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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

Dopo la strage di Stato di Lampedusa: a fianco dei nostri fratelli di classe immigrati!

La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, nella quale hanno perso la vita 366 immigrati, è l’ultimo episodio di una vera e propria guerra (1). Una guerra dove le vittime vengono incriminate e i mandanti delle stragi si ritrovano a versare lacrime di coccodrillo di fronte a bare senza nomi. Dei 366 annegati in mare non si conoscono né nomi né volti. Si sa solo che erano uomini, donne e bambini provenienti in gran parte dalla Somalia e dall’Eritrea. Anche dei 155 sopravvissuti non si sa granché, tranne il fatto che, appena toccata terra, sono stati inquisiti per il "reato di immigrazione clandestina". L’altra cosa che sappiamo di questi "sconosciuti" è che la loro storia è comune a quella di centinaia di migliaia di altri lavoratori che hanno tentato, tentano e tenteranno di migliorare la propria esistenza cercando di arrivare, tra mille difficoltà, in Europa.

Dei colpevoli e dei mandanti della strage, invece, conosciamo bene volti, nomi e provenienza. Sono coloro che risiedono nei consigli d’amministrazione delle banche e delle multinazionali europee, che dominano le borse e la finanza, che guidano i governi e che siedono nei posti di potere delle istituzioni continentali: capi di stato, primi ministri, ministri, uomini d’affari, capitani d’industria e pezzi da novanta dell’Un ione Europea. Sono coloro che, appena due anni fa, pur di stroncare ogni tentativo di "rinascita" africana non hanno esitato a rovesciare tonnellate di bombe sulla Libia e ad armare la mano di bande criminali e mercenarie contro il governo di Tripoli.

Si tratta, insomma, della cupola capitalistica del "vecchio continente" impegnata nel confermare la plurisecolare opera di saccheggio e di dissanguamento dell’Africa iniziata col colonialismo prima e proseguita poi con i moderni mezzi della finanza mondializzata.

L’indifferenza dei lavoratori italiani

Di fronte ai fatti di Lampedusa i lavoratori italiani hanno reagito con gelida indifferenza. Pochi ne hanno parlato e coloro che l’hanno fatto non hanno certo speso parole di solidarietà o di sconcerto per quanto accaduto Nessuna assemblea sui posti di lavoro, pochissime discussioni e qualche sparuta iniziativa di carattere sindacale (molto) scarsamente partecipata. Anche chi come noi ha tentato d’intavolare una discussione nei luoghi di lavoro ha avuto risposte di questo tenore: "Si, ci dispiace per quello che è successo, ma loro devono capire che qui non possono arrivare facilmente. Già abbiamo tanti problemi di nostro, già non c’è lavoro per noi e la crisi si fa sentire. Se continua ad arrivare altra gente, noi che fine faremo?" Già: che fine faremo? Questa domanda non è campata in aria. I sentimenti di "indifferenza" e/o di aperta ostilità manifestatisi anche dopo i tragici accadimenti di Lampedusa non hanno le loro radici nell’"ignoranza" dei proletari, nella loro scarsa "educazione civica" o in una presunta matrice genetica razzista. Così come, allo stesso modo, non le hanno le recriminazioni (comunissime nelle periferie delle città) contro gli "immigrati che rubano il lavoro e intasano ospedali, scuole e autobus".

Le radici di queste posizioni razziste  e suicide per gli interessi degli stessi lavoratori che le sostengono, sono profondamente materiali. Il continuo arrivo di lavoratori immigrati mette realmente i proletari autoctoni sotto pressione. Genera e accresce una concreta competizione al ribasso in tutti gli ambiti della vita sociale. Nel mercato del lavoro. E nella fruizione dei servizi: dai pronto soccorso pieni, alle centellinate assegnazioni delle case popolari esistenti; dagli scarsi posti disponibili negli asili nido comunali, all’utilizzo dei mezzi pubblici.

