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Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

Com'era bello il colonialismo italiano in Ucraina e in Russia!

Il colonialismo italiano allungò le sue mani avide anche sulla Russia e sull’Ucraina. Sulla vicenda "la repubblica democratica nata dalla Resistenza" ha steso un ferreo silenzio. Se se ne parla, lo si fa per presentare i militari italiani come vittime degli infidi e spietati tedeschi e dell’ostile ambiente naturale. Che sfacciataggine! Gli invasori, i colonialisti, gli aggressori trasformati in vittime!

Il corpo di spedizione italiano partì nell’estate 1941. Obiettivo: partecipare all’operazione Barbarossa, la guerra di conquista della Russia avviata dal Terzo Reich il 22 giugno 1941. Mese dopo mese il contingente italiano (inizialmente chiamato Csir) crebbe fino a diventare un’armata di 229 mila uomini (la cosiddetta Armir). È vero che la direzione delle operazioni militari sul fronte orientale rimase nelle mani della Germania nazista. Ma l’Italia sostenne e partecipò a pieno (con alcuni dei suoi più moderni reparti militari) a queste operazioni per partecipare alla spartizione dell’immenso bottino dell’Unione Sovietica, "un paese che aveva tutto quello che mancava in Italia e di cui ci si voleva impossessare: grano, carbone, petrolio, metalli e materiale bellico di ogni tipo": "nel luglio 1941 il sottosegretario per le fabbricazioni di guerra, il generale Carlo Favagrossa, si aspettava di poter mettere le mani su queste risorse entro la fine dell’anno" (Thomas Schlemmer, Aggressori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Bari, 2009, p. 13).

Nel dicembre 1941 la Germania e l’Italia non erano ancora riuscite a conquistare Mosca (non vi riusciranno neanche dopo), ma il territorio dell’Unione Sovietica occupato dalle loro armate in pochi mesi fu ugualmente esteso e ricco (v. cartina). All’Italia (che contemporeneamente stava facendo sentire la sua sferza agli slavi dei Balcani con l’occupazione della Jugoslavia e dell’Albania) fu assegnato il controllo della zona industriale di Donetsk, già allora uno dei maggiori poli economici dell’Unione Sovietica. La zona fu saccheggiata delle sue risorse, naturali e umane.

Le divisioni italiane sul Don avevano l’incarico di reperire e sfruttare le risorse locali. Lo scopo non era solo quello di garantire i rifornimenti delle truppe, ma anche di inviare cereali, metalli, manufatti in Italia per sostenere la macchina bellica nazionale. "In un importante memorandum del 15 giugno 1942 il generale intendente Carlo Biglino dava disposizioni ai suoi subalterni sull’organizzazione dei servizi logistici sul fronte russo: «Utilizzare al massimo le risorse locali, di qualunque genere e specie, in particolare grano o farina, carne, fieno, orzo o avena. […] In relazione a questo sfruttamento delle risorse provvederò ad assegnare agli uffici [appositi] i militari che per i loro precedenti civili siano in grado di dar vista a questo sfruttamento; sfruttamento, come ho detto e come ripeto, integrale, radicale, fatto senza pietà, come se da tergo [cioè dalle retrovie italiane] non dovesse giungere nulla»" (pp. 53-54, le espressioni in grassetto sono messe in evidenza nella circolare).

Sfruttamento integrale volle dire anche usare i prigionieri di guerra e la forza lavoro locale, che "vennero sfruttati sistematicamente e adibiti a ogni tipo di servizio per alleggerire il lavoro degli italiani", mietitura, taglio della legna, costruzione e riparazione degli alloggiamenti e delle trincee militari (p. 97). Un artigliere della divisione "Sforza" il 18 dicembre 1942 raccontò in una lettera alla famiglia: "Se non ci va il rancio, c’è sempre il modo di arrangiarsi. Basta fare una piccola escursione e troviamo prodotti vari per un mese intero. […] Mandiamo a pulire e stirare la biancheria; se si oppongono, pretendiamo il servizio con la forza. Devono fare tutto quello che vogliamo noi, se no li E sfruttamento integrale volle dire, ovviamente, anche induzione alla prostituzione delle donne ucraine e russe, sia nei postriboli organizzati dai vertici militari a Rykovo, Vorolosivgrad e a Gomel, che nelle case delle famiglie russe e ucraine in cui i militari italiani mettevano piede Mentre l’opera di civilizzazione italiana andava avanti e toccava con mano le ricchezze dell’Ucraina e della Russia, a Roma si misero a punto piani per lo sfruttamento a lungo termine delle miniere, degli stabilimenti metallurgici e delle aziende agricole. "Il ministero degli scambi e valute elaborò un progetto che prevedeva la coltivazione di grano su una superficie di un miliione di ettari nelle zone fertili della Russia.

