiro dai meccanismi di mercato e un ritorno alle misure amministrative" (p.69).

La Cina di Xi e Li nell’arena mondiale

In astratto la Cina borghese potrebbe affrontare questo passaggio senza terremoti sistemici. Dalla sua avrebbe l’ampiezza del mercato nazionale, di fatto continentale, il consenso che il modello di una società capitalistica avanzata in salsa confuciana trova non solo tra i capitalisti cinesi (ben rappresentati nel partito "comunista cinese e nell’assemblea popolare nazionale) ma anche tra i contadini e tra gli operai, gli spazi verdi aperti dall’industrializzazione in corso nel Sud del mondo e nella stessa Russia orientale. Due scogli, legati tra loro, potrebbero, però, sbarrarle la strada.

Primo. A differenza degli anni ottanta-novanta, oggi non sono già pronti (in qualche altro paese) i nuovi metodi produttivi capaci di assicurare l’aumento di produttività cercato. Non è neanche scontato che riescano ad essere messi a punto nei tempi e nella misura richiesti per motivi che attengono non strettamente alla Cina ma al grado di sviluppo raggiunto dal sistema capitalistico nel suo insieme.

Secondo. La trasformazione in corso nell’economia e nella politica cinese non avviene nel vuoto pneumatico.  Il sistema capitalistico mondiale non è un assemblaggio di capitalismi nazionali indipendenti. È un sistema unitario, combinato e diseguale. Per un trentennio la crescita economica cinese si è giovata dell’assist del mercato mondiale e degli (interessati) investimenti delle multinazionali occidentali. Ora le cose sono cambiate: le aspirazioni borghesi autonome della Cina non convergono più con quelle imperialistiche, soprattutto con quelle degli Usa. Gli Usa hanno avviato una crociata con cui accerchiare la Cina, impedirle di accedere alle vitali riserve di caccia mediorientali, africane e latinoamericane, soprattutto ostruirle l’accesso alle fonti energetiche del Medioriente e dell’Africa. Nello stesso tempo la Cina è costretta a uscire da casa sua. Non può chiudersi in una specie di splendido isolamento, come accadde alla Cina imperiale del XV secolo prima che l’Europa prendesse il sopravvento sul pianeta. Non può farlo anche perché, come abbiamo discusso nei numeri precedenti, il proletariato cinese è diventato "grande": anche semplicemente il tentativo architettato dal vertice del partito "comunista" cinese di  mantenerlo entro le maglie di un nuovo "compromesso sociale" è impossibile senza il corrispondente tentativo di far entrare la Cina nel gotha del capitalismo mondiale e di dispiegare una muscolosa politica estera.

Anche su quest’ultimo piano non c’è contrapposizione di fondo tra il programma di Bo Xilai e il programma di Xi Jinping. Non abbiamo da una parte una politica nazionalistica "assertiva" e dall’altra una politica accondiscendente all’arroganza degli Usa, del Giappone e dei loro alleati più o meno servili dell’area. La differenza, anche in questo campo, è nei modi e nei tempi. Xi e Li sono convinti che la Cina abbia bisogno ancora di tempo per rafforzarsi sul piano economico e militare, un tempo che invece è (giustamente) considerato corrosivo per la forza residua degli Usa. L’apparente politica distensiva promossa da Pechino, anche a costo, come accaduto in Medioriente, di fare qualche passo indietro nel consolidamento dei propri interessi immediati, è dettata da questo calcolo: mira a guadagnare tempo per completare le riforme interne messe in cantiere, costruire il consenso dei vari strati sociali attorno ad esse, dispiegare la propria politica estera a piccoli passi, soprattutto verso il Sud del mondo.

Politica estera che, in ogni caso, è tutt’altro che rinunciataria, come dimostrano la partecipazione alla missione Onu in Mali, la formazione di un unico ministero costiero per la gestione centralizzata delle dispute sugli arcipelaghi del mar Cinese, l’inclusione delle isole Diaoyu nell’area in cui si chiede il riconoscimento degli aerei stranieri, l’accordo concluso con il Nicaragua per la costruzione di un canale tra l’oceano Atlantico e l’oceano Pacifico, la cura con cui si stanno consolidando le relazioni con le repubbliche ex-Urss dell’Asia centrale (in particolare con il Turkmenistan e l’Uzbekistan), gli accordi in campo agricolo con l’Ucraina e la Romania.