Noi non neghiamo questa situazione. Noi affermiamo che la strada per superarla è completamente diversa da quella che va per la maggiore tra i lavoratori. La stragrande maggioranza dei lavoratori pensa, più o meno esplicitamente, di poterlo fare chiedendo allo stato e alle istituzioni di innalzare dei "muri" alle frontiere che impediscano (o riducano al minimo) l’afflusso di nuovi immigrati e invocando norme e leggi che nel mercato del lavoro e nella fruizione dei servizi mettano al primo posto "i diritti degli italiani", lasciando agli immigrati gli eventuali "avanzi". Apparentemente si tratta di una prospettiva realistica, praticabile ed efficace, che, tra l’altro,  nella sua versione più esplicita ed aggressiva portata avanti dalle formazioni dell’estrema destra, sta penetrando nel proletariato giovanile (e non solo in Italia, si pensi alla Grecia o alla Francia). C’è però un doppio "problema". Primo. Arginare o fermare l’immigrazione è una pia illusione. L’immigrazione di massa è inarrestabile perché è strutturalmente generata dal modo stesso di funzionare del capitale internazionale. Milioni di immigrati qui sono, qui resteranno e qui continueranno ad affluire per la loro volontà incrollabile di liberarsi dalla fame, dalla miseria e dalle devastazioni a cui i loro paesi sono costretti e di conquistare una vita migliore e più degna per se stessi e per i loro figli. Nessun "argine" può reggere davanti a tali "motivazioni". Nello stesso tempo, la loro manodopera è ricercata dai padroni italiani ed europei. Ne hanno bisogno nelle fabbriche e nei cantieri. Ne hanno bisogno per allargare la massa di disoccupati e di precari da mettere in concorrenza con i lavoratori occupati (autoctoni e immigrati) e così per costringere questi ultimi a piegarsi ai ricatti dei padroni. Secondo. La politica del "Non facciamoli arrivare!" con il suo corredo di misure poliziesche, di permessi di soggiorno pericolanti, di controlli nelle strade e di fogli di via, lungi dal fermare l’arrivo degli immigrati, ha una sola conseguenza: quella di rendere gli immigrati più deboli, anche nella funzione di (involontaria) arma di ricatto nelle mani dei padroni verso i lavoratori italiani. A questo conduce anche la politica del "Prima gli italiani!". Nell’uno e nell’altro caso, quello che appare un salvagente per il lavoratore italiano è, in realtà, una palla di piombo al suo piede.

I "muri contro gli immigrati" servono solo a dividere, a contrapporre e a indebolire tutti i lavoratori, ad alimentarne la concorrenza reciproca e ad incatenarli alle "ragioni" e alle esigenze delle "proprie" imprese, della "propria" nazione e del mercato. Per difendersi dagli effetti corrosivi di questa situazione creata dai padroni, dal governo e dal sistema sociale capitalistico va ingaggiata una lotta, difficilissima, per abbattere i muri che oggi dividono e contrappongono i lavoratori immigrati e quelli italiani, europei. Questo richiede un lavoro politico che punti a gettare le basi per un programma e un’organizzazione di lotta comuni tra i proletari autoctoni ed immigrati. E che, in vista di questo obiettivo, sostenga la rivendicazione del pieno riconoscimento dei diritti dei lavoratori immigrati, si batta per la parificazione completa con quelli degli italiani, denunci il vero obiettivo della militarizzazione del Mediterraneo, la quale, lungi dal servire a "soccorrere i naufraghi", punta a creare una sorta di rete a maglie strette per "educare", "filtrare" e terrorizzare preventivamente quanti si imbarcano dal Nordafrica per raggiungere l’Italia e l’Europa e quell’85% dei lavoratori immigrati che arriva in Italia per altre vie: chi riesce a passare e ad approdare sulle coste del "bel paese" deve sentirsi fortunato, grato di essere ancora vivo e soprattutto scoraggiato nel rivendicare diritti e condizioni umane.

Piaccia o meno, l’alternativa a questa battaglia politica è una sola: puntare a difendersi da soli, come italiani, affossando altri lavoratori e ritrovarsi pian piano affondati insieme ai proletari immigrati.