 Il ministero dell’agricoltura riteneva di poter coltivare sei, sette milioni di ettari. I 12-14 mila kolchozy che si trovavano nella zona dovevano essere gestiti da manodopera locale sotto la direzione di 13-14 mila esperti italiani" (p. 31).

Diversamente da quanto trasmettono le scenette accomodanti raccontate dei reduci, la popolazione ucraina e russa non guardò affatto con simpatia e comprensione ai reparti italiani e alla loro opera di spoliazione.

All’ostilità crescente della popolazione civile composta da donne, vecchi e bambini, di cui parlano le stesse relazioni ufficiali "sullo spirito delle truppe e della popolazione dei territori occupati", si aggiunsero, ben presto, le azioni dei gruppi partigiani contro l’apparato logistico usato dagli occupanti (magazzini, treni, ponti). La repressione di queste azioni e di ogni atto di ribellione fu spietata.

Le disposizioni ufficiali sul mantenimento dell’ordine pubblico stabilivano che gli abitanti trovati senza permesso di circolazione tra un centro urbano e l’altro o in possesso di un’arma venissero uccisi all’istante. Le forze armate italiane si avvalsero di collaboratori locali, in particolare gli starosty, scelti sulla base delle informazioni fornite dai reparti dei carabinieri e dall’ufficio controspionaggio.

"Gli starosty erano responsabili in prima persona di tutto ciò che avveniva nella loro sfera di competenza e ne rispondevano con la vita se mancavano di segnalare alle truppe di occupazione i partigiani, lespie paracadutate o i sabotatori.

Uno dei loro primi compiti era quello di fornire agli occupanti informazioni sulla popolazione ed effettuare una sorta di censimento; quando compilavano le liste degli abitanti dovevano contrassegnare in modo speciale chi si era trasferito dopo il 22 giugno 1941, chi apparteneva al partito comunista e chi era noto come ebreo" (p. 52). A svolgere un ruolo speciale nel mantenimento dell’ordine nel territorio occupato erano i reparti dei carabinieri, con i loro sistematici rastrellamenti, arresti, interrogatori, trasferimenti dei prigionieri e degli arrestati nei campi di concentramento (italiani o tedeschi) (vedi in particolare le pp. 61-62 del testo citato).

Un esempio per tutti illustra la presunta "diversità" del comportamento delle truppe di occupazione italiane rispetto a quelle tedesche. Nel gennaiofebbraio 1943 a Pavlograd, all’avvicinarsi dell’esercito dell’Urss, si verificò un’insurrezione contro l’occupazione italiana e tedesca. "Gli scontri si svolsero soprattutto all’interno di una fabbrica, che fu circondata e incendiata. Nella sua relazione sui combattimenti, il comandante delle truppe alleate, il colonnello Carloni, raccontò: «Italiani e tedeschi penetrano all’interno della fabbrica e [si] incomincia il lavoro di sterminio degli insorti; alcuni, approfittando della notte, cercano di sfuggire ma sono passati per le armi dopo una lotta serrata nei sotterranei della fabbrica. [...]

Tra i morti vi è anche il capo dei partigiani di Pavlograd -ex tenente dell’esercito sovietico e in atto comandante della polizia ausiliaria della città. [...] Allo scopo di completare l’efficacia dell’esempio dato, viene decisa l’esecuzione capitale di 5 fra gli arrestati nella fabbrica, eseguita per impiccagione il giorno successivo nella piazza principale della città»" (pp. 64-65).

La presa dell’Italia e della Germania sull’Ucraina e sui territori dell’ex-Unione Sovietica fu mollata solo per effetto della potenza militare della ex-Urss e della resistenza popolare.

È vero che la campagna di Russia non era nell’interesse dei tanti contadini poveri e proletari italiani reclutati nelle file del Csir e poi dell’Armir. Ciò non cambia, tuttavia, la natura imperialista, colonialista della campagna militare, rivolta, in ultima istanza, anche contro di loro. Coloro che giunsero a intuirlo, lo fecero anche grazie alla bruciante batosta inflitta all’Armir dagli sfruttati e dai popoli aggrediti dell’Ucraina e della Russia.

Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

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