Le stampa occidentale specializzata sta seguendo con attenzione gli avvenimenti cinesi. Nutre la neanche troppo velata speranza di vedere la locomotiva cinese deragliare e realizzato il sogno occidentale di reconquista dell’immenso mercato e del pieno controllo della forza-lavoro cinese.

Alcuni commentatori hanno, tuttavia, lasciato da parte gli iniziali toni ottimistici e hanno dovuto ammettere che le riforme market-oriented di Xi non saranno la ripetizione di quelle avviate da Gorbaciov nell’ex-Urss. E che non sarà facile per loro riagguantare lo sviluppo capitalistico della Cina per implosione interna, come è accaduto con l’ex-blocco dell’Est, senza una previa, e nient’affatto scontata nell’esito, conflagrazione generale.

Noi del "che fare", dalla parte opposta della barricata, ce ne rallegriamo, perché, pur in presenza di un mondo sfruttato che, in forme e misura diverse, in Cina e in Occidente, è alla coda delle rispettive borghesie, questa dinamica internazionale, lungi dal portare a un mondo multipolare meno iniquo socialmente e meno squilibrato ambientalmente, come sognano neo-armonicisti filo-cinesi, rende altamente instabile il dominio del capitale mondiale. Una delle condizioni, insieme ai cataclismi generati dalla turbolenza in cui tale instabilità è destinata a sboccare, della rottura in profondità della pace sociale in Europa, in Cina e negli altri continenti. È questa la trasformazione epocale che, al di là dei tempi richiesti, matura, in Cina in Occidente e altrove, attraverso lo scontro politico in corso in Cina. Tale scontro non si svolge solo nei palazzi del potere. Attraversa la società e vede protagonista anche la massa dei proletari. Essi ne sono in qualche modo "coinvolti". Come, con quali attese e con quali prospettive, lo vedremo nella prossima puntata.

(2) La Foxcon, ad esempio, che ha sperimentato negli ultimi anni la ribellione dei suoi operai e delle sue operaie alle condizioni infernali esistenti nei suoi stabilimenti e che ha dovuto scendere a compromessi con le rivendicazioni proletarie, ha iniziato la massiccia introduzione di robot (si parla di un milione in pochi anni). Da qualche anno, poi, le imprese industriali e finanziarie cinesi non limitano più il loro investimento estero al settore minerario e agricolo, con l’obiettivo essenzialmente strategico di assicurare il rifornimento delle materie prime all’industria in Cina, ma lo stanno estendendo verso le imprese industriali e finanziarie nei paesi occidentali (ad esempio nel settore delle telecomunicazioni, nel settore automobilistico e nel settore assicurativo) per usufruire della loro superiore redditività e per accedere al loro patrimonio scientifico e tecnologico. L’occhio è rivolto anche all’Ue e all’Italia (v. Il Sole 24 Ore del 29 ottobre 2013). 

(3) È su questo programma che è imperniata la cosiddetta "Nuova Sinistra Cinese". Uno dei suoi esponenti, Minqi Li, in un’intervista al manifesto del 20 marzo 2013 afferma: "La trasformazione capitalista della Cina [il passaggio dall’accumulazione capitalistica originaria di Mao ad un primo moderno industrialismo capitalistico sotto Deng, n.] ha portato sempre più conflitti sociali e il degrado ambientale. Bo Xilai è fra i politici che si erano resi conto che il percorso attuale di sviluppo della Cina è insostenibile. Quando era segretario di Chongqing, ha fatto sforzi per regolamentare il settore privato, per ripristinare la sicurezza delle persone (con il giro di vite sulla criminalità organizzata) e per ridurre le disparità di reddito."

(4) Nel 2010 lo stato aveva una partecipazione di maggioranza in 115 mila imprese. Tali imprese contribuivano al 30% del pil. Tra queste imprese svettava un’élite di 150 imprese, in posizione dominante nei settori strategici del cemento, dell’acciaio,dei minerali, della chimica, dell’automobile, dell’informatica, dell’aviazione. Queste 150 imprese hanno registrato un attivo totale di 300 miliardi di dollari. Quaranta di queste imprese sono comprese nella lista delle 500 più grandi compagnie stilata dalla rivista Fortune. Finora hanno goduto di facilitazioni nell’acquisto della terra, nell’accesso ai finanziamenti bancari, nei prezzi delle materie prime.

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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