La politica sull’immigrazione del governo Letta

Chi non ha invece ostentato la minima indifferenza è stato il governo italiano. Al suo interno, subito dopo la strage, è riemerso il contrasto tra due versioni della politica borghese sull’immigrazione. Da una parte quella portata avanti soprattutto da Alfano, il quale, anche se on toni relativamente mitigati, ha richiesto la continuazione della classica politica del centrodestra imperniata sulla centralità delle norme legislative ed amministrative di stampo prettamente repressivo. Dall’altra parte c’è la versione che ha nel presidente del consiglio uno dei suoi sostenitori e che mira ad affiancare agli strumenti repressivi alcune misure "finalizzate all’integrazione" dei lavoratori immigrati.

Al di là degli esiti a breve termine, è questa seconda visione quella destinata a prevalere. Perché, come rilevano Letta e un’importante quota dei "poteri forti" italiani ed europei, il rapporto con i cinque milioni di immigrati in Italia e con le decine di milioni in Europa non può più essere di tipo quasi esclusivamente repressivo.

Il ruolo e il peso che questi proletari hanno nell’apparato produttivo italiano ed europeo non è marginale. Le borghesie europee hanno, anzi, bisogno di aumentare la presenza dei lavoratori immigrati, per compensare le loro decrescenti curve demografiche, rimpinguare l’"esercito industriale di riserva" con cui tenere sotto costante ricatto la massa dei proletari occupati, europei ed immigrati. Un "fenomeno sociale" di tale dimensione numerica e geografica non può essere gestito solo con il "bastone".

Per questo, sottolinea Letta, è necessario che tutti i membri dell’Ue accettino di armonizzare in tal senso le rispettive legislazioni e mettano in campo una comune politica continentale. Al "bastone" (che deve rimanere) va affiancato il "coinvolgimento". Il proletario immigrato deve in prospettiva cominciare a potersi sentire "parte della nuova patria" e sempre più "spontaneamente" legato ad essa ed ai suoi destini. Il dibattito "italiano" sullo ius soli, la discussione sulla cancellazione del reato di clandestinità e sul superamento della Bossi-Fini, le misure in discussione in Germania tese a gettare le basi affinché l’immigrato non sia più relegato nel tradizionale ruolo di "lavoratore ospite" che tanti frutti ha portato alla prosperità delle imprese tedesche, sono i primi passi di questo "nuovo" indirizzo politico borghese.

Ad esso guardano con favore anche tanti lavoratori immigrati. Essi nutrono la speranza che tali "aperture" eliminino o alleggeriscano le mille discriminazioni a cui sono quotidianamente sottoposti. Questa speranza non è priva di qualche fondamento, poiché la politica perorata da Letta potrebbe portare a piccoli miglioramenti immediati rispetto alle pratiche del periodo berlusconiano. Ma a che prezzo?

Al prezzo di incatenarsi mani e piedi al carro dei governi europei e di supportarne l’azione anche quando essa è mirata contro i paesi e i popoli da cui provengono gli immigrati stessi. Al prezzo di rinunciare "spontaneamente" alla prospettiva di difendersi collettivamente attraverso l’organizzazione e la mobilitazione. Al prezzo di vedere negli altri lavoratori, e soprattutto nei proletari del Sud del mondo che stanno progettando o progetteranno di trasferirsi in Europa, dei concorrenti che minacciano la "tranquillità" appena ottenuta. Al prezzo di dismettere preventivamente le uniche armi, quelle della lotta e dell’auto-organizzazione e dell’autonomia dalle istituzioni statali, con cui si può davvero contrastare il super-sfruttamento, il razzismo e la concorrenza al ribasso tra proletari.

Note

(1) Secondo stime basate sulle notizie pubblicate sulla stampa internazionale, sarebbero oltre 20mila le persone morte negli ultimi 25 anni nel tratto di Mediterraneo che separa le coste dell’Africa dall’Italia e dall’Europa.

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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